Relazione di Mons. Caffarra su mass media e verità

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Informazione e barbarie: se togliamo le radici della verità a che servono i mass media?


Relazione tenuta presso l’Istituto Veritatis Splendor in occasione della “Festa Regionale di S. Francesco di Sales, Patrono dei giornalisti”

Domande dei giornalisti:
1) La responsabilità dei giornalisti è scegliere le parole in modo efficace al servizio della verità. Purtroppo le parole si sprecano, si banalizzano e vince la superficialità. Come recuperare il senso della parola?
2) Il titolo di questo incontro centra un problema grave e reale. Siamo preoccupati per il progressivo imbarbarimento in atto nel mondo della comunicazione che trasforma i giornali in agenzie di parte pregiudizialmente schierate contro qualcuno.
Uno degli esempi è il modo con cui le prese di posizione della Chiesa sulla morale o sulla convivenza civile vengono accolte con “pallottole di carta”, per usare una espressione del Cardinale Camillo Ruini. Questo modo errato di affrontare la realtà non è forse favorito da una concezione sbagliata e ideologica della laicità? Ci può aiutare a capire meglio e a proporre un‚idea di laicità che sia più adeguata al tempo presente e che non induca a considerare la presenza viva della Chiesa come un corpo estraneo da espellere dalla società civile?
3) Capita, talvolta, di trovare posizioni di settori della stampa che su un determinato tema non sono in sintonia con il sentire comune. Pensano e scrivono in modo difforme dal pensiero di quella che si definisce l’opinione pubblica. Il caso più eclatante lo abbiamo riscontrato con il referendum dello scorso anno sulla procreazione assistita. Viene così da chiedersi, intanto se esiste ancora un’entità definibile come opinione pubblica. Se sì, il quesito successivo è: ma oggi, chi è capace di rappresentarla nel nostro contesto sociale e mass mediatico?


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Preferisco svolgere la mia riflessione partendo dalle tre domande che mi avete fatto . Infatti presentano nel loro insieme i nodi teoretici di quanto andremo oggi dicendo.
La mia esposizione seguente, tentativo di dare risposta alle vostre domande, non so quale valore possa avere, dato il mio approccio al problema. Un approccio compiuto piuttosto da lettore più che da scrittore o editore: da “fruitore del prodotto”, come purtroppo oggi si dice. In ogni caso è l’unica prospettiva da cui mi posso mettere. Se vi avrò offerto qualche spunto di riflessione, avrò già raggiunto il mio scopo.

