Storie di «Draghi» e di belle… banche

Banche d’Italia addio

Sono l’ossigeno per un’economia che si regge sulle piccole e medie imprese (pmi), ma qualcuno le giudica incompatibili col mercato. Così le banche popolari sono finite nel mirino… dei Draghi di turno…

Giace nei cassetti della commissione Finanze del Senato la bozza di riforma Draghi che vorrebbe trasformare le banche popolari italiane in società per azioni. Eppure in molti, nei corridoi romani, giurano che con l’arrivo dell’autunno il governatore di Bankitalia muoverà l’artiglieria pesante affinché i cassetti vengano riaperti e la sua volontà trasformata in legge. Ma per capire quale impatto la riforma sponsorizzata da Draghi possa avere sul mondo non solo del credito ma della stessa economia italiana, in particolare della piccola e media impresa e dei distretti, bisogna fare un passo indietro e capire quale sia la realtà delle banche popolari nel nostro paese.

Le banche popolari nascono nella seconda metà del XIX secolo – con la fondazione della prima Banca Popolare a Lodi nel 1864 – sul modello della Volksbank tedesca, introdotto in Italia da Luigi Luzzatti. Grazie al caratteristico assetto cooperativo e alla particolare attenzione rivolta alla piccola imprenditoria e alle famiglie, esse conoscono un successo immediato, conquistando nell’arco di pochi anni un quarto del mercato creditizio italiano. Nell’intervallo tra le due guerre, la crisi del sistema bancario e una politica economica orientata alle grandi imprese inducono una profonda ristrutturazione del settore che, pur senza indebolirne la presenza sul territorio, riduce le banche popolari da oltre 750 a 300. Nel secondo dopoguerra, in una fase di grandi cambiamenti per l’economia italiana e per il suo sistema finanziario, le popolari diventano protagoniste di un processo continuo di crescita, espandendo gradualmente la loro quota di mercato fino a raggiungere, nei primi anni ’90, il 15 per cento del sistema bancario. I mutamenti del quadro normativo e del contesto operativo introdotti dalla legge bancaria del 1993 hanno contribuito ad accelerare ulteriormente lo sviluppo del cosiddetto credito popolare. Attraverso un elevato numero di operazioni di acquisizione e fusione tra banche popolari di maggiori dimensioni, altre popolari e banche locali, la categoria vanta oggi una quota di mercato superiore al 20 per cento dell’intermediato e al 24 per cento degli sportelli. Un successo che si basa su poche ma chiare parole d’ordine: governance cooperativa, particolare attenzione ai soci e al territorio, impegno sociale. In questi elementi si esprime l’identità cooperativa e la mutualità non prevalente, che in quanto tale non comporta né ha mai comportato agevolazioni fiscali, da sempre connaturata alle banche popolari.

Ma i mutamenti avvenuti nell’ultimo decennio all’interno del sistema bancario hanno influito profondamente anche sul contesto evolutivo delle popolari. Le realtà più grandi della categoria hanno acquisito il controllo di altre popolari e di banche locali esterne, dando luogo a gruppi bancari di rilievo nazionale. Questo processo di crescita e innovazione non ha però in alcun modo intaccato le caratteristiche tipiche del modello tradizionale di banca popolare cooperativa: relazioni solide e durature con la clientela; forte propensione al sostegno delle pmi; grande attenzione ai bisogni di servizi finanziari delle famiglie; profondo impegno sociale per le comunità locali. Il problema nasce però proprio a questo livello: nonostante non tradiscano la loro vocazione, le popolari troppo grandi cominciano a fare paura alle altre banche che invocano una supposta mutualità rispetto al mercato per difendere se stesse e il proprio orticello da quella che è reale concorrenza e non doping bancario. I numeri, d’altronde, parlano da soli. Le banche popolari contano oggi oltre un milione di soci e più di otto milioni di clienti. Le loro filiali rappresentano il 24 per cento degli sportelli bancari in Italia, con una distribuzione capillare sul territorio ed una concentrazione maggiore nelle aree in cui si registra un’alta presenza di piccole e medie imprese.

