Analisi critica della riforma della Cdl
Peppino Calderisi, da “Il Foglio” del 24 novembre 2005
I. La modifica della seconda parte della Costituzione, attesa ormai da lungo tempo, è indispensabile per modernizzare le nostre istituzioni. Occorre munire il paese di quegli stessi strumenti di cui le altre democrazie occidentali dispongono da tempo per affrontare in condizioni di parità con gli altri paesi le grandi sfide che i tempi ci impongono sul piano dei rapporti internazionali, dell’economia e del diritto interno. Negli ultimi vent’anni si sono susseguiti numerosi tentativi, tutti falliti, di riformare la Carta del 1948, salvo la modifica del Titolo V approvata dal centrosinistra alla fine della scorsa legislatura. La revisione della seconda parte della Costituzione è ora stata realizzata dalla Casa delle Libertà e sarà sottoposta al voto dei cittadini attraverso il referendum confermativo che, molto probabilmente, si terrà nel prossimo mese di giugno, subito dopo lo svolgimento delle elezioni politiche.
La riforma è stata ed è oggetto da parte del centrosinistra e di molti organi di informazione e opinionisti schierati di accuse gravissime: la “devolution” che disgrega l’unità d’Italia, il premierato che crea una “deriva plebiscitaria” e la “dittatura del premier”. Si tratta di accuse del tutto destituite di fondamento, di una vera e propria campagna di delegittimazione e falsificazione dei contenuti della riforma. Ad essa è necessario rispondere innanzitutto facendo chiarezza sui contenuti effettivi della riforma. Essa non è certo immune da difetti e incongruenze che sono, semmai, di natura opposta rispetto a quelli denunciati dal centrosinistra. Dall’analisi del testo emergono anche le ragioni per le quali si può e si deve votare Sì al referendum, evitando così che venga ancora una volta sprecata una grande occasione di modernizzazione delle nostre istituzioni, forse irrepetibile per molti anni a venire.
II. Per un’analisi approfondita della riforma è opportuno partire da una questione di fondo: la necessità di superare il bicameralismo paritario, giustamente criticato da Crisafulli come “assurdo e ingombrante”. Questo aspetto, sempre sottovalutato, rappresenta invece uno snodo cruciale della riforma (la cui difficoltà ha concorso a determinare, insieme ad altre ragioni politiche, i fallimenti dei tentativi riformatori prima ricordati). Quello italiano è infatti l’unico sistema parlamentare al mondo (dopo la riforma della Costituzione rumena) che affida il rapporto fiduciario con il governo ad entrambe le Camere. Superare il bicameralismo paritario è essenziale sia per quanto riguarda la modifica della forma di governo nel senso del premierato (modifica che presuppone di affidare il rapporto fiduciario ad una sola Camera, per evitare che una possibile divaricazione nella composizione politica delle due Assemblee impedisca la formazione di un indirizzo politico univoco e di un governo stabile), sia per quanto riguarda la realizzazione di un assetto di tipo federale (che presuppone l’istituzione di una Camera federale come sede di raccordo tra Stato e autonomie, in particolare le Regioni, titolari della potestà legislativa su importanti materie).
La riforma del titolo V della Costituzione approvata negli ultimi giorni della scorsa legislatura dalla maggioranza politica del centrosinistra, ha realizzato quella che si può chiamare la “grande devoluzione”, per la quantità e la qualità delle materie deferite alla competenza legislativa delle regioni (addirittura tra le materie concorrenti vi sono: grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; ordinamento della comunicazione e molte altre ancora). Questa riforma è considerata incompleta e imperfetta dalla comunità scientifica, dagli operatori e persino da gran parte delle forze politiche che l’hanno approvata. Essa ha ripartito le materie, che inevitabilmente hanno confini incerti (del resto, i problemi che le leggi sono chiamati a risolvere riguardano quasi sempre un intreccio di materie), e ha creato una vastissima zona di competenze intermedie (le cosiddette “materie concorrenti”). Ma non ha previsto una Camera federale come “sede” del federalismo, cioè dell’incontro istituzionale tra Stato e territorio, della mediazione politica delle materie (per decidere concretamente “chi fa che cosa”), della composizione degli interessi divergenti, dell’equilibrata distribuzione delle risorse; e ha addirittura cancellato la tutela dell’interesse nazionale privando il sistema di una clausola generale e flessibile di competenza statale come “strumento” del federalismo (alla stregua della clausola prevista dall’articolo 72 della Costituzione tedesca a tutela dell’unità giuridica ed economica). Ne è scaturito un federalismo rissoso e confuso, con gravi conseguenze: che si sono accresciuti esponenzialmente i conflitti di competenza tra Stato e Regioni e che, quindi, la “sede” del federalismo è divenuta la Corte Costituzionale e lo “strumento” del federalismo è divenuta la giurisprudenza costituzionale. Cioè una sede e uno strumento impropri e non idonei, perché non politici, con buona pace della certezza del diritto, della responsabilità del Governo e della sovranità del Parlamento trasferite dall’organo rappresentativo della volontà popolare ad un organo tecnico-giuridico quale la Corte.
