Storia di un vescovo romeno per 16 anni nelle prigioni comuniste

CITTA’ DEL VATICANO, martedì 23 marzo 2004 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il doloroso racconto del Monsignor Tertulian Ioan Langa, dell’Eparchia di Cluj-Gherla (Romania), sui suoi lunghi anni di prigionia, fatto a margine della Conferenza Stampa di presentazione del volume: “Fede e martirio. Le Chiese orientali cattoliche nell’Europa del Novecento”. Alla presentazione del volume, frutto degli Atti del Convegno di storia ecclesiastica contemporanea tenutosi nella Città del Vaticano, nei giorni 22-24 ottobre 1998, hanno partecipato anche il Cardinale Ignace Moussa I Daoud, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali; il Prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio; e il Monsignor Pavlo Vasylyk, Vescovo dell’Eparchia di Kolomyia-Chernivtsi (Ucraina).

Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste …

Avendo come formatore spirituale, già dalla prima adolescenza, colui che sarebbe stato il Vescovo martire Ioan Suciu, e poi come guide intellettuali altri tre martiri – Monsignor Vladimir Ghika, il Vescovo Vasilie Aftenie e il Vescovo Tit-Liviu Chinezu, tutti vittime del comunismo ateo – era normale che tutta la mia vita portasse l’impronta della loro spiritualità.

Attraverso loro ho scoperto cosa sia il comunismo, cosa significhi eliminare Cristo dalla vita sociale e quanto mutilata possa diventare l’anima umana, l’intera società e la famiglia senza Chiesa, senza la Santissima Eucaristia e senza il culto della Santissima Vergine. In più, come uomo con il senso della realtà storica e sociale, non ho potuto ignorare la massiccia e minacciosa presenza sovietica atea alle frontiere della Romania e della nostra spiritualità. A questi fattori devo tutto l’orientamento spirituale e storico della mia vita. A me spetta soltanto la recettività.

La presenza violenta ed atroce del comunismo ateo non ha costituito per gli occidentali una realtà immediata e concreta, ma meramente libresca. Ciò spiega la differenza flagrante di percezione e di reazione di fronte al comunismo che manifestano i cristiani e gli intellettuali di Occidente, paragonata a coloro, nell’Est europeo, che hanno vissuto e subìto il mondo comunista.

A 24 anni, nel 1946, ero un neo assistente alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Bucarest. La presenza brutale e umiliante delle truppe sovietiche, che avevano occupato quasi un terzo del territorio nazionale, l’ho subìta, a livello personale, col fatto che mi era stato intimato, come membro del Corpo didattico universitario, di iscrivermi di urgenza nel Sindacato manipolato dal Partito comunista e imposto al potere dai blindati sovietici.

Già d’allora ero pienamente edificato sul fermo atteggiamento magisteriale che la Chiesa Cattolica aveva adottato contro il comunismo dichiarato avente un male intrinseco. Con questa informazione di principio radicale non trovavano posto nella mia coscienza pretesti per un compromesso. Ho rinunciato alla carriera universitaria, presentando spontaneamente le dimissioni e ritirandomi in campagna come operaio agricolo; ma non fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla Facoltà, come militante cattolico e anticomunista.

Velocemente fu improvvisato a mio carico anche un dossier penale; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il Codice Penale non incriminava fino a quell’epoca (rapporti stretti con il nostro Episcopato, con la Nunziatura, e anche l’apostolato laico), il mio Dossier fu affiancato a quello della grande industria.

