+ Carlo Caffarra, 3-7-2001
Stiamo per trattare di questioni teologiche e religiose, e quindi di cose più importanti di quelle che solitamente affrontiamo in questo blog.
Ma sotto sotto – come suol dirsi – anche stavolta il problema è politico. Ce lo ha detto anche un prete della Diocesi di Bologna, molto ben informato sulle vicende della Curia arciepiscopale, e sul sordo conflitto che ormai da diversi anni la contrappone alla ”Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII”. Cioè, fuori dalla dizione ufficiale, a quel gruppo di intellettuali e politici cattocomunisti che non a torto viene solitamente chiamato “Scuola di Bologna”, e che loro preferiscono chiamare “officina”.
(continua) Si tratta di un’istituzione che ha per fondatore e nume tutelare don Giuseppe Dossetti. Il professor Romano Prodi, attuale incaricato dell’estrema sinistra quale facente funzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ne è l’esponente politico italiano più potente e conosciuto.
Da un punto di vista ideologico, nell’ambito della rilevanza sociale della Chiesa italiana, gli uomini della Fondazione Giovanni XXIII rappresentano ormai i classici ultimi giapponesi nella giungla. Nonostante l’effetto amplificatorio delle loro frequenti interviste all’Unità, Manifesto, Repubblica, nonché i loro pensosi interventi sul Corriere della Sera e a volte persino sul Tg 1, essi stanno lentamente estinguendosi ai margini del mondo cattolico.
Giuseppe Alberigo, principale storico della loro peculiare concezione del Concilio Vaticano II, è scomparso lo scorso mese di giugno. Mentre al suo più giovane collega Alberto Melloni, così come a qualche ottuagenario vescovo emerito come monsignor Luigi Bettazzi, e – tra i politici – alla neo candidata Rosy Bindi, a Pierluigi Castagnetti e allo stesso professor Romano Prodi, auguriamo ovviamente lunga vita e molto tempo libero a disposizione per le rispettive famiglie.
Tuttavia, se i giapponesi di cui sopra continuavano a fare cecchinaggio dalla giungla, era perché a guerra finita erano rimasti tagliati fuori su un’isola, e non avevano ricevuto l’ordine di arrendersi. Nel caso dei dossettiani, il problema di noi bolognesi è che su quell’isola ci viviamo. Quindi, benché il loro schioppo arrugginito d’altri tempi non possa più ammazzarci, le loro ultime pallottole le sentiamo fischiare più forte degli altri.
“Il problema è politico”, ci ha infatti detto quel sacerdote di Curia, preannunciando che a settembre, quando il motu proprio di papa Ratzinger entrerà in vigore, può darsi che a Bologna una Messa domenicale in lingua latina ricomincerà ad essere detta proprio nella Cattedrale.
E’ ancora da vedersi se accadrà davvero, perchè in effetti fare una cosa del genere a Bologna significa esporsi in pieno al cecchinaggio dei giapponesi.
Non sarebbe un problema, perché per rendere inoffensivi i romantici soldatini che continuano a sparacchiare dai davanzali di via San Vitale n. 114, sede della storica Fondazione, non servirebbe di certo il napalm e nemmeno le bombe a mano. Se non fosse che – nonostante il clima di sorda ostilità – la Curia bolognese tentenna ormai da anni, e l’ordine di andarli a stanare definitivamente non lo vuole dare.
Da quando Benedetto XVI è salito sulla cattedra di Pietro, gli ultimi nostalgici dello “spirito del Concilio” non hanno più ritegno alcuno, e si considerano di fatto come una specie di corpo separato, con l’autorizzazione a sparare a volontà sulla Chiesa gerarchica. Basta leggere i toni sguaiati e volgari di certe loro interviste per accorgersene.
La loro esasperazione è comprensibile, in quanto dietro il ritorno della messa tridentina si è giocata una parte importante del processo di liquidazione coatta che li coinvolge.
Papa Ratzinger sa bene che dietro l’antico rito del messale di Giovanni XXIII – cioè lo stesso papa, ironia della storia, che dà il nome alla fondazione degli ultimi giapponesi – si cela una questione sociale molto più profonda.
Il ritorno della lingua sacra nella liturgia significa un recupero di universalità, e quindi di cattolicità nel senso pieno del termine. Ma anche la fine delle suggestioni deviate degli ultimi quarant’anni sulla “inculturazione” del cristianesimo, e della penetrazione nella cultura cattolica dell’idea protestante sul libero esame delle scritture.