Non solo. La riforma del titolo V della scorsa legislatura ha anche un altro serio inconveniente, il terzo comma dell’articolo 116 che consente “ulteriori forme e condizioni di autonomia” (il cosiddetto federalismo progressivo o differenziato). In base a tale comma le regioni potranno chiedere e ottenere dalla maggioranza politica pro tempore (con legge ordinaria approvata a maggioranza assoluta) la potestà legislativa su tutte le materie di legislazione concorrente e addirittura su alcune materie di competenza esclusiva dello Stato, tra cui le “norme generali sull’istruzione”. Una sorta di “dissolution”.
III. Esaminiamo ora come interviene la riforma della parte seconda della Costituzione per quanto riguarda il bicameralismo e il federalismo. Essa ha indubbiamente alcuni grandi meriti.
Ha sottratto alla seconda Camera la “fiducia” al Governo. Va dato atto ai senatori di aver realizzato con coraggio questa difficile modifica del bicameralismo italiano sulla quale pochissimi avrebbero scommesso.
Ha previsto una riduzione (quasi del 20 per cento) del numero dei parlamentari, sia pure diluita realisticamente nel tempo.
Ha apportato molte e significative correzioni alla riforma del titolo V della scorsa legislatura. In particolare:
a) ha ricondotto allo Stato una serie di materie che erano state impropriamente inserite nell’elenco delle materie di legislazione concorrente (come già ricordato: grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; ordinamento della comunicazione);
b) ha ripristinato l’utilizzazione del limite dell’interesse nazionale (o di altri limiti analoghi diversamente denominati, come la tutela dell’unità giuridica ed economica) sia in funzione preventiva che repressiva. In funzione preventiva, cioè come presupposto per l’attivazione di una legislazione nazionale, anche su materie di competenza regionale (un limite di fatto già utilizzato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale dopo la riforma del 2001). Si tratta della clausola cosiddetta di supremazia o flessibilità, simile a quella prevista nella Costituzione tedesca). In funzione repressiva per rimuovere le disposizioni pregiudizievoli dell’interesse nazionale contenute nelle leggi regionali, limite da attivare in via eccezionale sulla base di una chiara assunzione di responsabilità del governo che deve essere accolta dal Parlamento in seduta comune con maggioranza assoluta (lasciando correttamente al Capo dello Stato una funzione non politica ma di controllo costituzionale). In sostanza un perfezionamento dell’art. 127 della Costituzione del 1948 che la riforma del 2001 aveva incautamente cancellato;
c) ha abrogato il terzo comma dell’art. 116 (quella sorta di “dissolution”).
Ha ricondotto la “piccola devoluzione” voluta dalla Lega Nord su sanità, istruzione e polizia locale all’attribuzione alle Regioni di competenze che esse sostanzialmente già hanno, ponendo le basi per politiche nazionali nel settore della sanità (le cui norme generali spettano allo Stato come le norme generali sull’istruzione) e sostituendo l’espressione “polizia locale” con quella di “polizia amministrativa regionale e locale”.
E’ particolarmente significativo il giudizio espresso da un costituzionalista Ds come il prof. Augusto Barbera, che in una intervista al Sole 24 ore del 17 ottobre 2004 ha testualmente affermato: ” …Il testo della Cdl, anche se è spesso contorto e farraginoso, è attento alle esigenze unitarie e si muove nella prospettiva di un regionalismo forte, adeguato alla realtà italiana. E’ paradossale, ma bisogna riconoscere che è toccato a un ministro leghista come Roberto Calderoli rimediare ai pericoli per l’unità nazionale del federalismo sgangherato del Titolo V dell’Ulivo. Di cui, tra l’altro, nel Centro-sinistra si fa a gara per disconoscerne la paternità. Con il recupero dell’interesse nazionale, l’introduzione della clausola di supremazia e la riattribuzione alla competenza statale di materie come i trasporti e l’energia si sono salvaguardate le esigenze unitarie. Sostenere che si è fatta la devolution è propagandistico quanto l’accusa che questa spacca il Paese. La polizia regionale è solo amministrativa. Le norme generali sull’istruzione e sulla sanità sono di competenza dello Stato…”. Ben altro, dunque, che pericoli per l’unità nazionale. La patria non è messa in pericolo, ma semmai salvata dalla riforma.
