Pera e lo Stato Laico

« L’Europa non si deve arrendere all’Islam »

Pubblichiamo un estratto del discorso che il presidente del Senato Marcello Pera ha tenuto nell’Università Europea di Roma al convegno “L’Europa, radici e confini”.

di Marcello Pera
È noto che da quattro secoli l’Europa si basa su quella che è stata definita la “sintesi di Westfalia”. Lì, nel 1648, si affermò un principio che ha fatto epoca, il principio di separazione tra sfera politica dello Stato, autonomo nei suoi poteri, e sfera religiosa dei cittadini, libera e indipendente dentro i confini dello Stato. Più o meno nello stesso periodo, nella cultura europea, si andò affermando, dopo il processo a Galileo, un analogo principio di separazione, quello tra la sfera scientifica e la sfera religiosa. Secondo le celebri parole del cardinal Baronio citate da Galileo nella lettera a madama Cristina di Lorena del 1615, la Scrittura insegna «non come vadìa il cielo, ma come si vadìa al cielo», cioè non parla di astronomia bensì di salvezza delle anime. […] Il principio di separazione pone la laicità dello Stato e della politica come consapevolezza di un limite da non oltrepassare. Ma il limite è affidato alla nostra prudenza. Laico è quello Stato che avverte l’esigenza di questo limite, e prudente è quello Stato laico che, al momento giusto, fissa il confine al punto giusto. La domanda che ora mi pongo è: noi politici e intellettuali e cittadini degli Stati europei lo stiamo mettendo, questo limite, nel confine giusto? […] Per quanto riguarda l’Europa, la risposta è dubbia. Posti di fronte alle domande: «Chi sei tu, vecchio Continente?», «Chi fur li maggior tua?», «Sei ancora il continente cristiano di Pietro e Paolo, di Cirillo e Metodio, di San Benedetto, e di tanti altri protagonisti della evangelizzazione?», i cento padri della Costituzione europea hanno preferito tirarsi fuori d’impaccio e imboccare la vecchia strada della separazione. C’è un punto che – assieme al rifiuto del richiamo alle radici giudaico- cristiane nel Preambolo del Trattato – la dice lunga su come il laicismo degli Stati abbia volentieri imposto e le Chiese, compreso quella cattolica, abbiano forse altrettanto volentieri accettato la vecchia cultura della separazione. È l’art. 52 del Trattato costituzionale europeo. Esso dice: «L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui godono negli Stati membri, in virtù del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religiose». Che cosa significa? Significa che l’Unione europea tutela diritti temporali di chiese o associazioni. In altri termini, significa che l’Unione rispetta, nei singoli Stati membri, le religioni in essi ammesse secondo le modalità in essi stabilite. In altri termini ancora, significa che l’Europa del 2004 torna a qualcosa di simile all’Europa del 1555, quella della pace di Augusta: cuius regio, eius religio. Questa oggi è la formula separatista dei concordati. Che questa formula sia andata bene agli stati laicisti si comprende, perché per i laicisti la religione deve essere un fatto privato che non si può esibire in pubblico e che vale un prezzo del prelievo fiscale purché non si esibisca in pubblico. Che questa formula sia stata accettata dalle Chiese europee, anche dalla Chiesa cattolica, forse si comprende pure, non solo perché i benefici temporali sono sempre attraenti, ma anche perché essi consentono quel tanto di autonomia che è necessaria alla missione. Ma che la formula concordataria dell’art. 52 basti a dare forma istituzionale, cittadinanza politica, accoglienza civile alla rinascita religiosa europea è fortemente da dubitare. E credo che dovrebbero dubitarne tutti. I laici, che dovrebbero essere interessati a non vedere affievoliti tanti valori di convivenza che hanno radici cristiane. E i credenti, che dovrebbero riflettere su quali modi, strumenti, spazi, diversi da quelli temporali e concordatari consueti, si aprono oggi alla propria fede. Gli uni per non ricadere in quel laicismo che li sta narcotizzando. Gli altri per sfuggire dal ghetto in cui si sono rinchiusi. Per operazioni di questo genere, dall’una e dall’altra parte occorre coraggio. E purtroppo, tanto coraggio in giro non c’è. Avverto piuttosto un senso di resa. Oggi l’uomo europeo e occidentale sembra un penitente che si batte in continuazione il petto. Se ci sono fondamentalisti e terroristi che gli hanno dichiarato la jihad, allora – pensa il penitente – deve esserci una ragione. Se c’è una ragione, allora essa nasce da uno squilibrio sociale. Se c’è uno squilibrio sociale, allora qualcuno l’ha provocato deliberatamente. Se qualcuno l’ha provocato deliberatamente, allora l’Occidente nazionalista, imperialista, colonialista è colpevole. E se l’Occidente, alla fine, è colpevole di aver provocato la jihad, allora si merita la jihad. Adottando questo modo di ragionare, l’Occidente trova sempre un “ma” per bloccarsi, paralizzarsi, giustificarsi. Alcuni gruppi islamici ricorrono al terrore? Brutta cosa, ma l’imperialismo americano è di per sé terroristico. Rapiscono e uccidono? Azione certamente da condannare, ma si dimentica che sono resistenti che trattano bene gli uomini e le donne di pace. Ricorrono a kamikaze? Azione esecranda, non c’è dubbio, ma lo fanno per disperazione. Io credo che questo modo di pensare e agire debba essere respinto. Soprattutto ora che, anche in Europa, la rinascita religiosa torna a riaffacciarsi nelle coscienze individuali e a voler reclamare i suoi diritti nella società, la cultura della resa non rappresenta solo un freno alla nostra identità. Essa è anche un abbassamento delle nostre difese di fronte all’esplosione, talvolta violenta e intollerante, delle identità altrui. Il dialogo fra credenti e laici, soprattutto laici liberali, che da noi, in Italia più che altrove, è cominciato in modo promettente dovrebbe aiutare a respingere la cultura della resa e dell’indifferenza. Ma un dialogo, se è autentico, è una sfida intellettuale che richiede coraggio da entrambe le parti. Ce l’hanno, questo coraggio, i laici o si sentono ancora confortati dai pigri recinti di Westfalia? Ce l’hanno, lo stesso coraggio, i credenti o si sentono ancora protetti dalle gabbie dei concordati? Vogliono gli uni e gli altri procedere in mare aperto, confrontarsi davvero, interrogarsi davvero, mettersi in discussione davvero? Io spero di sì, che lo vogliano, perché la posta è alta: con la nostra identità, è in gioco il nostro futuro.

Libero 8 giugno 2005