Quanti martiri sotto il minareto

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Un saggio di Camille Eid ricostruisce le vicende dei cristiani che, fin dalle origini dell’islam, hanno pagato con la vita il rifiuto dell’apostasia. Per aver salva la vita i cosiddetti “dhimmi” erano costretti a versare una tassa Ma la loro rimaneva sempre una condizione subalterna, di sottomissione

“Certamente non è bene che si eserciti una pressione in materia di religione, ma bisogna riconoscere che la spada o la frusta sono talvolta più utili della filosofia o della convinzione. E, se la prima generazione non aderisce all’islam che con la lingua, la seconda aderirà anche con il cuore e la terza si considererà come musulmana da sempre”. Nel XII secolo così scriveva al-Ghazali, uno dei massimi pensatori musulmani, a proposito delle conversioni di cristiani all’islam in Maghreb, una terra dove nel 650 (all’inizio della conquista islamica), la popolazione cristiana era stimata in un milione e mezzo su due milioni di abitanti con 470 vescovi, mentre 600 anni più tardi non ve n’era più traccia, in ragione delle conversioni di massa indotte dal processo di islamizzazione, della fuga di molti cristiani e dell’eliminazione fisica di altri.


Nella travolgente espansione dell’islam dalla penisola arabica al Nordafrica e all’Asia le ragioni di carattere militare, economico e politico si fondono con quelle di tipo religioso e spirituale, come era del resto accaduto fin dai tempi di Medina, quando l’iniziale caratterizzazione in senso mistico ed etico della predicazione fatta da Maometto alla Mecca aveva assunto la natura di un progetto globale che riuniva in sé religione, società e Stato. Un progetto che per essere attuato aveva dovuto sottomettere una presenza cristiana preesistente (come appunto in Nordafrica), nei confronti della quale l'”offerta” di un regime di protezione come quello dei dhimmi configurava in termini giuridici una realtà che di fatto sanciva una subordinazione: la possibilità concessa ai cristiani, in origine maggioranza su un territorio ormai conquistato, di esercitare alcuni diritti religiosi in cambio della sottomissione al potere islamico e del pagamento di una tassa.


C’è una dimensione di esplicita violenza, assai meno nota, che ha accompagnato l’espansione islamica, che prende le forme del martirio subito da tanti cristiani “irriducibili” nella professione della fede in Gesù. Oltre 500 sono i casi (spesso riguardanti più di una persona) riesumati dal silenzio della storia per opera di Camille Eid nel libro A morte in nome di Allah. I martiri cristiani dalle origini dell’islam a oggi (Piemme, pagine 224, euro 12,50), un viaggio tanto essenziale nell’esposizione quanto documentato nelle fonti attraverso 14 secoli di espansione islamica.


Risultano piuttosto note grazie a recenti saggi – anche se spesso neglette dai mass media e in fondo sottovalutate nella mentalità dominante – le vicende dei martiri del XX secolo: da quelli del genocidio armeno ai monaci d’Algeria, dai cristiani perseguitati in Sudan a quelli massacrati nelle Molucche e a Timor Est. Assai meno conosciuti i casi che Eid riporta alla luce dopo un lungo oblio e che hanno accompagnato la diffusione dell’islam nel mondo.


Qualche esempio: nel 641, all’inizio della conquista dell’Egitto, il corpo del monaco copto Mena viene tagliato a pezzi e gettato nel Nilo dopo una disputa con il comandante arabo della provincia di al-Minya a proposito della natura di Cristo. E nel 780 il monaco siriano Romano, dopo essere stato catturato nel corso di un’incursione in territorio bizantino e trasferito a Baghdad, riesce ad essere assolto dall’accusa di spionaggio ma non sfugge a un’altra ritenuta più grave e che gli costa la vita: quella di avere ricondotto al cristianesimo alcuni prigionieri bizantini convertiti all’islam. Il primo martire in terra russa è Ibrahim il Bulgaro, un mercante musulmano passato al cristianesimo e che nel corso dei suoi viaggi di lavoro aveva cercato di operare altre conversioni: nel 1229 viene appeso per i piedi e poi decapitato, e dal sedicesimo secolo è proclamato patrono della città di Kazan e protettore di tutti i convertiti dall’islam. Pochi anni prima avevano conosciuto la morte i primi cinque martiri francescani, arrivati in Marocco dopo la decisione del Poverello d’Assisi di far conoscere il Vangelo anche ai musulmani. I cinque, senza tenere conto dei consigli alla prudenza elargiti da Don Pedro, fratello del re portoghese Alfonso II, predicano per le vie di Marrakesh incappando nelle ire del sultano che ne ordina la decapitazione il 16 gennaio del 1219.


Anche se la comprensione adeguata di ogni singolo episodio richiede un’adeguata collocazione nel contesto storico in cui è avvenuto, Eid evidenzia le due principali e ricorrenti accuse che nei secoli hanno “giustificato” islamicamente la soppressione dei cristiani: lesa religione e apostasia. La prima è suscettibile di interpretazioni alquanto labili: è offesa alla religione confutare un precetto musulmano in un dibattito ospitato in un Paese islamico? E lo è, ad esempio, la disapprovazione di un comportamento ammesso come la poligamia? Interrogativi che permangono, come dimostra il caso del Pakistan dove la cosiddetta legge sulla blasfemia prevede la pena di morte per chi offende Maometto e l’ergastolo per quanti offendono il Corano.


L’apostasia viene ritenuta inammissibile in quanto l’islam è il compimento delle profezie che l’hanno preceduto, compreso il cristianesimo, e dunque una religione nella quale si può entrare ma dalla quale non è lecito uscire. Anche se, sui 14 versetti coranici che sanzionano l’apostasia, 13 prevedono una “punizione molto dolorosa nell’aldilà” e soltanto uno parla di “punizione in questo mondo e nell’altro”, nella storia dell’islam è sovente prevalsa l’interpretazione più radicale basata anche su un hadith in cui Maometto afferma: “Chi cambia religione, uccidetelo”. E non è un caso che ancora oggi in alcuni Paesi islamici l’apostasia venga sanzionata con la pena capitale o sia comunque considerata un reato penalmente perseguibile.


Giorgio Paolucci
Avvenire 15/04/2004


 


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