Risposta all’articolo del “Corriere” del celebrato filosofo italiano
L’embrione e il sofisma di Severino
Attorno all’embrione umano si accendono interessi e dispute che sono sia di natura filosofica sia di natura scientifica: sullo sfondo, ma non certo come fattore irrilevante, ci sono anche gli interessi economici di chi vuole usare l’embrione a fini sperimentali. Emanuele Severino, celebrato filosofo italiano, interviene sul tema dell’embrione (Corriere di ieri) per sostenere che l’embrione umano non è un essere umano e che tale conclusione deve essere riconosciuta anche dagli amici fedeli dell’embrione stesso. Poiché, secondo un vecchio motto, il filosofo è fedele alla verità più che ad ogni altra amicizia, cercherò di mostrare perché Severino sbaglia nella sua argomentazione e cercherò di ribadire che l’embrione umano è un essere umano.
Severino, inoltre, afferma che il suo argomento è nuovo e decisivo: purtroppo, però, oltre a non essere decisivo, è anche vecchio quanto le dispute sull’embrione umano, anzi ancor più vecchio, risale alle dispute tra parmenidei e aristotelici.
Per prima cosa occorre osservare che Severino parte da una premessa che non è quella dei “difensori” dell’embrione: per costoro (o almeno, sicuramente per me) l’embrione umano è un uomo in atto e non soltanto in potenza. L’embrione umano sarà in potenza un calciatore, un filosofo, in potenza avrà occhi azzurri e capelli rossi, ma in atto è già uomo (e non diventerà né elefante né formica, ma uomo adulto, con caratteri più o meno interessanti). Chi pone l’inizio della vita (in atto) propria dell’embrione a partire dalla fecondazione, lo fa attraverso un ragionamento – per così dire – a ritroso: se cerco un criterio di demarcazione tra quando io ho iniziato ad esistere e quando io non c’ero ancora, posso ragionevolmente fissarlo a partire dalla fusione di quei gameti (ovocita e spermatozoo) che prima erano in due corpi differenti (quelli dei miei genitori).
Ora, a differenza di quanto pensa (ma non dice esplicitamente Severino), il divenire è reale, le cose si trasformano e perciò, come insegna Aristotele, ciò che è in atto è anche in potenza, ma sotto un aspetto diverso di quello per cui è in atto: questo significa che ogni cosa cioè può diventare diversa da quella che è. Se l’embrione, per usare l’espressione di Severino, è uomo in atto, è anche non uomo in potenza perché può morire, nel qual caso diventa altro da sé. Ma anch’io e anche Severino siamo uomini in atto e non-uomini in potenza, perché possiamo morire. Ognuno può diventare altro da sé semplicemente perché esiste il divenire e tutte le cose, piaccia o no, si trasformano.
Ora, l’unione degli opposti non è contraddittoria se, come ben sa Severino, non riguarda lo stesso aspetto e lo stesso tempo: io adesso sono seduto (in atto) davanti al mio computer, ma sono anche in piedi (in potenza) nel senso che posso alzarmi. Così l’embrione è già uomo in atto, anche se non sono compiutamente in atto tutte le sue potenzialità, poiché deve svilupparsi e può anche morire e sicuramente morirà se lo uccideremo per prelevare le cosiddette cellule staminali.
Perché l’illustre filosofo, discepolo di Parmenide, sbaglia?
Per due motivi, a mio avviso: il primo, esplicito, perché attribuisce all’embrione un’umanità in potenza mentre bisogna riconoscere che è uomo in atto; il secondo, implicito, perché negando consistenza al divenire non riconosce che non si è mai uomini totalmente in atto, o puramente in atto, poiché si è sempre in divenire e, quindi – per così dire – sempre impastati di atto e potenza. L’essere umano allo stadio embrionale, quanto a dignità ed umanità, non è diverso all’essere umano allo stadio di adulto o di anziano (quali siamo io e Severino), ma è certo diverso quanto a potenzialità: le nostre vite (mie e di Severino) volgono al declino, la sua (dell’embrione), se non lo uccidiamo, va verso la crescita.
Ci sono diverse stagioni della vita ed è per questo che gli esseri umani allo stadio embrionale, i nostri figli, hanno maggiori potenzialità di vita di quelli che abbiamo noi anziani. Noi dovremmo avere, in atto, maggiore saggezza. Uomini e non-uomini, viventi in atto e cadaveri in potenza, mortali figli della terra che aspirano a trovare rispetto e riconoscimento, gli uomini allo stadio embrionale interrogano la coscienza e la volontà degli uomini allo stadio adulto, che con loro condividono le sorti della condizione umana.
di Adriano Pessina
Avvenire 2 dic. 04