Multinazionali dell’aborto alla «conquista» dell’America Latina

Assalto all’America Latina


Colombia e Brasile sono il teatro di una guerra lanciata dalle lobby internazionali per legalizzare l’aborto nel Continente. Vero obiettivo è colpire la Chiesa Cattolica. Ecco con quale strategia e chi sono i protagonisti…


di Riccardo Cascioli

È una guerra che infiamma tutta l’America Latina, e Colombia e Brasile ne sono il teatro principale. Parliamo della guerra lanciata dalle grandi multinazionali della contraccezione e dell’aborto per rovesciare le legislazioni latino americane che vietano o limitano l’aborto. Questo continente, a maggioranza cattolica e l’unico dove l’interruzione di gravidanza sia quasi ovunque proibita, è da molti anni nel mirino delle lobby abortiste che fanno capo al Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA), ma l’offensiva è ora ad un punto cruciale e nel giro di pochi mesi la situazione si potrebbe rovesciare.
La Colombia è al momento il punto più caldo: entro dicembre è prevista la sentenza della Corte Costituzionale che deve decidere sul ricorso presentato l’aprile scorso da un giovane avvocato, Monica Roa, secondo cui il divieto totale di aborto sarebbe incostituzionale e violerebbe i trattati internazionali cui il Paese ha aderito. La Colombia è tra i pochissimi Paesi dove è vietata ogni forma di aborto, e Monica Roa chiede che sia legalizzato almeno nei casi di stupro, di rischi per la salute e la vita della madre, di grave malformazione del feto. La cosa più interessante è però la dimensione internazionale che ha preso la vicenda, a dimostrazione di quanto alta sia la posta in gioco. Monica Roa lavora per la Women’s Link Worldwide, gruppo internazionale femminista che lotta per il riconoscimento del diritto all’aborto, finanziato tra gli altri dalla Fondazione Ford, dall’Open Society Institute del finanziere George Soros, dalla Fondazione Libra e dalla Fondazione Wallace Alexander Gerbode.
La Colombia è uno dei sei Paesi interessati dal progetto della Women’s Link denominato Gender Justice (Giustizia di genere), che si propone di cambiare la società attraverso la magistratura, ovvero ricorrendo alle singole Corti Supreme o Costituzionali dopo che esperti avvocati hanno studiato dei casi legali ad hoc (per la cronaca gli altri Paesi interessati dal progetto, oltre alla Colombia, sono Spagna, Polonia, Sudafrica, Thailandìa e Australia). Women’s Link ovviamente lavora in concerto con le altre potenti organizzazioni internazionali del ramo, e allora non sorprende che nelle ultime settimane il presidente della Corte Costituzionale colombiana, giudice Alvaro Tofur, sia stato sommerso da lettere, documenti, prese di posizione di organizzazioni abortiste nonché di scuole di diritto internazionale come quelle di Yale e Harward. Tra i gruppi che stanno facendo pressione sui giudici colombiani vale la pena segnalare l’International Planned Parenthood Federation (IPPF, principale partner del Fondo ONU per la Popolazione), i soliti Catholics For a Free Choice (CFFC, Cattolici per la libera scelta, che giocano un ruolo chiave per portare confusione in Paesi a maggioranza cattolica) e addirittura la Swedish Association for Sexuality Education (Associazione svedese per l’educazione alla sessualità).
I punti essenziali su cui insistono costoro sono il “diritto alla vita”, nel caso della donna messo in questione dall’aborto clandestino che si presume essere la terza causa di mortalità materna, il “diritto alla salute” della donna, anche qui messo a rischio dagli “aborti insicuri”, e il diritto all’uguaglianza di genere (la penalizzazione dell’aborto sarebbe una forma di discriminazione). Per quanto poi riguarda i CFFC, la strategia è sempre la solita, ovvero presentare pseudo-teologi che sostengono che si può essere ottimi cattolici disobbedendo al Magistero in nome del primato della coscienza individuale, presentato come vero fondamento della fede cattolica. Come non bastasse, a dare man forte allo schieramento per l’aborto in Colombia è sceso in campo anche il settimanale britannico The Economist (numero del 27 ottobre), espressione della grande finanza che ha nella City londinese la sua capitale.
Contro questo schieramento cosa potrà mai la volontà del popolo colombiano, in maggioranza contrario alla legalizzazione dell’aborto, tanto che sono state presentate alla Corte Costituzionale due milioni di firme per contrastare le richieste di Monica Roa?


Contemporaneamente in Brasile si sta combattendo una battaglia analoga, con il governo del presidente Lula che ha impresso un’accelerazione improvvisa a un processo già in corso da anni. Basti pensare che già nel 1991 il deputato Eduardo Jorge presentò un progetto di legge (no. 1135) che intendeva abrogare l’articolo 124 del Codice Penale, dove si afferma che l’aborto è un delitto. Ebbene quel progetto non era mai stato discusso, al pari di tanti altri presentati successivamente. Ma a fine settembre, improvvisamente è stato messo in calendario alla Commissione parlamentare sulla Sicurezza Sociale un testo sostitutivo del progetto del 1991, che non solo depenalizza l’aborto, malo rende possibile su richiesta e senza alcun tipo di limitazione (neanche temporale). Il testo peraltro è stato redatto da una Commissione istituita dal governo e da cui sono stati esclusi tutti gli esperti “non allineati”. In Brasile la legge già ammette oggi la legittimità dell’aborto, sebbene circoscritto ai casi di stupro e di grave rischio per la salute della donna, ma in luglio il ministero della Sanità aveva già approvato le norme attuative di questa legge, che impongono al medico di credere alla parola della donna “stuprata”, impediscono l’obiezione di coscienza dei medici e li obbligano a praticare l’aborto fino al 5° mese di gravidanza. Se passasse la nuova legge, verrebbe esplicitamente sancito il diritto all’aborto, possibile addirittura fino al nono mese nei casi di grave malattia del bambino. Realisticamente è difficile che questa legge possa essere approvata in questa occasione, ma il primo obiettivo dei proponenti è quello di aprire un “dibattito” nel Paese.
Anche qui pensare che si tratti di un fatto esclusivamente interno è pura ingenuità. Le solite Fondazioni (Rockefeller, Ford, MacArthur) e l’International Women’s Health Coalition   tanto per citarne alcune   lavorano sodo per promuovere l’aborto: si calcola che tutte insieme investano qualcosa come 20 milioni di dollari l’anno per sostenere le attività di oltre 200 organizzazioni non governative che hanno come primo obiettivo la promozione dell’aborto. “Conquistare” l’America Latina significherebbe per questi gruppi assestare un duro colpo alla Chiesa cattolica, rimasta l’unico vero ostacolo sulla strada della riduzione dell’uomo a puro oggetto.


Riccardo Cascioli – Il Timone – nº 49 – Dicembre 2005