1. Parto da una domanda così semplice che quasi dovrei vergognarmi di porla ad un pubblico come il vostro: a che cosa è ordinata la “newsmaking”, il complesso sistema di produzione di notizie? Non voglio ripetere quanto già vi dissi lo scorso anno e lo presuppongo.La risposta su cui ancora tutti convergono è che mira all’informazione, la quale nel contesto di un sistema democratico è via necessaria per formarsi un proprio giudizio in ordine ad una deliberazione.
Questa risposta è scontata ed ovvia però solo in apparenza. In realtà essa include un groviglio di problemi di non facile soluzione. Essa infatti introduce il complesso sistema di produzione delle notizie – continuo a chiamarlo in questo modo – dentro alla teoria e prassi della democrazia politica. È necessario quindi premettere la domanda: quale democrazia? A quale tipo di democrazia facciamo riferimento dentro a definizioni meramente formali?Continuando in quest’opera di dipanamento del groviglio di problemi, di cui parlavo, non dobbiamo passare sotto silenzio quel termine che per così dire costituisce la porta d’ingresso del “newsmaking” nella democrazia: la deliberazione del cittadino. Nel senso che si trasmette notizia, si fa informazione, perché ciascuno possa deliberare circa la vita associata ed i suoi problemi, tanto quanto dipende da lui. Vorrei proprio partire da questo punto perché esso costituisce il telos, direbbero i greci, dell’attività giornalistica.
Nell’ancora a mio giudizio insuperata analisi che Tommaso fa dell’agire umano in quanto tale, in quanto cioè atto della persona [actus humanus], egli da’ un’importanza decisiva al momento deliberativo. La deliberazione consiste in una valutazione di ciò che si conosce, compiuta generalmente in ordine al giudizio mediante cui la persona progetta l’azione da compiere e alla scelta-decisione consapevole e responsabile di compiere effettivamente l’azione progettata. Più brevemente: è una valutazione che genera un giudizio [su che cosa fare] e la scelta. Valutare per dare un giudizio e compiere una scelta: questo significa deliberare.
La parola stessa – deliberare – merita di essere attesa anche nel suo etimo. De-liberazione: da che cosa? da una risposta istintiva o conformista o eteronoma o meramente relativa a quanto mi è stato fatto conoscere. Deliberazione: per che cosa? Per produrre una risposta ragionevole e responsabile a quanto mi è stato fatto conoscere.
La seconda cosa su cui desidero attirare la vostra attenzione nella descrizione che sto facendo della deliberazione, e che ne costituisce il nucleo essenziale, è la valutazione.La valutazione è dare un giudizio di valore circa quanto intendo compiere in ordine al raggiungimento di scopi che voglio perseguire. Ci può essere una valutazione istintiva, conformista, eteronoma; ma ci può essere una valutazione razionale, se gli scopi rispetto ai quali mi propongo di agire, sono beni moralmente rilevanti per la realizzazione del bene umano proprio della relazione sociale.
Supposto dunque che il newsmaking si proponga di aiutare l’interlocutore a deliberare ragionevolmente e responsabilmente, quali conseguenze derivano per la qualità dell’informazione? Come cioè deve essere il newsmaking se si propone di aiutare a deliberare ragionevolmente e responsabilmente? L’informazione deve essere tanto completa, tanto imparziale, tanto discorsiva, quanto è richiesto perché l’interlocutore possa formarsi un giudizio valutativo ragionevole e responsabile. Tanto – quanto, ho detto. Non sono infatti così inesperto da ritenere che sia possibile una informazione completa, totalmente imparziale, ed esclusivamente discorsiva senza alcune inclusione emotiva.
Vorrei fermarmi brevemente su ciascuna di queste tre qualità. La completezza riguarda gli elementi essenziali della notizia trattata e non gli elementi secondati anche se emotivamente più accattivanti. L’imparzialità connota la tensione almeno a non limitarsi ad esporre il proprio punto di vista, ma a far emergere anche altri punti di vista, argomentando eventualmente a favore del proprio e contraddicendo razionalmente gli altri. Il grado di discorsività è di importanza fondamentale. “spettacolarizzazione, semplicismo, personalizzazione: dalle tendenze che oggi segnano profondamente il prodotto dei Grandi conformisti il giornalismo autonomo rimane estraneo” [M. Niro, Verità e informazione. Critica del giornalismo contemporaneo, edizioni Dedalo, Bari 2005, pag. 334. Questo testo mi è stato particolarmente utile e fonte di ispirazione per queste pagine].
La prima domanda che mi era stata posta chiedeva come recuperare il senso della parola. Ho dato una prima non ancora completa risposta: facendola veicolo di una informazione capace di educare alla deliberazione ragionevole e responsabile. Era già la grande intuizione socratica circa la comunicazione interpersonale.