Dopo atroci trattamenti durante gli interrogatori, il Procuratore, in istanza, dichiarò che “Al dossier dell’accusato non si trova nessuna prova sulla sua colpevolezza; ma chiediamo il massimo della pena: 15 anni di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui” – in una perfetta logica atea. Replicai: “Non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!” “Non è possibile ? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori forzati per aver protestato contro la Giustizia del popolo. Questa è la sentenza definitiva ed irrevocabile”. Quindi è stato possibile …

Considero che sia un esempio edificante, per chiunque, su che cosa significhi una giustizia comunista, come quella che noi abbiamo sopportato e subìto e ancora subiamo, ora che stiamo per rientrare in Europa. Ciò avveniva quando la Chiesa Greco-Cattolica di Romania ancora non era stata messa fuori legge, quando si dava per scontato che il mio arresto e le torture inflittemi sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della futura incriminazione dei Vescovi nostri, della Chiesa Greco-Cattolica, e della Nunziatura.

Riferisco soltanto alcuni momenti più significativi, tra le centinaia che ho vissuto, durante gli interrogatori e la detenzione nelle prigioni e nei campi di sterminio comunisti. Sono stato arrestato a Blaj, nell’ufficio del Vescovo Ioan Suciu, allora Amministratore Apostolico della Metropolia Greco-Cattolica di Romania.

Mi ero presentato al Capo della nostra Chiesa per chiedere un consiglio alla Santa Provvidenza, giacché il mio padre spirituale, mons. Vladimir Ghika, era all’epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di partire per l’estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo senza confrontarlo con la Provvidenza. E la risposta arrivò: il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita, a tempo indeterminato, nelle prigioni create dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza …

Descriverò un particolare momento. Era il Giovedì Santo dell’anno 1948. Fino allora, per due settimane, ogni giorno ero percosso con un ferro, sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi: dei veri fulmini sembrava che mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza però che mi fosse rivolta alcuna domanda: mi preparavano col ferro, per arrivare più morbido all’interrogatorio.

Legato dalle mani e dai piedi e appeso con la testa verso il suolo, i miei carcerieri mi avevano infilato in bocca un calzino, usato a lungo negli scarponi e in bocca da altri beneficiari dell’umanismo socialista. Il calzino era diventato il nuovo metodo antifonico attraverso il quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell’interrogatorio. D’altra parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più, mi ero autobloccato psichicamente: non ero più capace di gridare o di muovermi.

I miei torturatori hanno interpretato questo atteggiamento come fanatismo da parte mia. Continuarono più accaniti, alternandosi nel torturarmi. Notte dopo notte e giorno dopo giorno. Non chiedevano nulla, poiché non era la risposta ciò che li interessava, ma l’annichilamento della personalità, fatto che tardava ad avverarsi. E allungando sempre lo sforzo di annichilire la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente la tortura. Gli scarponi sfracellati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo.

Nella notte, nei paraggi, in una chiesa sperduta, si celebrava un ufficio liturgico, come pianto dai suoni spenti di campane spaventate. Trasalii. Gesù avrà sentito tutto per intero il mio grido muto, quando, in qualche modo, ho urlato. E come se ho urlato! Come dall’inferno: GESÙ! GESÙ! … Evaso attraverso il calzino, il mio grido non è stato compreso.

Ma, trattandosi del primo suono che sentivano, gli aguzzini si dichiararono contenti, considerando che mi avevano piegato. Poi, mi trascinarono con la coperta, fino alla cella dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava l’inquirente, con in mano una risma di carta: “Ti sei ostinato, bandito, ma non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto: tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati e i parenti, i compagni e i conoscenti, i Vescovi, i Sacerdoti, i religiosi e le religiosi e su politici, i Professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non avrai finito la carta.

Ma non scrissi nulla; non per chissà quale fanatismo, ma perché non ne avevo la forza.
Dopo circa quattro giorni, lo stesso individuo: “Hai finito di scrivere?” Vedendo che i fogli non erano stati toccati, disse: “Se così stanno le cose, spogliati! Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso!” Certo, perché di nuovo non avevo scritto nulla. Non soltanto il corpo, ma sembra che anche la mente era svuotata.