Sotto questi profili la riforma contiene dunque molte luci. Ma è adeguata rispetto alle esigenze dichiarate ? Non completamente, ci sono incongruenze e difetti. Fortunatamente esse riguardano aspetti della riforma che, diversamente dalle modifiche al Titolo V, subito operative, entreranno in vigore solo dopo il 2011 e potranno pertanto essere corrette dal prossimo Parlamento. Esaminiamo con attenzione questi difetti e incongruenze (già denunciati, in particolare, dalla fondazione Magna Carta durante l’iter parlamentare della riforma).
1. Il primo riguarda la composizione del Senato federale. La soluzione ideale sarebbe forse stata quello tipo Bundesrat, ma è una buona soluzione di compromesso l’elezione contestuale tra Consigli regionali e Senato federale (anche se le norme transitorie la affidano a tempi lunghi). Questa contestualità può certamente portare ad eleggere un Senato i cui componenti siano più attenti agli interessi delle comunità regionali. Ma non è affatto risolto il rapporto con l’ente Regione, perché non è prevista la presenza nel Senato dei Presidenti delle Regioni (ma solo la partecipazione di due rappresentati regionali senza diritto di voto e con modalità che dovranno essere stabilite dal regolamento). Se il Senato si chiama “federale” perché deve svolgere funzioni di raccordo tra Stato e Regioni, è singolare che in esso non sia presente uno dei due soggetti che si devono raccordare. Se si vogliono ricondurre ad un livello fisiologico i conflitti di competenza tra Stato e Regioni è indispensabile la presenza diretta, e quindi la responsabilizzazione, dei Presidenti delle Regioni nel Senato federale. Inoltre, il limite dell’ “unità giuridica ed economica” giustamente introdotto come presupposto per l’attivazione di una legislazione nazionale (limite che peraltro non ha collocazione autonoma ma è giustapposto con gli altri poteri sostitutivi previsti nell’articolo 120) potrebbe consentire qualunque intervento del legislatore statale, a scapito delle prerogative regionali, proprio a causa dell’assenza dei Presidenti delle Regioni nel Senato federale.
2. Il secondo difetto, connesso con il primo, riguarda la costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni con competenze non limitate al coordinamento amministrativo come certamente è necessario, ma estese alla promozione di “accordi e intese” che potrebbero essere anche di tipo legislativo. E’ evidente che una Conferenza Stato-Regioni di questa natura rappresenta una pericolosa duplicazione dei compiti di collegamento tra Stato e Regioni che dovrebbero spettare al Senato federale, con tre gravi rischi: il primo è che i Presidenti delle Regioni siano portati a negoziare le materie in una sede istituzionale inadeguata a sciogliere i nodi delle competenze perché non implica una discussione pubblica, ampia e trasparente quale solo il Parlamento può assicurare ai cittadini; il secondo è che la negoziazione fatta nella Conferenza non sia affatto risolutiva, che i conflitti di competenza continuino e che il contenzioso cresca ancora; il terzo, è che il Parlamento, e soprattutto il Senato, finisca per appiattirsi, senza un vero dibattito, sulle posizioni espresse dalla Conferenza. Il Parlamento sarebbe così privo di un reale potere di intervento, schiacciato tra il potere propositivo della Conferenza e l’autentico potere decisionale della Corte Costituzionale.
