I MARTIRI DI MALATYA
Dopo il massacro di tre cristiani, tra il clamore dei giornali e l’imbarazzo delle piazze, la Turchia scopre la saldatura tra estremismo islamico e nazionalismo…
Buca (Turchia)
Per Elisah sono i dieci minuti più lunghi della vita, qui fra i cipressi nel cortile della chiesetta battista di Buca, alle porte di Smirne. Tutti gli occhi, le telecamere e i microfoni sono puntati su di lui; quasi sfiorano il suo viso paffuto e olivastro, i suoi mesti occhioni neri, mentre il pastore declama una preghiera implorando Dio di proteggere quell’orfano di 6 anni, sua sorella Ester di 5 e sua madre Semsa, che gli tiene un braccio attorno alle spalle un po’ per reggersi in piedi, un po’ per proteggerlo. E di farlo crescere sulle orme di suo padre Necati, i cui resti sono chiusi dentro alla bara alle loro spalle, coperta da un lenzuolo viola e appoggiata su un tavolo di fòrmica impellicciata dalle lunghe gambe di metallo sottili.
È altissimo il prezzo pagato da Necati per la sua fede. L’autopsia ha contato 159 coltellate sul corpo di Tilmann Geske, il 46enne tedesco trucidato insieme ai due convertiti turchi dentro alla sede della casa editrice Zirve a Malatya, nell’est della Turchia. Ma sul corpo di Necati il numero delle ferite non è riuscito a contarlo nessuno. Lo avrà fatto qualcuno lassù in Cielo. Nella bella foto di Necati sorridente in giacca e cravatta con garofano all’occhiello, di tre quarti su uno sfondo azzurro, appesa a una spoglia croce marrone alta cinque metri (unico simbolo religioso del funerale) c’è scritto “Benim adim göklerde yazili”, “Il mio nome è scritto nei Cieli”. Nella foto Necati Aydin è un bell’uomo di 35 anni con baffetti e pizzetto. Ma quando i tre corpi sono stati ritrovati, i volti erano tumefatti, quasi irriconoscibili per i troppi colpi ricevuti. Il medico Murat Ugras ha raccontato dei suoi vani sforzi per salvare la vita della terza vittima, Ugur Yuksel: «Aveva una serie di ferite da arma da taglio alle cosce, ai testicoli, nel retto e alla schiena – ha spiegato al giornale Hurriyet – e le sue dita erano state tagliate fino all’osso». Alla conferenza stampa convocata dai pastori protestanti a Istanbul giovedì scorso i toni erano stati molto amari. Isa Karatas, portavoce dell’Unione delle Chiese turche, aveva parlato di «delitto annunciato ed evitabile». Effettivamente quando la casa editrice si chiamava ancora Kayra l’allora direttore, un sudafricano di nome Martin Delange, nel 2003 aveva lasciato il posto ed era rientrato in Sudafrica a causa di ripetute minacce di morte. Gli erano subentrati Geske e Aydin, originario dei dintorni di Smirne, che si erano trasferiti a Malatya nel 2002. Zirve, che distribuisce Bibbie e letteratura cristiana in tutta la Turchia a partire da Istanbul, Ankara e Smirne, aveva aperto con loro una filiale anche a Malatya. Il prefetto ha avuto la faccia tosta di dichiarare di non avere mai ricevuto denunce, ma nel febbraio 2005 persino il giornale locale Yenigün aveva denunciato le minacce alla casa editrice cristiana in un lungo articolo.