Passarono così altri giorni, vissuti a pelle nuda, sul pavimento di mosaico: conforto specifico del socialismo umano. Un altro individuo mi si presentò, dopo un po’ di tempo, davanti alla porta. “Vediamo, cosa c’è allora sulla carta? … Nulla, non hai nulla ? Sempre ostinato! Abbiamo anche altri metodi.” Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da un cane-lupo immenso, con le zanne minacciose, in vista.

“La vedi? E’ Diana, la cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne [1]. Lei ti insegnerà cosa devi fare. Comincia a correre!”. “Come a correre in una stanza di soli 3 metri?”. Nella stanza c’era poi una lampadina di 300 watt: enorme per una stanza larga solo 2 metri e lunga solo 3; lampadina fissata non in alto, ma sul muro, a livello del viso. “Comincia a correre!” La lupa, ringhiando in modo truce, stava pronta ad attaccare.

Corsi per circa sei – sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l’alba, vedendo la luce facendosi strada nella cella e sentendo movimenti nell’edificio. Ogni tanto faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso … Quando cominciai a perdere l’equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante, come al comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel braccio …

Ho corso, sotto i suoi occhi e le sue zanne, per ben 39 ore, senza interruzione! Ma alla fine, crollai. Non ho adesso il tempo a disposizione per descrivervi la psicologia di una corsa sotto la minaccia di una lupa. Quando mi fermai, si lanciò su di me.

Mi azzannò il collo, senza strozzarmi però la gola. Come stavo così, sdraiato, vedevo solo una forma indefinita scura. Non riuscivo a distinguere bene. Soltanto quando, sulla fronte e sulle palpebre, sentii scorrere qualcosa caldo e bruciante, capii che la bestia, schifata, mi orinò sul viso. Dalle parole dei miei carnefici, ho capito che avevo corso per 39 ore. “Questo lo possiamo mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!” Vedendo che nemmeno la Maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione sui Vescovi, sulla Nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile passare ad un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia.

Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono, mani e piedi, su una sedia, davanti a un tavolo con un sacchetto sopra. Non riuscivo a decifrare il decoro. Dietro si è impalato un aguzzino: muto, come un intero paese imbavagliato. Ad una scrivania nell’angolo, un individuo calvo con un pizzetto di caprone, che si voleva rassomigliante a Lenin.

Muto anche lui, fece un segno muovendo solo la testa. Il mio boia capì il comando. Prese in mano il sacchetto e me lo scaraventò in testa, non molto violento, ma ritmico, accompagnando ogni colpo dalla parola: PARLA! e di nuovo: PARLA! decine di volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: PARLA! Solo che nessuno mi chiedeva qualcosa. Soltanto una voce di caverna, monotona, mi ficcava nel cervello l’idea imperativa e irreprensibile di dire, di rispondere ad ogni domanda sottoposta alla mia coscienza dall’organo inquisitore.

Non mi fu difficile di decifrare la satanica idea di voler eliminare e subordinare la mia volontà. Dopo circa 20 colpi, cominciai ad applicare, anche lì, il principio morale: Agere contra, dicendomi in coscienza: NON PARLO ! ad ogni colpo: NON PARLO ! decine di volte, centinaia di volte. Con l’auto-suggestione mi ero impiantato lo stereotipo NON PARLO ! – l’unica maniera per non essere manovrabile, col rischio di diventare schiavo di quest’unico modo di esprimermi.

Il fatto si confermò d’altronde quando, d’allora in poi, automaticamente, irreprensibilmente, ad ogni domanda rivoltami, non importa su quale argomento, io rispondevo con NON PARLO ! Mi rendevo conto del blocco intellettuale e addirittura intravedevo un farsi permanente di questo stato. Tentai, per un anno intero, di combatterlo, e con molta difficoltà riuscii a liberarmi di questo sinistro riflesso automatico.

Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori, fui trasferito nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, profonda, a 8 metri sotto terra, che era stata costruita un tempo come fortezza di difesa della Capitale, ma allora completamente inutilizzabile, a causa delle forti infiltrazioni di acqua che penetravano il beton. Nulla e nessuno vi resisteva.