3. Il terzo difetto riguarda il rischio di continui e pesanti conflitti di competenza tra le due Camere che si verrebbe ad aggiungere ai conflitti tra Stato e Regioni. Infatti il procedimento legislativo è troppo complicato e farraginoso, imperniato com’è su tre diverse soluzioni, sempre sulla base di elenchi di materie che, come già sottolineato, hanno sempre confini incerti: leggi la cui approvazione definitiva spetta alla Camera dei deputati, leggi la cui approvazione definitiva spetta al Senato federale, e leggi sulle quali le Camere hanno competenza paritaria. Una scelta molto singolare che non trova sostanzialmente riscontro in altri paesi dove viene seguito uno schema molto più semplice. Uno schema che sommariamente si può così riassumere: entrambe le Camere hanno competenza su tutte le leggi secondo un modello di “bicameralismo imperfetto”; la parola definitiva spetta alla Camera politica mentre alla seconda Camera sono attribuiti poteri di proposta (se svolge la prima lettura) o di invito al riesame e di emendamento (se interviene in seconda lettura). Essa può ritardare per qualche tempo l’approvazione definitiva della legge, in alcuni casi può alzare il quorum necessario per la sua approvazione, può in questo modo obbligare l’altra Camera ad un tentativo di conciliazione, ma la parola definitiva è dell’assemblea che ha la rappresentanza politica nazionale (salvo le leggi costituzionali e di revisione della Costituzione e poche altre leggi rimesse alla competenza paritaria delle due Camere). Insomma, all’anomalo bicameralismo paritario italiano, la riforma rischia di sostituire una nuova anomalia, un inedito bicameralismo caratterizzato da gravi conflitti di competenza tra le due Camere che i relativi Presidenti, o il comitato paritetico al quale essi potrebbero deferire le decisioni, potrebbero non essere in grado di risolvere, con conseguente paralisi del procedimento legislativo.
4. Il quarto difetto riguarda il rischio che il bicameralismo dianzi descritto indebolisca fortemente la funzione nazionale di governo. Il Senato federale è titolare di molti poteri decisionali che investono l’indirizzo politico di Governo, in particolare ha competenza ad approvare in via definitiva le leggi concernenti la determinazione dei principi fondamentali sulle materie concorrenti molte delle quali riguardano politiche industriali, economiche e sociali che sono oggetto dei programmi di governo. Un Senato che – è bene ricordarlo – per modalità e tempi di elezioni potrebbe avere una composizione politica diversa rispetto a quella della Camera politica e che comunque non è legato dal rapporto fiduciario con il governo né è soggetto a un possibile scioglimento anticipato. La Camera dei deputati, resasi conto di questo fondamentale problema della riforma, ha modificato il testo approvato inizialmente dal Senato e ha previsto che il Governo, qualora ritenga che proprie modifiche ad un disegno di legge, sottoposto all’esame del Senato, siano essenziali per l’attuazione del suo programma, possa promuovere una nuova deliberazione del Senato ed eventualmente chiedere che la Camera decida in via definitiva a maggioranza assoluta, a condizione però di essere autorizzato dal Presidente della Repubblica, che viene così investito del compito di verificare quali leggi rientrino effettivamente nell’indirizzo politico di Governo. La soluzione sarebbe ottima se non fosse stata introdotta l’autorizzazione presidenziale che costringe il Capo dello Stato a svolgere un ruolo politico del tutto estraneo alla funzione neutrale di garanzia che la riforma gli assegna e che rischia di creare un singolare regime di “coabitazione” tra Premier e Presidente della Repubblica.
IV. Esaminiamo ora le modifiche che le modifiche che riguardano la forma di Governo (che entreranno anch’esse in vigore dopo il 2011). Rinunciando sia al presidenzialismo all’americana sia al semipresidenzialismo alla francese, la Casa delle Libertà ha scelto il modello del cosiddetto premierato. Esso, per un verso, è quello più vicino e che meglio asseconda i comportamenti spontanei dei protagonisti della scena politica degli ultimi dieci anni, dell’uno come dell’altro fronte. Per altro verso, è stato proposto da tempo da un vasto schieramento culturale assolutamente bipartisan ed era contenuto nello stesso programma elettorale dell’Ulivo del 1996, fino ad essere formalizzato in seno all’ultima Commissione bicamerale per le riforme costituzionali.