Celebrare la Messa in lingua volgare ha significato infatti affidare i misteri fondamentali della fede cattolica – la Trinità, l’Incarnazione, la Passione e Resurrezione del Cristo – alla libera interpretazione delle masse e delle singole culture. In altri termini, è servito a generare una libertà svincolata sia dall’autorità che dall’educazione.
Esattamente come avvenne quasi cinquecento anni fa con Martin Lutero, per i cattocomunisti quel cambiamento rappresentava un presupposto necessario affinché i loro intellettuali potessero salire in cattedra al posto del magistero della Chiesa.
Gli ultimi fedeli cattolici che, sia pure in modo inconsapevole rispetto a quel disegno ideologico, continuano a sostenere che la Messa cattolica moderna è migliore perché “la gente la capisce”, operano un gesto di greve superbia intellettuale. Essi non comprendono nulla di come invece i nostri padri e nonni sapessero, rispetto a tanti fedeli di oggi, vivere molto più nel profondo il mistero dell’Eucarestia.
Il fatto che gli intransigenti del nuovo rito si sbaglino, peraltro, è anche la meno angosciante delle ipotesi. Infatti, in questi ultimi decenni il numero dei cattolici praticanti è letteralmente crollato. Al punto tale che, se davvero il popolo di Dio avesse iniziato a comprendere meglio il mistero della Messa grazie all’introduzione delle lingue nazionali, allora vorrebbe dire che ciò che ha compreso non gli deve essere affatto piaciuto.
Speriamo quindi che le cause vere della disaffezione dei fedeli siano altre, come in effetti sono.
Su questo punto, però, la cieca ostinazione degli ultimi giapponesi non vuol sentire ragioni: “è grazie alle messe celebrate magari con tanto di schitarrate strampalate, con le chiese illuminate da neon da Ipercoop e in luoghi dall’architettura forse non proprio ortodossa, che quella poca fede che è rimasta nel popolo è stata salvaguardata”, ha dichiarato il citato Alberto Melloni al Riformista.
Tutti però sappiamo che invece la realtà è opposta. Per quei giovani con le chitarre la fede cattolica – e la stessa persona di Gesù – rappresentano solo un’esigenza, un richiamo profondo, e qualche volta un’intuizione, della quale però conoscono sempre meno.
L’uso del latino infatti non serviva solo a preservare l’universalità della Chiesa, ma anche a vivere meglio la comunione dei santi (e appunto, anzi la mano quel cattolico praticante – se ce ne è uno – che ha imparato che cosa sia la comunione dei santi solo in quanto ora il Credo è recitato in italiano).
Il latino serviva anche e soprattutto a preservare il senso del sacro, nel suo senso etimologicamente proprio di “ciò che è separato”. Quel sacro del quale i giovani chitarristi, sotto le luci del neon delle chiese moderne, con le pareti grigie di cemento grezzo, davvero non sanno più nulla.
La Messa cattolica può essere compresa, nel suo vero significato di memoriale della Passione del Signore, solo se si riesce a cogliere come quel sacrificio si rinnovi realmente, e non solo in via simbolica, nel rito dell’Eucarestia.
Ma ciò non avviene in mezzo al frastuono delle vicende del mondo, bensì in un luogo che pur essendo calato nella vita quotidiana degli uomini deve appunto essere “separato” dal flusso inesorabile del tempo e dello spazio. Esattamente come è proprio della natura di Dio, che a nostra differenza non è vincolato né all’uno né all’altro.
L’uso rituale di una lingua sacra e immutabile, che non è soggetta alla mutazione indotta in tutti gli idiomi correnti dallo scorrere dell’uso, e con la quale si parla solo con Dio, ha anche questa funzione. Tutto questo gli sguaiati ultimi epigoni del dossettismo non lo sanno, o forse lo dissimulano consapevolmente in nome di altri obiettivi, come del resto è proprio della loro ideologia di riferimento. Però continuano a sparare dai davanzali.
E allora, perché il problema è politico? La politica interferisce con la questione della Messa, perché è connessa a quella dell’autorità dei teologi cattolici, o sedicenti tali, rispetto a quella del Magistero pontificio.
Nel riaffermare che il rito sacro non si può inculturare oltre un certo limite, e che il pensiero cattolico non può vivere al di fuori dell’universalità, della tradizione, e soprattutto della autorità di Pietro, papa Benedetto XVI ha di fatto chiuso il cerchio della reazione cattolica contro gli abusi dei ribelli cattocomunisti.
Una reazione che era già iniziata, regnante papa Giovanni Paolo II e con Joseph Ratzinger a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede, con la condanna della “teologia della liberazione”, e cioè della massima espressione del pensiero religioso filocomunista in ambito cattolico.