Solo l’uomo, il più alto tesoro del materialismo storico! Nelle stanze di Jilava, i poveri uomini facevano l’esperienza delle sardine: però non nell’olio, ma nel succo proprio, di sudori, orine e acque di infiltrazione, che scorrevano senza sosta sulle mura. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico: lungo due metri e largo ventotto centimetri, per una persona stesa per terra, sul fianco. Alcuni, più anziani, stavano stesi su delle tavole di legno, senza lenzuola o coperta. Il contatto col legno avveniva mediante l’osso omerale, la protuberanza più rilevante dell’articolazione cogito-femorale, e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle ossa, per occupare uno spazio minimo.

La mano non poteva appoggiarsi che sull’anca o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezzora; poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo l’altro, ci voltavamo sull’altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti, aveva due livelli, improvvisandosi in un letto a castello. Al di sotto di questi due, c’era un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento.

Sul cemento i vapori di condensa dal respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione e all’orina che non entrava più nelle latrine improvvisate, costituivano una miscela viscosa in cui serpeggiavano i malcapitati di quest’ultimo livello. Al centro della stanza-tomba di Jilava troneggiava un recipiente metallico, di circa 70-80 (settanta-ottanta) litri, per l’orina e le feci di 70 uomini. Non aveva coperchio, perciò l’odore e il liquido traboccavano abbondantemente. Per raggiungerlo, si supponeva che eri già passato per il “filtro”, vale a dire per un controllo severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva verificato l’intero organismo ed ogni orificio.

Con una o bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive, nel caso in cui i banditi avessero nascosto qualcosa. La stessa bacchetta ci perforava le narici, le orecchie, l’ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno dell’egualitarismo che assicurava la stessa norma per tutti.

Le finestre di Jilava non erano per offrire la luce, ma per ostacolarla, poiché tutte erano attentamente inchiodate con tavole di legno. La carenza d’aria era così grande che per respirare, tre per volta, ci susseguivamo, a turni, pancia in giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui contavamo rigorosamente 60 respiri, affinché anche altri compagni potessero riprendersi dallo svenimento e dall’ipossiemia [2] .Contribuivamo, a nostro modo, all’edificazione del più umano sistema del mondo …

Sapevano queste cose Churchill e Roosevelt, quando, con un colpo di penna, sul tavolo della vergogna di Teheran, stabilivano che noi Rumeni fossimo dei destini macinati dalle fauci del moloc [3] Orientale rosso, che facessimo da cordone di sicurezza per la loro comodità ? E la Santa Sede poteva forse immaginare qualcosa?

Da Jilava, saltando dei lunghi anni di profanazioni umane, siamo stati trasferiti, catene a piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka [4], padiglione di terrore della prigione di Aiud. L’accoglienza ricevuta si è svolta secondo lo stesso rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell’uomo creato dall’amore di Dio.

La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti al regime di conservazione in orine, sudori, condensa e ipossiemia, ma siamo stati sottomessi ad una intensa cura di ossigenazione. A pelle nuda, bandito dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati, poeti) e il sottoscritto, che non rappresentavo nulla, tranne che un NON PARLO ! gigante, una ferma e umile fiducia nella grazia che mi avrebbe fatto superare la prova.

Tutti dovevamo scomparire come nemici del popolo. Altrimenti, non poteva più farsi avanti il tanto proclamato Uomo nuovo sovietico, uomo che ancora si perpetua sulla nostra sofferenza. La cella in cui ero stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo o cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio, ed io, come tutti gli altri, da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle e coperto dal freddo.

Era verso la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente sbattuta mi furono buttati un pantalone usato, una camicia di maniche corte, mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi del tutto consumati, senza lacci, senza calzini. Nulla da mettere in testa.

