Il bizzarro e truffaldino Statuto regionale umbro

Uno strampalato Statuto regionale che non ha santi a cui votarsi

Forme di convivenza non specificate, ripescaggio di consiglieri trombati e molte altre stranezze (mai) approvate

Forme di convivenza che non si capisce bene cosa siano; consiglieri regionali di serie A e di serie B, questi ultimi ripescati malgrado la trombatura del voto popolare; un governo regionale che legifera a colpi di decreti peggio che la Quinta Repubblica di De Gaulle; e perfino una Corte Costituzionale regionale, ancorchè mascherata da commissione di garanzia statutaria”.
L’Umbria, cuore verde d’Italia, ha messo più di una stranezza nel proprio nuovo Statuto regionale. Ma la cosa più bizzarra è, appunto, che tale nuovo statuto tecnicamente non risulta essere stato approvato. Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 123, secondo comma: “Lo statuto è approvato e modificato dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di due mesi“. Ebbene: a Perugia il 2 aprile e 29 luglio 2004 sono stati invece votati due testi ben diversi. L’imbroglio è all’articolo 9, che nel testo primaverile parla di “Comunità familiare. 1. La Regione riconosce i diritti della famiglia e adotta ogni misura idonea a favorire l’adempimento dei compiti che la Costituzione affida ad essa e tutela le varie forme di convivenza”.
Arriva l’estate, e poiché come insegna la fisica il calore dilata i corpi, anche il comma si moltiplica per due, come d’altronde si sdoppia il titolo: “Famiglia. Forme di convivenza. La Regione riconosce diritti della famiglia e adotta ogni misura idonea a favorire l’adempimento dei compiti che la Costituzione le affida. Tutela altresì forme di convivenza”. La maggioranza del Consiglio ritiene evidentemente che si tratti di un mero aggiustamento formale, ma non è così. Una cosa sono “le varie forme di convivenza”, per di più fatte rientrare nell’ambito di una “comunità familiare” evidentemente più ampia della “famiglia” costituzionale. Tant’è che, dal testo, risulta ben chiaro che questa tutela è qualcosa di ulteriore rispetto a quanto dice la Costituzione. Cosa ben diversa sono queste “forme di convivenza” appiccicate accanto alla famiglia nel titolo, e tutelate poi a parte dopo punto. Se non sono più “le varie”, dunque, non sono tutte. Ma allora, quali sì e quali no tra conviventi more uxorio, coppie gay, matrimoni poligamici di tipo islamico mormone, e chi più ne ha più ne metta? “Una tale modificazione, intervenuta con la seconda deliberazione, ha evidente carattere sostanziale ed impedisce di poter ritenere realizzata la fattispecie delle ‘due deliberazioni successive’ prevista dall’art. 123, secondo comma, Cost. Il procedimento previsto da questa norma costituzionale non si è perfezionato, perché non v’è stata la cosiddetta doppia conforme, che deve caratterizzare le ‘due deliberazioni successive’ adottate ad almeno due mesi di distanza. Dunque non vi è imputabilità al Consiglio regionale di una volontà di legiferare davvero in ambito statutario”. E’ il testo di un ricorso alla Corte Costituzionale che è stato fatto contro questa disinvolta procedura. E se si tiene presente il particolare che lo statuto della Regione Umbria è uno dei tre impugnati dal governo, assieme a quelli della Toscana e dell’Emilia-Romagna, sarebbe allora facile ricostruire tutta la vicenda nei termini di un ennesimo scontro tra una maggioranza nazionale ispirata e motivata dalla Chiesa e le tre storiche regioni rosse. Don Camillo contro Peppone, nell’era del federalismo.
Il suggerimento di monsignor Paglia