Una scia di paura
Durante la conferenza stampa Bedri Peker, un altro leader protestante turco, non ha esitato a dichiarare che «i cristiani sono sentiti come nemici in Turchia, c’è un diffuso clima di intolleranza». Si è tentati di credergli quando sulle pagine di Milliyet, uno dei più importanti quotidiani, si trova lo specchietto degli attentati, aggressioni e omicidi contro i cristiani negli ultimi tre anni: 10 episodi nel 2005, 7 nel 2006 e 4 quest’anno, compresa la strage di Malatya. Lo stesso Necati aveva conosciuto grossi problemi subito dopo la conversione, avvenuta nel 1999. Il 1° marzo 2000 era stato arrestato insieme a un’altra persona, accusato di aver diffamato la religione islamica. Poi l’accusa era cambiata in violenza privata: tre concittadini li accusavano di essere stati “costretti” ad acquistare delle Bibbie. Avevano trascorso un mese in carcere, in una cella che conteneva 34 persone, dormendo per terra. Poi erano stati prosciolti, e per ottenere un indennizzo si erano rivolti alla Corte europea per i diritti umani, il cui responso non sarebbe mai arrivato.
Solidarietà a intermittenza
«I protestanti sono famosi perché finiscono spesso in prigione», racconta il cappuccino padre Domenico Bertogli, parroco ad Antiochia, presente ai funerali con due confratelli in rappresentanza di tutta la Chiesa cattolica d’Anatolia. «Aprono luoghi di culto senza autorizzazione, glieli chiudono e li processano. Ma alla fine sono costretti a riconoscerli, perché la legge, laica, è dalla loro parte». La legge sì, la stampa e la televisione pure: hanno dato ampio risalto al fatto con interviste ai familiari delle vittime e titoli come “L’incubo continua”, “Ancora lo stesso errore”, “Il terzo grande tradimento”, “Come spiegheremo questo crimine agli stranieri?”. E anche la massima autorità religiosa del paese, Ali Bardakoglu, ha detto che «chi ha ucciso ha tradito sia la patria che la religione». Ma tutto il resto del paese è molto meno ben disposto. Intanto la solidarietà fra cristiani è stata meno che impeccabile. Inizialmente il funerale doveva tenersi alla chiesa anglicana di Smirne, nel centralissimo quartiere di Alsancak affollato di turisti e di traffico. «I sacerdoti ci hanno posto delle condizioni», spiega il pastore Behnan Konutgan. «Volevano che la funzione durasse 45 minuti e che fossero ammesse in chiesa solo 150 persone. Non abbiamo accettato e abbiamo trasferito il funerale qui a Buca».
Poi si resta tristi e interdetti quando ci si guarda intorno e si scopre che a questo funerale non ci sono più di 500 persone, un terzo straniere e due terzi turche. Gli unici musulmani presenti sono i giornalisti e i fotografi. Le autorità civili più importanti presenti sono un delegato del prefetto e un delegato del sindaco. L’unica corona di fiori delle autorità civili è quella del sindaco. Alle esequie di Hrant Dink, nel gennaio scorso, erano scese per strada 100 mila persone a Istanbul e molte di più nel resto del paese. A Malatya i manifestanti erano stati alcune migliaia. Stavolta i democratici turchi della locale Associazione per i diritti umani hanno portato in piazza appena 300 persone, al funerale di Tilmann Geske erano poco più di un centinaio. Umiliazioni e torture
Poco scandalo ha suscitato il fatto che Ugur Yuksel, convertito cristiano con tanto di menzione sulla carta di identità, sia stato sepolto in un cimitero musulmano per volontà della famiglia senza che nessuno potesse far nulla. Taylan Bilgic, giornalista del Turkish Daily News, ammette con imbarazzo: «La gente condanna l’omicidio, ma molti subito aggiungono: “Perché non date lo stesso spazio sui giornali alle centinaia di musulmani uccisi in Iraq?”». E c’è di peggio. Ali Karatafl, insegnante alle medie inferiori di Malatya, racconta che i suoi studenti di 13-14 anni non si vergognano di dire in classe che le vittime “meritavano di peggio” e che “avrebbero dovuto farli a pezzi”. «Giustificano il massacro dicendo che gli assassini lo hanno fatto per la nazione e per l’islam».
