Mons. Maggiolini: autorità civile, comunità cristiana e Islam

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Il potere civile deve costruire moschee?


Alcuni recenti fatti balzati all’onore della cronaca domandano una riflessione attenta e pacata in merito ai rapporti fra la società civile, la comunità cristiana e la sempre più numerosa presenza dell’Islam fra di noi…


di Mons. Alessandro Maggiolini
Vescovo di Como

Alcuni recenti fatti balzati all’onore della cronaca domandano una riflessione attenta e pacata in merito ai rapporti fra la società civile, la comunità cristiana e la sempre più numerosa presenza dell’Islam fra di noi.
Misurandosi con questo fenomeno, l’azione pastorale della Chiesa avverte nitidamente due pressanti esigenze. La prima è di educare il popolo cristiano a quegli atteggiamenti di fraternità, di accoglienza e di dialogo con la religione islamica, la cui assenza rappresenterebbe un tradimento evidente del vangelo di Cristo. Su questo terreno molta strada è stata fatta e resta ancora da percorrere, per sostituire, a una cultura della paura e della diffidenza, quella della relazione schietta e cordiale. Iniziative in questo senso sono indubbiamente da incoraggiare. Senza dimenticare altri due ingredienti – rispettivamente necessario e opportuno – di un serio dialogo con l’Islam: le condizioni di legalità (vedi il problema del terrorismo fondamentalista) e la reciprocità di trattamento (dei cristiani nei paesi islamici).
D’altra parte, però – ed è la seconda esigenza –, non è possibile sottacere il rischio che si affermi, anche fra i cristiani, una visione relativistica dei rapporti fra le diverse religioni, quasi che – come talvolta recita una superficiale sloganistica – tutte le religioni fossero tutto sommato equivalenti, e alla fine si tratterebbe pur sempre di invocare lo stesso e identico Dio sotto differenti denominazioni. In realtà – pur non mancando punti in comune, sui quali ci si può e ci si deve incontrare – il Dio Trinitario non è uguale ad Allah, né Gesù Cristo a Maometto o il Vangelo al Corano.
L’identità della nostra fede è un bene da salvaguardare e promuovere quanto e più della capacità di dialogo cordiale con tutti. Proprio e soltanto un’identità chiara, consapevole e argomentata può rendere possibile il dialogo, se questo vuole essere un reale e reciproco arricchimento e non uno sterile cicaleccio di maniera.
Dunque, nessuna alternativa possibile fra identità e dialogo, come fra Verità e Carità, oppure fra annuncio e accoglienza, bensì la fatica di mantenere uniti i due capi della catena. In ciò sta la difficoltà, e insieme la bellezza della missione cristiana.
Sul versante della comunità cristiana, il criterio cardine di riferimento rimane quello della testimonianza.
La prima testimonianza è senz’altro quella della carità. La Chiesa, chiamata anzitutto a vivere la fraternità al suo interno (ricordiamo qui le nostre iniziative a favore dei cattolici extra-comunitari),  non può rinunciare ad osarne l’avventura anche con i membri della religione islamica, riconoscendo in ciascuno i tratti di un figlio di Dio chiamato a far parte del Regno. Ciò implica, per la comunità cristiana, il dovere di prendersi cura del prossimo  (quale che sia la sua religione), a partire dalle forme più elementari del dare a lui un cibo, un vestito, un riparo, ossia gli elementi minimali della dignità umana. Vicariando in questo – ma senza sostituire – l’azione dell’autorità civile. Della medesima dignità umana fa parte anche il doveroso riconoscimento, da parte della comunità cristiana, della libertà religiosa, ossia il diritto, a tutti riconosciuto, di cercare la verità ultima di tutte le cose (Dio) nella forma a sé più congeniale.
Tutt’altra cosa è, invece, quella di favorire o agevolare una dottrina o una pratica religiosa differente da quella cristiana. Se c’è un dovere sacrosanto, per la comunità cristiana, di lasciare a ciascuno la libertà di professare la propria religione, non esiste affatto il dovere (e magari la correlativa pretesa) di sostenerne le iniziative cultuali o formative. Solo un malinteso e approssimativo senso della carità cristiana potrebbe sostenere una simile cosa. Se la testimonianza della carità ha le sue (inderogabili) esigenze, ciò non deve andare a detrimento della testimonianza della verità.
In tal senso concedere locali o spazi riservati al culto cristiano, o destinati alle attività pastorali, come luoghi di culto o di propaganda per i musulmani contraddice alle esigenze della testimonianza, perché verrebbe facilmente equivocato non come gesto di cristiana bontà, ma come segno evidente che le religioni sono tutte uguali; se non addirittura come rinuncia dei cristiani alla loro identità religiosa. Tale iniziative appaiono perciò del tutto inopportune. Questa affermazione riprende quasi alla lettera una posizione del card. Carlo Maria Martini, il quale riprova come “zelo disinformato” il non rispettare le fedi “con la loro specificità e con l’offrire indiscriminatamente spazi di preghiera o addirittura luoghi di culto senza aver prima ponderato che cosa significhi questo per un corretto rapporto religioso” (6 dicembre 1990).
