EUTANASIA DI UNA SOCIETÁ

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Nessuna autorità può avallare la «dolce morte»


di Mario Palmaro

Che Piergiorgio Welby abbia pensato di rivolgersi direttamente al capo dello Stato per chiedere l’eutanasia è molto istruttivo. Involontariamente, il co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni ci mette di fronte al problema più grave, e oggettivamente insormontabile, di ogni discorso sulla «dolce morte»: a chi spetti decidere chi, come, dove e quando si possa uccidere per motivi pietosi.
L’idea della lettera al Quirinale risponde alla strategia tipicamente radicale di sollevare il massimo clamore intorno ai temi dei cosiddetti «diritti civili». C’era inoltre la studiata aspettativa che, essendo Napolitano il prodotto del pensiero marxista, oltre che un autorevole esponente del postcomunismo relativista, il presidente avrebbe risposto in maniera non ostile. Attesa che, infatti, non è andata delusa. Del resto, chi potrebbe scrivere in modo scortese a una persona nelle condizioni di Welby?
Ci sarebbe molto da ridire su questo uso cinico e spregiudicato della sofferenza, questa strumentalizzazione della persona umana.
L’altro giorno Capezzone da Radio Radicale spiegava che «Welby usa la sua malattia come arma di lotta politica». Complimenti. Ma l’aspetto giuridicamente più interessante sta proprio nella formula della petizione alla massima carica dello Stato. È qualcosa di molto simile alla richiesta di grazia, che un detenuto inoltra sperando di ottenere la cancellazione della sua pena. Ora, però, nel caso di Welby è come se i radicali volessero inventarsi un diritto del capo dello Stato non alla grazia, ma al «colpo di grazia». Per un momento, i democratici e tolleranti volterriani tradiscono quasi la nostalgia per i bei tempi andati dell’Ancien Régime, quando il sovrano assoluto poteva disporre del destino fisico dei suoi sudditi.
Intendiamoci: Pannella, Bonino, Capezzone e compagni sanno benissimo che non spetta a Napolitano decidere il destino di Welby. Perché lo sanno? Perché conoscono il principio giuridico elementare, in base al quale la vita di ogni persona umana è indisponibile per sé e per gli altri, e nemmeno l’uomo più importante del potere costituito potrebbe valicare questo confine.
Allora – si ribatte – è semplice: affidiamo il diritto di decidere se vivere o morire a ogni singola persona. È qui che si cela l’inganno. Perché il caso-Welby, come qualsiasi altra dolorosa vicenda analoga, dimostra che la domanda di morte espressa da un uomo si scontra con la necessità per il potere costituito di stabilire dei criteri. Per decidere cioè se quel particolare individuo che vuole morire possieda i requisiti. Come quando si chiede la pensione. In questo caso non ci sono cedolini ma solo un uomo disperato, e dall’altra parte altri uomini – il medico, lo psicologo, il giudice, il Parlamento, Giorgio Napolitano – che dovrebbero, dopo ampio e approfondito dibattito, stabilire se il richiedente ha diritto a ciò che domanda: essere soppresso.
Ma questo non è mai stato il vero compito del diritto.
In queste ore, un malato scrive al presidente che vuole vivere, un altro che vuole morire; ma da queste due richieste non si può desumere alcuna indicazione normativa.
Perché? Per il semplice fatto che la legge non consiste nella mera ricezione della volontà del singolo, ma anzi essa è chiamata quasi sempre a contrapporvisi, per decidere nel senso di un bene oggettivo, che travalica il punto di vista del singolo.
Ecco perché nessuno, nemmeno un re o il presidente di una nazione, hanno nel fascio dei loro poteri l’autorità per decidere che un innocente sia ucciso, seppure con il suo consenso.


il Giornale n. 227 del 26-09-06 pagina 10