Avvenire e il “caso Boffo”: riflessione di Roberto de Mattei

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Riflessioni e domande sul caso Boffo

Al di là del disgusto per l’intera vicenda, quel che appare grave ai semplici fedeli, quali noi siamo, non è l’attacco a Dino Boffo di Vittorio Feltri, che in fin da conti fa il suo mestiere di giornalista, ma il silenzio con cui lo scandalo giudiziario è stato fino ad oggi coperto da chi aveva il dovere di intervenire e ha ora quello, impellente, di rimuovere dal suo incarico il direttore di “Avvenire”.

di Roberto de Mattei

 

Il caso Boffo va bene al di là delle relazioni tra Berlusconi e il Vaticano, entro cui lo si vorrebbe ingabbiare, e pone un problema di fondo alla Chiesa cattolica.
La questione si riassume in questi termini: può l’organo dei vescovi italiani essere diretto da un uomo che è stato condannato per molestia e che, soprattutto, è sospettato di essere in una condizione definita dal Catechismo della Chiesa «intrinsecamente disordinata» e «contraria alla legge naturale» (n. 2357)? Poco importa come il fatto sia venuto alla luce. Quel che importa è che il direttore di “Avvenire” non lo abbia mai esplicitamente negato, aggiungendo alla doverosa smentita una altrettanta categorica condanna di ogni comportamento omosessuale.
Il problema non tocca in alcun modo la vita privata degli uomini politici, e tantomeno dei direttori dei giornali italiani, ma – insistiamo su questo punto perché è centrale – riguarda il direttore di un giornale appartenente alla Conferenza Episcopale Italiana (CEI). La domanda che poniamo alle autorità ecclesiastiche è la seguente: è legittimo invocare il “rispetto della vita privata” in casi come questo?
Berlusconi, Bossi, Casini, Fini e anche Franceschini, Prodi e Veltroni, sono liberi di comportarsi come vogliono nella loro vita privata. È lecito naturalmente giudicare la coerenza, o l’incoerenza, tra i loro comportamenti pubblici e privati ma, in ultima analisi, per la Chiesa la loro azione pubblica è più importante di quella privata. Per questo è preferibile un uomo politico immorale, ma contrario alla legalizzazione dell’immoralità, ad un altro uomo politico morigerato nella vita privata, ma favorevole a istituzionalizzare l’immoralità nelle leggi e nel costume.
Ben diverso è il caso di un personaggio designato dalla CEI per un incarico così delicato, quale è quello di essere il portavoce dei vescovi italiani. Per tutti gli incarichi di responsabilità nelle istituzioni ecclesiali, quali direttori di testate cattoliche, professori o insegnanti in università cattoliche o pontificie, rettori di seminari, superiori di ordini religiosi, parroci e vescovi, la Chiesa ha sempre richiesto, e non può cessare di richiedere, una rigorosa coerenza tra la vita pubblica e quella privata. Le ragioni sono molteplici, e anche ovvie.
In primo luogo la Chiesa non propone solo una dottrina astratta, ma anche modelli di vita, incarnati, nel più alto grado, dalla santità. Non si può pretendere la santità da tutti, ma da tutti si esigono comportamenti, anche privati, non contrari alla legge naturale e cristiana. Quando ciò non accade, ci si trova in una situazione di grave decadenza morale, come spesso è avvenuto nella storia della Chiesa. Questa situazione deve essere contrastata e non subita, o peggio ancora giustificata. E questo, non per mancanza di carità nei confronti delle membra deboli della Chiesa, che rimangono sempre fratelli da amare, ma per l’amore, più alto, che è dovuto in primis alla legge divina e poi a tutta la comunità cristiana che, con fatica, a questa legge cerca di conformarsi.
Una seconda ragione nasce dallo stretto rapporto intercorrente tra le istituzioni e gli uomini che le rappresentano. Un poliziotto implicato in una rapina danneggia in maniera grave la credibilità della istituzione a cui appartiene. Allo stesso modo chi predica la morale, quando la trasgredisce nei fatti, causa un danno non solo a sé stesso, ma ai princìpi che cerca di trasmettere al prossimo.
Oggi esiste una violenta offensiva contro la Chiesa, che mira a screditare i suoi rappresentanti, dipinti di volta in volta come pedofili, ladri, corrotti, razzisti, omosessuali, e comunque sempre in contraddizione con i princìpi da loro professati. L’unica replica possibile a questa manovra è la forza della Verità. Se le accuse sono false, vanno smascherate e denunciate. Se sono vere, non bisogna coprire i vizi, e tantomeno trasformarli in virtù, ma occorre estirparli prontamente, sottolineando la distinzione necessaria tra la Chiesa, sempre santa e immacolata, e gli uomini di Chiesa, deboli e fallibili come tutti i mortali. Essi vanno sempre amati, anche quando sbagliano, ma mai giustificati per i loro errori. Che senso ha esprimere loro “stima” e “solidarietà”?
Vi è ancora una ragione, fondata sul principio secondo cui se non si vive come si pensa, si finisce col pensare come si vive. Oggi la Chiesa è impegnata in una dura battaglia contro il relativismo culturale e morale che aggredisce la società. Questa battaglia esige idee forti, ma anche uomini forti, coerenti con le proprie idee. La pratica del relativismo morale conduce inevitabilmente al relativismo ideologico, minando il fronte di resistenza al nemico. Una delle cause più profonde della debolezza culturale della Chiesa nel mondo, sta oggi proprio nella debolezza morale dei suoi rappresentanti. Ad un posto di responsabilità come quello di direttore del giornale dei vescovi, bisognerebbe designare un cattolico forte e coerente, e non già un uomo di compromesso culturale e morale.
Se così non fosse, se cioè dovessimo immaginare che la vita privata di un personaggio destinato ad alta carica dai Pastori della Chiesa fosse priva di incidenza sulla sua attività pubblica, dovremmo chiederci perché mai la Santa Sede abbia inviato un congruo numero di visitatori apostolici presso un importante congregazione religiosa, sotto inchiesta per le trasgressioni morali private del suo fondatore. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Perché mai le università cattoliche e pontificie dovrebbero chiedere patenti di fede e di morale, pubblica e privata, ai propri docenti? Se si ammette il principio invocato per difendere il direttore di “Avvenire”, le conseguenze per la Chiesa sarebbero devastanti.
Al di là del disgusto per l’intera vicenda, quel che appare grave ai semplici fedeli, quali noi siamo, non è l’attacco a Dino Boffo di Vittorio Feltri, che in fin da conti fa il suo mestiere di giornalista, ma il silenzio con cui lo scandalo giudiziario è stato fino ad oggi coperto da chi aveva il dovere di intervenire e ha ora quello, impellente, di rimuovere dal suo incarico il direttore di “Avvenire”.
Che Dio illumini i nostri uomini di Chiesa!

CR n.1107 del 5/9/2009 – Mercoledì 02 Settembre 2009