E invece no, lo scenario è molto più complesso. Prima di tutto, la gerarchia cattolica in Umbria non solo non ha fatto barricate, ma secondo una precisa strategia del dialogo a tutti i costi di cui alcuni dei suoi massimi esponenti sono propugnatori ha piuttosto lodato che criticato. E’ il caso in particolare del vescovo di Terni Monsignor Vincenzo Paglia, uomo della trattativa anche in quanto presidente della Commissione episcopale ecumenismo e dialogo della Conferenza episcopale italiana. “E’ da ritenere positiva la scelta di aver legato il concetto di famiglia a quanto contenuto nella Costituzione italiana”, disse quando uscì il testo in prima lettura. E affermò anche di non “voler negare all’autorità civile di voler tenere conto di determinate situazioni”. Insomma, sembra di capire che non avrebbe obiezioni di fondo a una disciplina sull’unione tra gay simile al Pacs francese, sulla linea di quanto proposto dal Foglio e in passato accettato anche dalla Chiesa spagnola.
La sua obiezione fu che “se si usa la ragione e la logica oltre che il buon senso, equiparare le ‘varie forme di convivenza’ a quanto la Costituzione afferma relativamente alla famiglia, rende più che equivoco quanto è stato prima affermato”. Di qui la provocazione: “anche le comunità religiose, così tanto presenti in Umbria, sono una forma di convivenza”. Il suggerimento di Monsignor Paglia? “Non resta che una strada: quella di dividere i due concetti, famiglia e forme di convivenza, non equiparando la definizione a quella della altre convivenze, interrompendo in una successiva revisione del testo, la consequenzalità presente nell’articolo ponendo i distinguo del caso”. Per dargli retta, gliela hanno data. Il nuovo testo dell’articolo 9 interrompe infatti la “consequenzialità” dei due concetti, in modo altrettanto netto e letterale di quanto il Bertoldino del famoso libro non mettesse in pentola due fagioli contati, alle richieste della madre di cucinare “due fagioli”. E il testo dice poi proprio “forme di convivenza”, senza neanche un articolo determinativo o indeterminativo: proprio come Paglia aveva chiesto. E’ stato dunque per venire incontro alle richieste del presule senza ritardare l’approvazione definitiva di altri due mesi che è stato fatto lo sgarro istituzionale? Lo stesso vescovo di Terni ha fatto sapere di ritenere che “la redazione dello Statuto risente di una certa fretta nell’approvazione”. D’altra parte, ciò a cui la Chiesa umbra teneva particolarmente era piuttosto l’inserimento di un qualche riferimento a San Francesco d’Assisi e San Benedetto da Norcia, i due umbri più famosi della storia (a parte lo storico Tacito, del quale non è però del tutto accertato che fosse nato nella città che ai suoi tempi si chiamava Interamna e che oggi è invece Terni). Ma questa gliel’hanno bocciata. E qui va fatta un’altra notazione: lungi dall’essere un atto di forza di una maggioranza rossa contro una minoranza “clericale”, lo Statuto è stato approvato da un’ammucchiata allegramente consociativa, dai Ds ad An passando per Sdi, Margherita e Forza Italia. E solo sulle “altre forme di convivenza” in prima lettura la Margherita aveva votato contro, facendo blocco col centro-destra. In compenso, ad opporsi allo Statuto sono poi restati Rifondazione comunista e Italia dei Valori, oltre a Carlo Ripa di Meana. E, tanto per scompaginare di più le carte, era stato proprio un personaggio dalle credenziali di laicità ineccepibili come lo stesso Ripa di Meana l’unico a proporre, inascoltato, l’inserimento dei due santi nel documento.
La denuncia di Carlo Ripa di Meana
Ma non è finita. Perché è proprio dal ricorso che ha poi fatto ancora Ripa di Meana, come “consigliere dissenziente”, che è stata tratta la denuncia su cui siamo partiti, a proposito della mancata corrispondenza tra i testi delle due letture. Il governo, infatti, ha fatto evidentemente ricorso sul contrasto tra il disposto della Costituzione e la genericità di quel “forme di convivenza”. Ha poi eccepito sugli articoli 39 e 40, che consentirebbero alla giunta regionale di fare leggi attraverso strumenti analoghi ai decreti legge e decreti legislativi del governo centrale, senza tener