I segreti dell’infernale paradiso cubano

  • Categoria dell'articolo:Socialismo

Anche la disoccupazione è reato nell’isola- lager di Fidel Castro


Potrebbe essere un paradiso Cuba. Ma l’isola caraibica è un inferno per la popolazione locale che ormai da 46 anni deve sorbirsi un regime poliziesco che controlla tutto e tutti, nega anche le più elementari libertà…

Un lungo elenco di orrori. Il ritratto di una dittatura, che in nome di una non meglio precisata “rivoluzione socialista” tiene in scacco una popolazione di 11 milioni di abitanti. È questo il quadro che emerge dal “Libro nero di Cuba” (Guerini e Associati), una raccolta di documenti e testimonianze che inchioda Fidel Castro alle sue responsabilità. Senza possibilità di appello. Potrebbe essere un paradiso Cuba. E tale lo è per decine di migliaia di turisti che ogni anno ne invadono le spiagge. Ma l’isola caraibica è un inferno per la popolazione locale che ormai da 46 anni deve sorbirsi un regime poliziesco che controlla tutto e tutti, nega anche le più elementari libertà e perseguita dissidenti, omosessuali, cattolici. Tutti cioè coloro che non sono “in linea” col pensiero unico castrista. Basti pensare che la natura dittatoriale e liberticida del regime cubano è garantita dalla stessa costituzione (redatta nel 1976 secondo i più vetusti principi dello stalinismo), dove è scritto, nero su bianco, che «nessuna libertà può essere esercitata in contrapposizione agli obiettivi dello Stato socialista» . Tra i reati previsti dal codice penale quello di “disoccupazione”. Proprio così, tra i 75 dissidenti ( per lo più intellettuali) messi al gabbio nell’aprile del 2003, perché «cospiratori al soldo degli Stati Uniti» , figurano anche dei pericolosi “disoccupati”. Ora sono rinchiusi in una delle 200 prigioni dell’isola caraibica dove nemmeno il Comitato della Croce Rossa Internazionale può entrare. Qui le celle sono infestate da insetti e topi. Non mancano inoltre casi di vera e propria tortura, documentati da Human Right Watch, soprattutto nei confronti dei detenuti politici. Ma a ben vedere tutta Cuba è un’immensa prigione per la popolazione locale: qui infatti vige il divieto di andare all’estero, di parlare con gli stranieri (al di là dei rapporti mercenari), di muoversi liberamente su Internet (neanche il viaggio virtuale è permesso). L’unica possibilità è la fuga: a bordo di gomme, di carrette del mare di fortuna, di zattere. Rischiando la vita per conquistarsi la libertà. Nell’isola del Che sono due i compiti principali della “polizia rivoluzionaria” (c’è scritto proprio così sulle divise delle forze dell’ordine): tenere sotto ferreo controllo la popolazione locale e far sì che i turisti ( per lo più alla ricerca di ragazzine, anche minorenni, che in cambio di una manciata di dollari donano i loro corpi) possano “divertirsi” in tutta sicurezza, senza spiacevoli sorprese. Gli scippi e i furti ai danni di stranieri nell’isola sono infatti quasi inesistenti. Castro, favorito dai finanziamenti che copiosi giungono dai Paesi europei (compresa l’Italia), si può permettere veramente di tutto. Non è difficile finire in galera nel paradiso della rivoluzione. Il giornalista e poeta Raùl Rivero, ad esempio, c’è finito, con una condanna di 20 anni, per aver pubblicato articoli « tendenziosi » sulla stampa straniera. Rivero ha anche collaborato con Reporter senza frontiere, una «organizzazione terrorista francese manipolata dal governo degli Stati Uniti», secondo la magistratura dell’isola. In sua difesa il poeta giornalista ha dichiarato: « Io non cospiro, scrivo » . Ma la frase è stata presa come un’aggravante dagli aguzzini comunisti che, fedeli al verbo totalitario, considerano pericoloso pensare e ancor più pericoloso esternare le proprie idee, magari in un articolo sulla libera stampa. Per chi poi tenta di fuggire dall’inferno cubano, e viene beccato dalla guardia costiera dell’Havana, si rischia direttamente la pena di morte: come Castillo, Garcia e Isaac fucilati l’ 11 aprile 2003, riconosciuti colpevoli di “terrorismo”. Nel paradiso castrista cercare la libertà è infatti equiparata alla sovversione contro l’ordine costituito. Molto giustamente un capitolo di questo libro- dossier è intitolato “Gli investimenti stranieri, solidarietà o complicità”?. In un rapporto della sezione olandese di Pax Christi si evidenzia come gli «investimenti senza restrizioni contribuiscono al mantenimento di un regime repressivo» . A fare la parte del leone, in questi investimenti, gli imprenditori del Vecchio continente: il 52% sono infatti europei, il 19% canadesi e il 18% latinoamericani. La voce principale è logicamente quella del turismo. Poco importa, ai gestori di villaggi e hotel, se i loro ospiti siano o meno dediti alla pedofilia. I lavoratori cubani assunti dalle ditte straniere (obbligate comunque a fondare una società a partecipazione statale) non hanno le più elementari protezioni e sono obbligati a iscriversi a un sindacato unico che garantisce solo un ferreo controllo delle loro coscienze. È proprio il caso di dire, parafrasando Lucio Lami, che “Cuba Libre” è rimasto solo un cocktail.


di Andrea Colombo



Libero 3 maggio 05