Sono le stesse parole scritte e pronunciate dai cinque accoltellatori-torturatori: Emre Günaydin (22 anni), Hamit Çeker (20), Salih Güler (20), Abuzer Yildirim (19), Cuma Özdemir (19). Trattasi di cinque studenti alloggiati in un pensionato e prossimi all’esame per l’ammissione all’università. Frequentavano tutti la stessa palestra, dove hanno pregato inginocchiati sui tappetini disponibili in molte strutture sportive prima di partire con un’auto affittata per il loro massacro. Commenta Marta Ottaviani, corrispondente dalla Turchia per Il Giornale, che ha vissuto un anno in un pensionato per studenti: «Sono autentici covi di estremisti. L’abbinata studentato-palestra, poi, è garanzia di gente che andrà in giro a far danni». Emre Günaydin, il capobanda, si era guadagnato la fiducia dei cristiani mostrandosi interessato ai loro testi religiosi e arrivando a partecipare alla loro celebrazione pasquale. Le torture da lui guidate sono durate quasi due ore, la polizia è arrivata solo perché allertata da un quarto animatore della Zirve che, arrivando e trovando la porta sbarrata, aveva chiamato il cellulare di Ugur Yuksel. Quello aveva risposto con voce tremante: «Ci vediamo dopo all’hotel Altin Kayisi». L’amico ha chiamato la polizia, ma per la vita dei tre era troppo tardi.
Insieme a Trabzon e a Samsun, Malatya è nota dagli anni Sessanta come roccaforte dei Lupi Grigi, il movimento giovanile del partito di estrema destra Mhp, che negli ultimi anni si è un po’ imborghesito. Cacciati dalla città gli armeni (ancora 10 mila negli anni Sessanta), oggi lo scontro è fra gli ultranazionalisti e gli aleviti, ancora numerosi e militanti per lo più a sinistra. Ma quello che da alcuni anni a questa parte sta succedendo all’interno dell’estrema destra turca è materia di discussione. «Storicamente islamisti e ultranazionalisti sono sempre stati due entità distinte e in conflitto», spiega Emre Öktem, docente di diritto internazionale all’università Galatasaray di Istanbul. «Oggi ci troviamo di fronte a gruppi che rivendicano un’appartenenza allo stesso tempo nazionalista e islamista, come quello responsabile dell’uccisione di Hrant Dink».
Niente odio per gli assassini
Qui al funerale nessuno ha parole di odio per gli assassini. «Le Chiese protestanti non sono in nessun modo una minaccia per l’identità della Turchia», spiega il pastore battista Ertan Çevik. «Ci frequentano fra le 3 e le 5 mila persone. I nostri luoghi di preghiera oscillano fra 50 e 100, calcolando anche le chiese domestiche. Sì, abbiamo una dozzina di case editrici che distribuiscono la Bibbia e altro materiale religioso».
Semsa prende la parola, continuando a tenere Elisah sotto braccio. «Mio marito voleva essere come Gesù, ed è stato veramente un Cristo vivente: è morto nello stesso modo. Io non sono arrabbiata con gli assassini: nella Bibbia c’è scritto che chi segue Cristo patirà persecuzioni. Noi sappiamo che queste cose devono succedere». Elisah è delizioso con la sua camicia nerissima e il cravattino rosso granata, ma adesso il volto è corrucciato. Si vede che vorrebbe tornare a sedersi al suo posto, vicino a Ester. Lo rivedrò più tranquillo un’ora dopo, fra le tombe del cimitero latino dove suo padre è stato appena inumato sotto un tumulo di terra fresca, ricoperto di garofani rossi e bianchi, all’ombra di un cipresso alto e di un cipresso giovane. Saltella fra le lapidi delle tombe di marmo e chiede che gli leggano le iscrizioni. «Anche sulla tomba del mio papà voglio la lapide con la scritta», dice a chi gli sta vicino. Per adesso appoggiato sulla nuda terra c’è un grande cuore rosso di latta con sopra, in turco, una citazione di san Paolo: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno». di Casadei Rodolfo
Tempi num.17 del 26/04/2007