conto che in quel caso c’è una deroga esplicita della Costituzione al principio della separazione tra potere legislativo ed esecutivo. C’è poi l’articolo 66, che sottrae allo Stato l’indicazione dei casi di incompatibilità elettorale. E c’è l’articolo 82, istituente una Commissione di Garanzia che in qualsivoglia modo la si chiami non può essere che un organo rappresentativo. Salvo che poi funzionerebbe da Corte Costituzionale regionale, col potere di sindacare la conformità allo Statuto di leggi e regolamenti già adottati da Giunta e Consiglio: una cosa che, trattandosi di un organo amministrativo, non potrebbe evidentemente fare. Senonché il governo non sembra aver niente da obiettare sull’altra conseguenza dell’articolo 66. Ovvero, come spiega il comma 2 dopo che il comma 1 ha stabilito l’incompatibilità tra appartenenza alla Giunta e al Consiglio regionale: “Al Consigliere regionale nominato membro della Giunta subentra il primo tra i candidati non eletti nella stessa lista, secondo le modalità stabilite dalla legge elettorale. Il subentrante dura in carica per tutto il periodo in cui Consigliere mantiene la carica di Assessore”. Capito? Non solo dunque sarebbe possibile alla maggioranza ripescare sino a nove candidati non premiati dall’elettorato. Addirittura, tali eletti sarebbero provvisori, e dunque persino ricattabili col semplice espediente di far dimettere l’assessore che hanno sostituito per farlo tornare consigliere al loro posto. Macchinosità di questa entrata e uscita dal Consiglio come da un cesso pubblico a parte, che fine fa quel “divieto di mandato imperativo” che è uno dei principi base non solo della Costituzione, ma di tutta la democrazia moderna? E il governo, inoltre, ha deciso di far passare anche la doppia deliberazione difforme. “Il dire che il governo lo ha rinviato giudizio costituzionale per ragioni politiche e non tecnico-giuridiche diviene esercizio che si addice solo a chi non sa di diritto pubblico”, ha scritto sul Corriere dell’Umbria il consigliere di Stato Giuseppe Severini. “Semmai è da sottolineare la benevolenza mostrata nel non impugnare la non conformità tra le due delibere, che in Consiglio regionale era stata negata un po’ alla maniera del curato che il venerdì battezza pesce la carne”. Cosicché, appunto, a eccepire alla fine è stato isolato il “consigliere dissenziente” Carlo Ripa di Meana: non solo con un “intervento” sul ricorso del governo, ma anche con un ricorso per conto proprio. “La Costituzione non prevede espressamente, a proposito dello Statuto regionale, la legittimazione a ricorrere del Consigliere regionale non consenziente”, ammette lo stesso ricorso. “Nondimeno questa è implicita nel sistema costituzionale medesimo”. “L’acquiescenza dell’ordinamento… di fronte ad una tale illegalità…, con cui si vorrebbe far passare per esistente un’approvazione regionale in realtà mai venuta in essere, significherebbe ridurre volutamente rigorosa previsione procedimentale costituzionale a mera opzione, con demolitivi effetti di precedente in ordine alla precettività delle norme costituzionali stesse”. E dunque, “se ora non si riconoscesse la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale non consenziente, circa siffatti aspetti che il governo non intende impugnare, l’interesse al rispetto, anche rito, della legalità costituzionale resterebbe adespota e relegato a questione sottoposta alla sola valutazione governativa di opportunità politica, con evidente elusione della giuridicità della Costituzione rispetto agli Statuti regionali”. Naturalmente, la Corte Costituzionale potrà sempre dire di non essere d’accordo. Ma il ricorso dovrà pure averlo letto. E non potrà dunque non sapere com’è veramente andata, su un punto gravità tale da poter essere sollevato d’ufficio. Anche il governo direttamente non l’ha impugnato.


di Maurizio Stefanini

Il Foglio 27 Novembre 2004