E’arrivata in cambio una specie di latrina, un oggetto misero di circa quattro litri. Mi sono vestito come un razzo; congelato, il quarto giorno ci hanno contati. Al posto del nome, mi hanno dato un numero: K-1700 – l’anno in cui la Chiesa della Transilvania si ri-univa con Roma. Anagraficamente, ero già ucciso. Sopravvivevo solo statisticamente. Arrivò poi il “brodo”, servito col mestolo da 125 (centoventicinque) grammi: uno lungo fluido risultato dalla bollitura della farina di mais.

Come pranzo ci fu distribuita una minestra di fagioli, nella quale ho potuto contare all’incirca otto, nove chicchi, con parecchie bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono un tè di crosta di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato di crusche, nel quale ho scoperto quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto riceve una gallina. Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla fame, precipitavamo nel sonno; un sonno di qualche secondo, giacché il freddo era tagliente.

Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall’altra parte del muro: “Qui Professor Tomescu (ex Ministro della Sanità). Chi sei ?” Sentendo il mio nome, disse: “Ho sentito parlare di te. Ascoltami attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo mai con loro. Ma chi non si muove, muore e diventa quindi collaboratore. Trasmettilo agli altri: chi non si muove, muore! Passeggiare senza sosta! Chi si ferma, muore!” Il padiglione, immerso nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci. Eravamo animati dall’enigmatica volontà del popolo di rimanere nella storia e della vocazione della Chiesa di rimanere viva.

Ci fermavamo dal camminare solamente intorno alle 12,30, per una mezzora quando il sole si fermava avaro per noi nell’angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso, rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, come privo di ragione, avanzando sillabando: NON VOGLIO MORIRE ! NON VOGLIO MORIRE ! e non sono morto ! Con ogni passo cadenzavo nella mente una preghiera, componevo litanie, rimembravo Salmi.

Continuammo a passeggiare, così, inciampando verso la morte, 17 (diciassette) settimane. Chi non ebbe la forza o la determinazione di muoversi, si fermava nella morte. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo.

Ero convinto, credevo fortemente che sarei arrivato fino ai margini della notte. Ma avevo ancora lunga strada da percorrere. Arrivato poi in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, costatai che non era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra la Chiesa Greco-Cattolica e la Gerarchia della Chiesa Sorella non si lasciava sciogliere ancora; le nostre chiese continuavano ad essere confiscate, e il gregge diminuiva sempre, ucciso dalle promesse. Ma anche il Signore Cristo ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l’ultimo respiro: Consummatum est ! … (Tutto è compiuto! )
Umilmente chiedo perdono a tutti coloro che “non ci sono più”, per aver accettato che le centinaia di anni di prigione dei martiri dell’Unione li comprimessi in appena qualche pagina.

Non ho scritto molto di queste drammatiche esperienze. Chi può credere a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi della biologia possono essere superate dalla volontà ? E se dovessi raccontare i miracoli che ho vissuto ? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente questo che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato creduto da tutti coloro che l’hanno visto … Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui (Gv 6,66).

Nulla è per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido della Grazia – impazienza benevola di Dio – e della nostra chance di rispondergli o temerarietà di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi di non ridurre tutto a un semplice racconto duro, feroce, incredibile. E’ invece un momento per capire che la grazia accolta non frena l’uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze e “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (cfr. Mt 16,18); e che con questo incontro il Signore aspetta da ciascuno un agire personale e professionale. Questa testimonianza, cosa serve a me che racconto, come aiuta voi qui presenti, aprirà essa o chiuderà la porta di chi, tramite voi, la conoscerà ? Spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è di più il cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi.
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1 Le Montagne Făgăras famose come luogo di resistenza dei partigiani anticomunisti.
2 Carenza di ossigeno nei tessuti.
3 Dio semitico cui si sacrificavano vittime umane; (fig.) essere o entità di mostruosa e malefica potenza.
4 Significherebbe un carcere chiuso, gattabuia, di dimensioni ridotte, al buio.


Agenzia di notizie www.zenit.org – 23 marzo 2004