Inoltre, la forma di governo del Primo ministro contenuta nella riforma è ben più debole dei modelli fin qui delineati, anche da parlamentari e studiosi dell’area del centro-sinistra. Basti infatti ricordare che:
il testo non prevede affatto l’elezione diretta del premier ma solo la sua designazione preventiva; l’elettore esprime il proprio voto per le liste e i candidati all’elezione della Camera, scegliendo ad un tempo Premier e maggioranza, esattamente il contrario del sistema “israeliano”; si rafforza la figura di un Primo ministro quale leader responsabile di una coalizione, ben diversa dunque da quella di un capo carismatico prescelto in modo autonomo dalla maggioranza e per le sole qualità personali;
il Primo ministro, quando si dimette per cause diverse dall’approvazione di una mozione parlamentare di sfiducia, può essere sostituito da un altro Primo ministro indicato con apposita mozione parlamentare, purché appartenga alla medesima maggioranza espressa dalle elezioni (e ciò per evitare i cosiddetti “ribaltoni”);
il potere del Primo ministro di proporre al Capo dello Stato lo scioglimento anticipato della Camera è ampiamente bilanciato dal potere attribuito alla stessa Camera di impedire lo scioglimento mediante l’approvazione di una mozione, sottoscritta da deputati appartenenti alla stessa maggioranza espressa dalle elezioni, nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si indichi il nome di un nuovo Primo ministro.
L’accusa di realizzare una “deriva plebiscitaria” è dunque del tutto infondata. Al premier vengono attribuiti poteri equivalenti o addirittura inferiori a quelli attribuiti al capo dell’esecutivo dalle più consolidate democrazie parlamentari. Il rischio che incombe sulla riforma è semmai quello contrario, cioè di un Governo debole e di un premier che può subire i veti di componenti minoritarie della propria maggioranza a causa dell’eccessiva rigidità della cosiddetta norma antiribaltone (letteralmente copiata dal documento Bassanini-Amato). Una norma troppo rigida perché mette sullo stesso piano eventualità molto differenti tra loro come, ad esempio, il caso dei senatori Tremonti e Grillo che nel 1994 consentirono la nascita del governo Berlusconi, con i casi ben diversi e gravissimi dei “ribaltoni” del 1994 e del 1998. In particolare va assolutamente soppressa la norma che costringe il premier alle dimissioni “qualora la mozione di sfiducia sia respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni”. Si tratta infatti di una norma grimaldello che può scardinare la stabilità dell’esecutivo.
V. Se nel dibattito parlamentare, anziché innalzare barricate su una presunta e inesistente dittatura del premier o sui rischi, altrettanto inesistenti, di disgregazione dell’unità d’Italia, si fosse concentrata l’attenzione sui problemi reali che il disegno di legge di revisione costituzionale presenta, il testo della riforma sarebbe stato certamente migliore. Ma il centrosinistra ha scelto deliberatamente la strada della delegittimazione e della falsificazione dei contenuti della riforma rifiutandosi di scrivere assieme alla CdL la modifica della seconda parte della Costituzione, nonostante la scelta della forma di governo del premier, cioè del modello gradito all’opposizione. Infatti il centrosinistra si è opposto e si oppone alla riforma a prescindere dal suo contenuto, per la natura del suo proponente: la Casa delle Libertà, costituita da forze che non hanno scritto la Carta del 1948, che non hanno fatto parte dell’ “arco costituzionale” e alla quale, pertanto, non intende riconoscere il diritto a modificare la Costituzione.
Non essendo stata raggiunta la maggioranza dei due terzi dei componenti nella seconda lettura da parte della Camera e del Senato, la riforma sarà sottoposta al giudizio dei cittadini attraverso il referendum confermativo, ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione.
In quella occasione i cittadini italiani dovranno assumere una decisione di straordinaria importanza. Bocciare la riforma e tenersi per molto tempo ancora la vecchia Carta del 1948, non più adeguata ad affrontare che le grandi sfide che i tempi ci impongono, conservando l’ “assurdo e ingombrante” bicameralismo paritario e rinunciando a correggere i gravissimi difetti della modifica del titolo V del 2001, oppure approvare la riforma consentendo al prossimo Parlamento di correggere i suoi limiti e incongruenze, eventualmente anticipando alcuni aspetti, in particolare le norme sulla forma di governo volte a dare stabilità all’esecutivo.
Una decisione molto difficile che non sarà certo favorita dai falsi e assordanti slogan che finora hanno accompagnato l’esame parlamentare della riforma e quasi certamente caratterizzeranno anche la campagna elettorale. Il rischio più grande, insomma, è quello che venga ancora una volta sprecata una grande occasione di riforma e di modernizzazione delle istituzioni di cui il Paese ha fortemente bisogno.
Modernizzazione che ha sempre costituito la missione principale della CdL e sulla quale, pertanto, il centrodestra gioca la sua più grande sfida: quella di fondare una nuova legittimità costituzionale e, con essa, la propria stessa legittimità.
FONTE: http://www.sivotasi.it/