Una testa, un voto

Si giunge così al nodo del problema, che ha un nome inglese ma è tutto italiano: la governance. L’articolo 30 della legge bancaria italiana stabilisce infatti per le banche popolari il “voto capitario” che fissa il limite dello 0,5 per cento al possesso azionario e prevede il gradimento del Consiglio di amministrazione per l’ammissione dei nuovi soci, riservando agli azionisti non iscritti a libro soci solo diritti di natura economica. Una clausola, quelle del voto capitario, destinata a evitare “scalate” che potrebbero snaturare le caratteristiche delle popolari: una clausola che Mario Draghi vuole eliminare con il plauso non solo dei grandi istituti italiani ma anche e soprattutto con i sorrisi interessati dei gruppi stranieri. I quali, se mai entrassero in questo mercato, ne devasterebbero lo spirito e la missione: quale interesse può avere infatti un francese o uno spagnolo a garantire un rapporto privilegiato col piccolo impreditore trevigiano?
«Vuole sapere perché le popolari sono sotto assedio? Perché sono banche bellissime. Ottimi bocconcini che sarebbe tanto facile comperare se venisse modificata una legge. Dall’estero guardano i nostri dati, gli asset, la redditività e un pensiero lo fanno. Eh no, significherebbe tradire migliaia di persone che ogni giorno ci giudicano come azionisti e come clienti». Giovanni De Censi, presidente del Credito Valtellinese nonché vicepresidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi) e della Confederazione internazionale delle banche popolari, respinge in questo tutte le accuse che sono piovute sugli istituti cooperativi, definiti dai sostenitori della riforma gli ultimi “intoccabili”, tenutari di una non mutualità verso il mercato inaccettabile. Non a caso l’Antitrust ha aperto un’indagine conoscitiva al riguardo. «Abbiamo le stesse regole delle altre banche e i problemi legati alla governance sollevati dal Garante sono fuori luogo. Non sono d’accordo nemmeno con il Governatore quando fa un distinguo dimensionale. Anche nelle popolari che si sono sviluppate di più, magari attraverso fusioni, lo spirito resta lo stesso di quelle più piccole».

La questione, però, riguarda alcuni cda dove ci possono essere minoranze – magari guidate dai sindacati – che possono far naufragare operazioni come è capitato per la fusione, poi fallita, tra Banca popolare di Milano e Banca popolare dell’Emilia Romagna. «I cda sono composti da persone che singolarmente si assumono la responsabilità di amministrare le società. Se poi non rispondono alla loro coscienza ma sono eterodiretti, vuole dire che si replica quanto può succedere anche nelle Spa. Ma quando si parla di governance bisogna ricordare cosa sono le banche popolari. Ovvero, le banche dell’ultimo chilometro, quelle che seguono le pmi nello sviluppo dell’economia locale».

Alcuni critici puntano il dito sul fatto che alcune di queste banche siano quotate e quindi allargano il loro campo d’azione. «Non si capisce però perché i paladini della mutualità vogliano negare agli azionisti di queste banche il diritto di avere un mercato regolamentato su cui poter vendere le proprie azioni a prezzi stabiliti dal mercato. Vengono quotati i derivati sulla soia, a Chicago si scambiano le noccioline. Ogni strumento finanziario, anche se è di una banca popolare cooperativa, può essere quotato. Se si togliessero il voto capitario e il limite al possesso azionario si snaturerebbe il tutto. Se si desse la possibilità di dare il 3-4 per cento in Borsa a un singolo socio, cinque soggetti stranieri si comprerebbero la possibilità di gestire l’azienda. Esattamente ciò che sembra volere Mario Draghi, uomo Goldman Sachs e fautore di un’Italia della grande impresa e non delle pmi. Il nodo della scalabilità, poi, perde di sostanza quando ci si addentra nella realtà dei fatti. Le banche popolari, infatti, sono tutte contendibili, perché anche secondo la norma del voto di lista si può andare in assemblea e, con un certo numero di soci, si può cambiare il cda. Ovviamente non sono scalabili ma solo i soci possono decidere di renderle tali, trasformandole in Spa. Non può essere consentito di far mutare loro l’identità dall’esterno». E invece qualcuno vuole farlo. Le grandi banche, la stessa Bankitalia ma anche l’onnipresente Unione Europea, che denuncia da tempo l’incompatibilità della disciplina delle banche popolari con il diritto comunitario, un attacco nato con il caso Asnapop.