2. Questo secondo momento della mia riflessione si assume il carico, il tentativo di rispondere alla domanda: quale democrazia? Tenendo presente la grave questione fattami dal presidente del Club S. Chiara.
Esiste un rapporto fra quanto detto finora e questo ulteriore sviluppo della nostra riflessione. Chiunque infatti concorda nella convinzione che il sistema democratico debba oggi andare sempre più verso una partecipazione deliberativa del cittadino, anche se gli ambiti e la natura di questa partecipazione sono diversi. Ma non credo che in ordine allo scopo che mi prefiggo ora, sia necessario scendere ad ulteriori precisazioni.
La vera materia del contendere verte su che cosa si possa/non si possa deliberare quando si discute per la costruzione della città, e quindi quali sono i criteri ultimi – l’orizzonte ultimo di senso – in base ai quali operare quella valutazione di cui ho già lungamente parlato sopra. Volendo stringere ancora di più nei suoi termini essenziali la domanda: è legittimo introdurre nel dibattito pubblico [in ordine alla valutazione] la propria concezione di vita buona?Devo costruire la risposta a questa domanda partendo un poco … da lontano. Una volta data la risposta, ritorneremo al nostro tema specifico.
La nozione di laicità oggi largamente condivisa sostiene la neutralità e l’imparzialità di ogni istituzione pubblica nel confronti di tutte le concezioni di vita buona presenti nella società. Nessun orizzonte di senso deve essere considerato in modo privilegiato.Neutralità ed imparzialità anche a livello argomentativo, giustificativo: e la cosa nel contesto della nostra riflessione è assai importante. La legittimazione di valutazioni e decisioni pubbliche deve prescindere, deve astenersi dal fondarsi su una concezione di vita buona, su un orizzonte di senso a preferenza di altre/i.
Questa definizione e pratica di laicità trova la sua spiegazione ultima non nell’ovvia constatazione del fatto del pluralismo di concezioni di vita buona, ma nell’affermazione che tutte hanno lo stesso valore pur essendo contrarie [relativismo etico], oppure che non possiamo parlare e pensare in termini di verità/falsità di una concezione di vita buona ponendosi queste fuori del discorso propriamente veritativo [agnosticismo etico].
Fermiamoci per il momento nella descrizione del comune significato di laicità. E domandiamoci: se pensiamo e viviamo la vita associata secondo questa figura, con questo stile, quale figura e stile assumerà il complesso sistema di produzione di notizie? Diventa, rischia di diventare esercizio di potere, di sottomissione al “principe”; difficilmente si libera dall’insidia del conformismo. Quindi: uno stile di dipendenza e di conformismo.
Partiamo da una riflessione generale. Il confronto sociale, pubblico in ordine alla deliberazione muta profondamente, essenzialmente, a seconda che si affermi o si neghi – come presupposto del confronto medesimo – che esiste una verità circa il bene della persona.Se si afferma l’esistenza di questa verità, «la controversia sulle ragioni delle convinzioni … non è mai una controversia fra rivali. Essa diviene luogo e occasione per scoprire l’altro come uno che “vuole la stessa cosa e non la vuole” [idem velle et nolle] così come io stesso … Diviene un incontro tra alleati nella ricerca comune della verità che supera ugualmente tutti e due, e che è unica. La controversia sulla verità li lega poiché aiuta a oltrepassare se stessi nella sua direzione e pertanto diventare maggiormente se stessi» [T. Styczen, in K. Wojtyla, Persona e atto, Rusconi libri, Milano 1999, pag. 716].
In una tale configurazione del dibattito pubblico, la newsmaking si configura come momento costitutivo del dibattito medesimo. Essa si sentirà obbligata ad elevare il grado di discorsività ed abbassare quello dell’emotività; ad essere imparziale nel senso di una presa in seria considerazione del punto di vista anche diverso dal proprio, senza pregiudizio e senza farne una caricatura e senza classificarlo secondo schemi preconcetti.
E qui trovo la risposta più profonda alla prima domanda. Le parole recuperano il loro senso quando sono veicolo della realtà e pertanto aiutano l’interlocutore ad aprirsi alla realtà. Ma se le parole sono nuda nomina, quale senso e quale valore può avere l’interlocuzione umana? Usando il vocabolario pascaliano diventa un “divertissement”: il parlare ozioso dal quale così spesso i grandi maestri di spirito, a cominciare dai Padri del deserto, mettono in guardia.Se si nega che esista una verità circa il bene della persona, a me sembra inevitabile che la controversia sulle ragioni delle convinzioni diventi lo scontro per imporre il proprio punto di vista sull’altro. Un’imposizione che non può non essere che la vittoria di un potere più forte sul più debole.
In una tale configurazione del dibattito pubblico, il complesso sistema di produzione delle notizie non può – mi sembra – non rischiare di rendere impraticabile, perché è ritenuta impensabile [cioè impossibile], l’imparzialità e la completezza: non è l’aiuto a valutare secondo verità, ma a persuadere al consenso al potere cui si serve. In una prospettiva del genere, il tasso di emotività con cui la notizia è trasmessa sarà sempre più elevato e sempre più abbassato il grado di discorsività: spettacolarizzazione, semplicismo, personalizzazione. In questo senso parlavo di stile di dipendenza. Ed anche parlavo dell’insidia del conformismo. Nel senso che dentro al contrasto di cui sto parlando è difficile pensare ad un’attitudine di opposizione ideale di vera autonomia.
Ed ovviamente il senso originario delle parole, dell’interlocuzione umana viene smarrito pressoché completamente.
Non mi e non vi nascondo che questa riflessione potrebbe essere contestata radicalmente con la seguente obiezione: precisamente perché nella società di oggi convivono contrarie concezioni di vita buona, contrari orizzonti di senso; precisamente perché la scelta di una a preferenza di altre come legittimazione delle valutazioni-deliberazioni pubbliche, creerebbe conflitti dirompenti la compagine sociale, si deve prescindere da motivazioni parziali. Insomma: solo quella configurazione pubblica della vita associata assicura una comunicazione di notizie autonoma.
Siamo veramente al “nodo” della questione, a cui rispondo che quell’idea di laicità è impraticabile, e di fatto non è praticata neppure da chi la propone. Infatti essa fa propria una precisa idea di autonomia del soggetto, di ragione e quindi di verità, che portano a giudicare le concezioni del bene come a-veritative. Ora non è chi non vede che questa è una scelta di una precisa visione ed interpretazione della realtà, di una precisa antropologia. Inoltre anche questa configurazione della vita associata non può concedere – ed di fatto non concede – uguale ospitalità a tutte le concezioni. Essa infatti ha elaborato la categoria dei tolleranza, che per definizione non mette sullo stesso piano chi tollera e ciò che è tollerato.Dunque: visto che non si può eliminare ogni orizzonte ultimo di senso; visto che non si può eliminare ogni referente come base per l’argomentazione pubblica, delle due l’una. Questo “riferirsi” o è motivato dal relativismo o agnosticismo etico oppure presuppone l’esistenza di una verità circa il bene e la possibilità di conoscerla. La tesi che ho esposto è semplicemente la seguente: lo “stile” del newsmaking cambia sostanzialmente a seconda che essa si ponga e si pratichi dentro all’uno o all’altro contesto.
La mia riflessione cioè ha due livelli. L’uno è costituito dalla risposta alla domanda se una certa idea di laicità è praticabile; l’altro, supposta la risposta negativa, considera due ipotesi oggi prevalenti e praticate, e dentro ad esse quale tipo di comunicazione di massa ne deriva.