Sotto il profilo educativo la questione è rilevante. Se la pedagogia della Chiesa deve giustamente preoccuparsi di educare talune espressioni di tracotanza della propria identità e tradizione cristiana (forme quantomeno sospette nella loro genuina radice evangelica), altrettanto deve dirsi del rischio di annacquare l’identità cristiana nel caos del relativismo e del sincretismo religioso.
In proposito gioverà ricordare, a scanso di facili irenismi, che le diverse religioni, se per un verso incarnano cammini autentici di possibile, contaminata e parziale santificazione ed elevazione dell’umano, per altro verso presentano un insopprimibile profilo idolatrico. Inoltre, se è vero che gli elementi di verità e di grazia, presenti nelle diverse religioni, sono germinazioni autentiche dello Spirito di Cristo (da lui provengono e a lui tendono), è solo nella Chiesa cattolica che sussiste la pienezza della verità e della grazia, sia pure nella forma oggettiva che richiede una ricerca e un’assimilazione fino al compimento anche soggettivo.
Siamo di fronte a un problema pastorale molto serio, che esige la piena sintonizzazione su una linea disciplinare comune. Iniziative estemporanee o fuori dal coro, pur animate da lodevoli intenzioni, possono indurre confusione e disorientamento nel popolo di Dio.
Sul versante della società civile, la regola aurea di riferimento è il principio di sussidiarietà. Esso si inquadra nella cornice più complessiva della laicità dello Stato e delle sue istituzioni. Laicità che – sarà bene ribadirlo – non significa affatto contrarietà o anche solo indifferenza da parte dello Stato verso le diverse religioni: al contrario, lo Stato apprezza, riconosce e anche sostiene le diverse espressioni religiose, quali preziose e vitali risorse della società civile, in grado di innervare positivamente il tessuto sociale con l’apporto del loro patrimonio di valori, di cultura, di tradizioni, di simboli, di senso. Le religioni, in altri termini – almeno finchè rimangono nella cornice della legalità –, concorrono al bene comune di una società: arricchiscono e vivacizzano la vita civile, aiutano il singolo a decifrare l’enigma della vita e le sue questioni ultime, veicolano importanti risorse di aggregazione e di educazione. Per questo lo Stato laico deve farsi garante del diritto di ogni cittadino a professare la propria religione, in forma non solo privata ma anche pubblica, non solo individuale ma anche associata. Almeno quando le forme religiose non cedono alla violenza e rispettano la libertà di tutti nel bene comune.
Più concretamente, il principio di sussidiarietà assegna tre compiti allo Stato laico:
 (a) vigilare affinché una determinata espressione religiosa non sia contraria (nella dottrina e nella pratica) al bene comune. In altri termini l’autorità civile deve farsi garante della cornice di legalità all’interno della quale una confessione religiosa può legittimamente espletare le sue riunioni e le sue iniziative;
 (b) promuovere le diverse espressioni religiose, predisponendo nel limite del possibile le condizioni logistiche affinché ciascuna di esse – almeno quelle di qualche consistenza – possa convenientemente esercitare le proprie attività. Con un’attenzione privilegiata per quelle confessioni religiose maggiormente significative sul piano numerico e della tradizione storica del popolo, senza tuttavia trascurare significative minoranze religiose;
(c) sostenere mediante l’erogazione parziale di denaro pubblico quelle iniziative di carattere culturale, educativo, assistenziale, caritativo, di animazione sociale che, nascendo con l’iniziativa di fedeli nell’alveo di una tradizione religiosa, hanno un’importante e positiva ricaduta civile: concorrono cioè a edificare il bene comune e non solo il bene particolare di quello stesso gruppo religioso. A tal proposito, la dottrina più comune del principio di sussidiarietà non ritiene legittima l’erogazione di denaro pubblico per l’edificazione di luoghi di culto, salvo il caso di una comprovata rilevanza dell’edificio stesso per il bene comune, come accade ad esempio per la compresenza di importanti beni culturali (artistici, architettonici…). Si applica lo stesso criterio nel caso di attività cultuali o formative, promosse da un certo gruppo religioso, che non hanno una diretta ed evidente ricaduta positiva sul bene comune.
Senza entrare nel merito di concretizzazioni facilmente intuibili, questi elementi basilari della dottrina sociale cristiana possono essere di aiuto per decifrare il complesso rapporto fra l’azione dell’autorità civile e l’insieme delle esigenze (qualche volta l’insieme delle pretese) della comunità islamica.

Alessandro Maggiolini, Vescovo
Como, 13 dicembre 2005

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