Il caso Asnapop
A questo punto occorre un altro passo indietro. Nel 2002 il compianto avvocato milanese Corso Bovio (tragicamente scomparso poco tempo fa), insieme a imprenditori e professionisti, fondò l’Asnapop, associazione nazionale degli azionisti delle banche popolari italiane. Lo scopo principale di questa associazione apolitica senza fini di lucro era quello di modificare le norme che regolano l’attuale assetto delle banche popolari e trasformarle in società per azioni a statuto speciale. L’associazione aveva ed ha tuttora per obiettivo principale lo studio e la sensibilizzazione degli investitori, sul tema “efficienza gestionale e governance delle banche popolari”.

Bene, al fine di portare a termine il proprio progetto, Asnapop incaricò la società di revisione Kpmg di esprimere un parere sulla compatibilità con il diritto comunitario, in particolare con le norme sulla libera circolazione dei capitali, delle disposizioni che regolano attualmente nell’ordinamento italiano le banche popolari in special modo quelle quotate. Il risultato della relazione sfociò in una petizione indirizzata al Parlamento Europeo e in una denuncia presentata alla Commissione Ue sulla non compatibilità della disciplina delle popolari con il diritto comunitario: la petizione si basava su un documento elaborato dal professor Ruggiero Cafari Panico, partner Kpmg. In quelle pagine si diceva che «la disciplina speciale italiana delle banche popolari, come già ricordato, si caratterizza per la presenza di alcuni istituti tipici quali il voto capitario, l’istituto del gradimento ed il limite del possesso azionario. La vigenza della suddetta legislazione speciale nell’ambito dei mercati regolamentati determina un effetto dissuasivo nei riguardi degli investitori sia italiani che stranieri».

Insomma, un argomento in più contro le popolari e un possibile alleato in più per Mario Draghi. Non proprio, perché vista l’inconsistenza delle accuse avanzate lo scorso dicembre la Commissione europea ha annunciato l’archiviazione dell’indagine che aveva aperto sul caso. A ufficializzarlo ci ha pensato il portavoce di Charlie Mc Creevy (commissario al Mercato dell’Ue) specificando che «in effetti una procedura formale di infrazione non era mai stata aperta, oggi l’Esecutivo europeo ha deciso di non aprire alcuna procedura formale perché le norme sulle banche popolari italiane sono compatibili con le leggi comunitarie».

Ma l’Europa fa marcia indietro

Secondo quanto dichiarato dalla Commissione «non vi è stata mai neanche una lettera di messa in mora», dunque da questo punto di vista è in regola, anche per le complesse burocrazie di eurolandia. Perché tanto accanimento allora? Perché tanta fretta di mettere mano all’assetto di banche sane, che aiutano la crescita dell’impreditoria e quindi del paese, che restano nei fatti “la banca della famiglia”? Il governatore Draghi ha giustamente attaccato, ad esempio, il fatto che «i tassi di interesse applicati dalle banche per mutui e credito al consumo sono troppo alti rispetto a quelli dell’area euro su operazioni simili» ma basta un monito di fronte all’assemblea dell’Abi? In questo settore davvero l’Italia è fuori dai giochi e dalle regole Ue, con utenti massacrati e un mercato reso ancora più ingessato e a rischio di “cartello” dalle recenti fusioni e aggregazioni che hanno creato soggetti con capitalizzazione enorme e in grado di drogare il mercato dei servizi. Insomma, da qualsiasi lato lo si guardi questo assedio alle popolari ha il sapore della svendita e della volontà di colonizzazione. Se è vero, come è vero, che i privilegi vanno aboliti e il mercato deve fare le regole, è altrettanto vero che le popolari rispondono alle necessità di un tessuto economico, senza per questo alterare il mercato nè creare nicchie privilegiate. O no, governatore?

di Bottarelli Mauro
Tempi num.34 del 23/08/2007