Una reazione che è continuata fino ad oggi in tutto il mondo, sia pure con incertezze e difficoltà.
E continua anche in Italia, nel combattimento di idee contro quei “cattolici democratici”, che pretendono di ricevere i voti dei fedeli, e ad ogni tornata elettorale non disdegnano di fare il giro dei conventi e delle parrocchie, ma poi una volta eletti rivendicano “l’autonomia della politica” anche rispetto ai valori che per i loro elettori sono irrinunciabili, come la difesa della vita, della famiglia, e della libertà di educazione. Arrecando così un vulnus anche a quel rapporto fiduciario tra eletti ed elettori che è sale laicissimo della democrazia rappresentativa.
La Curia di Bologna è da anni alle prese con varie difficoltà nei confronti di quei politici, derivanti appunto dal fatto che qui i cecchini giapponesi sono meglio asserragliati che altrove, e godono ancora di un certo supporto in alcuni strati del clero (cioè i famigerati “parroci prodiani”).
Ma il ritorno della Messa di Giovanni XXIII e della tradizione, proprio a Bologna, sarebbe un bellissimo segnale per tutti.
Purchè senza compromessi insensati, in quanto la questione non è solo quella del latino. Si tratta anche del recupero del ruolo autentico del sacerdote nella Messa, e nella funzione ben diversa e meno essenziale del popolo dei fedeli.
Quindi presuppone il ritorno all’altare tradizionale, e l’almeno temporanea messa da parte di quelli tavolari, per celebrare versus Dominum e non più versus populum. Ancora una volta, cioè, di una questione teologica che però è assai facilmente diventata politica.
Tuttavia, se è vero come è vero quel che ha ribadito più volte papa Benedetto XVI, e cioè che il rito antico non è un patrimonio di pochi fedeli “separati”, ma appartiene a tutta la cattolicità, ed ha un valore universale, allora non si può stare ad aspettare che arrivino le richieste dei “gruppi stabili” di fedeli tradizionalisti, come a rigore prevederebbe il motu proprio.
E’ normale che quei gruppi, dopo quasi quarant’anni di ostracismo e abusi liturgici, siano dispersi e poco numerosi. E soprattutto, che siano piuttosto caratterizzati a loro volta sul piano ideologico, in quanto con quel che è successo in questi decenni è normale che si sentano come l’evangelico “piccolo gregge” dei duri e puri, e quindi abbiano poca voglia di integrarsi.
Di fronte ad essi, non è il caso che vescovi e parroci stiano ad aspettare le formali richieste, con la malcelata speranza che esse non arrivino, se non altro per non trovarsi costretti a ristudiare l’antico messale e a cambiare la disposizione del tabernacolo. Sarebbe come se un avvocato si rifiutasse di avere nuovi clienti solo perché è cambiato il codice di procedura.
Bisogna andare incontro all’antico rito, perché se esso ha un valore universale, continuerebbe ad averlo anche se fosse un fedele su un milione a volerlo.
Il sacro non può essere messo ai voti. E poi ci sono milioni di giovani che lo amerebbero, il rito tridentino, se solo potessero conoscerlo, senza doverlo cercare su Internet facendosi poi dei chilometri per trovare un sacerdote che lo celebri, di fronte a un gruppetto di fedeli che per forza di cose sono indotti a sentirsi come dei carbonari perseguitati.
L’universalità del rito tridentino è vera e palpabile specialmente in questi tempi, dove è maggiore la cultura diffusa e la possibilità per tutti di viaggiare per il mondo.
A condizione però che mediante quell’antica tradizione sia data a tutti, e non solo a pochi, la possibilità di ritrovare ovunque lo stesso sacro, lo stesso luogo dove il flusso del tempo e delle umane cose si ferma.
Pensateci dunque, voi della Curia. E fregatevene del rumore dello schioppo degli ultimi giapponesi, che ogni tanto risuona sulla stampa e sotto le navate – quando ancora ci sono le navate – delle chiese parrocchiali “di sinistra”.
Dove peraltro le bandiere della pace sotto l’altare tavolare sono ormai sbiadite, e anzi di fatto non ci sono state quasi mai.
I loro schioppi fanno rumore ma non possono più ferire nessuno, e i fedeli cattolici lo sanno. Non fatevi scavalcare, e ridonateci il senso del sacro e dell’universalità della Chiesa.
Massimiliano Fiorin
Totustuus.net, 17 luglio 2007
http://filoapiombo.blogspot.com/2007/07/la-curia-e-gli-ultimi-giapponesi.html