3. Sono così arrivato all’ultimo punto della mia riflessione. Di grande importanza, introdotto dalla terza domanda che mi è stata fatta. Sarò breve, non perché questo aspetto del problema sia di secondaria importanza, ma perché la riflessione ha ormai il carattere oserei dire di corollario di quanto ho già detto.
Il fatto accaduto in occasione del referendum sulla procreazione assistita dona parecchia materia di riflessione: è accaduta una totale sfasatura fra i grandi mezzi della comunicazione sociale ed il “sentire” del popolo.
Parto dal richiamare l’attenzione sul tema, sull’argomento referendario. Era un tema attinente ad un’esperienza umana fondamentale e quindi ad uno dei momenti rivelativi fondamentali della vita: l’esperienza della generazione.
Orbene, si scontrarono due concezioni. L’una che affermava la neutralità simbolica dell’atto generativo; l’altra che affermava la naturale simbolicità del medesimo. La negazione sottomette coerentemente il generare umano alla logica produttiva del fare: lo rende pienamente omologabile all’universo tecnologico. L’affermazione custodisce la logica etica dell’agire come logica propria dell’atto generativo: lo rende un corpo estraneo all’universo tecnologico.
Non penso di cadere in un rozzo semplicismo nel dire che la “grande industria” della newsmaking non poteva non optare per la difesa della negazione, per tutto quanto abbiamo detto nei due punti precedenti della riflessione. Quella scelta era pienamente coerente coll’ipotesi che non esista un referente reale all’argomentare pubblico.Che cosa è accaduto? Che il singolo è stato richiamato da alcune voci semplicemente a guardare la realtà del generare umano: la verità-realtà sorella ha consentito di vedere l’embrione-fratello.
Chi è capace di far guardare alla realtà, questo è in grado di dare origine da una “opinione pubblica” che non si accontenti che la gente viva una vita giusta, ma vuole che viva anche una vita buona.

CONCLUSIONE

Vedo la vostra responsabilità molto alta per la preziosità dei valori di cui siete responsabili. Anche voi siete responsabili della deliberazione circa una vita associata giusta e buona: senza di essa la persona non può interamente realizzarsi.
La “potenza educativo-diseducativa” è posta nelle nostre mani, è insita negli strumenti di cui disponete: e la potenza educativa è la più importante di quelle di cui può disporre l’uomo. Più del potere economico; più del potere politico. Poiché essa libera l’uomo dalla peggiore insidia: confondere la realtà con i suoi sogni.
Eraclito diceva assai profondamente: “per i desti il mondo è uno e comune, ma quando prendono sonno si volgono ciascuno al proprio” [Fr 9; Oscar Mondadori, pag. 11].

1) La responsabilità dei giornalisti è scegliere le parole in modo efficace al servizio della verità. Purtroppo le parole si sprecano, si banalizzano e vince la superficialità. Come recuperare il senso della parola?

2) Il titolo di questo incontro centra un problema grave e reale. Siamo preoccupati per il progressivo imbarbarimento in atto nel mondo della comunicazione che trasforma i giornali in agenzie di parte pregiudizialmente schierate contro qualcuno.
Uno degli esempi è il modo con cui le prese di posizione della Chiesa sulla morale o sulla convivenza civile vengono accolte con “pallottole di carta”, per usare una espressione del Cardinale Camillo Ruini. Questo modo errato di affrontare la realtà non è forse favorito da unaconcezione sbagliata e ideologica della laicità? Ci può aiutare a capire meglio e a proporre un‚idea di laicità che sia più adeguata al tempo presente e che non induca a considerare la presenza viva della Chiesa come un corpo estraneo da espellere dalla società civile?

3) Capita, talvolta, di trovare posizioni di settori della stampa che su un determinato tema non sono in sintonia con il sentire comune. Pensano e scrivono in modo difforme dal pensiero di quella che si definisce l’opinione pubblica. Il caso più eclatante lo abbiamo riscontrato con il referendum dello scorso anno sulla procreazione assistita. Viene così da chiedersi, intanto se esiste ancora un’entità definibile come opinione pubblica. Se sì, il quesito successivo è: ma oggi, chi è capace di rappresentarla nel nostro contesto sociale e mass mediatico?

Mons. Caffarra, Arcivescovo di Bologna
21 gennaio 2006