SE A SINISTRA C’E’ UN NEMICO

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Il tabù infranto e la via stretta di Fassino. SE A SINISTRA C’E’ UN NEMICO,
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA. Da domenica sera è virtualmente Piero Fassino il capo dello schieramento riformista: non Rutelli o Veltroni, e neppure quel D’Alema che su di lui ha esercitato a lungo una sorta di alto patronato.

Fassino lo è diventato perché ha mostrato di possedere ciò che in politica quasi sempre paga: il coraggio di mettersi in gioco personalmente. Nella corsa furbastra di tanti a defilarsi, a darsi malati, a guardare dall’altra parte, Fassino è stato il solo a raccogliere pubblicamente la sfida del pacifismo duro e puro (e violento). È stato anche l’unico, tra i dirigenti del Triciclo, capace, a scontro avvenuto, di puntare il dito contro i burattinai del massimalismo pseudopacifista (presenti nel suo stesso partito) e di trattarli nei termini che essi meritano. L’unico capace di violare quel tabù del «niente nemici a sinistra» che così spesso ha rappresentato la corda alla quale il riformismo italiano ha finito per restare impiccato. Ma proprio la rottura di domenica pone Fassino in una situazione assai delicata. A questo punto, infatti, egli deve andare per forza avanti, è inimmaginabile che i giudizi sul conto di Diliberto, Di Pietro, Pecoraro Scanio e dei loro rispettivi gruppi restino senza conseguenze, che tra una settimana il contenzioso aperto in maniera così aspra sparisca miracolosamente per far posto a un’idilliaca collaborazione. Se ciò accadesse il segretario dei Ds perderebbe di un colpo il prestigio che si è guadagnato e scriverebbe il suo nome in quella lunga lista di riformisti velleitari che annovera tanti personaggi della vecchia destra comunista. Ma pericoli ci sono anche sulla strada intrapresa: in che modo dare corso alla chiarificazione a sinistra senza compromettere la già traballante coalizione anti-berlusconiana? Come proseguire la polemica senza far emergere ancor più di quanto sia già emersa la profonda diversità tra le due anime della sinistra, una diversità che in politica estera rasenta l’incompatibilità? E soprattutto: come fare – al di là dell’episodio di intolleranza sul quale è troppo facile trovare una generale condanna di maniera – come fare a contrastare davvero nel merito le posizioni del radicalismo pacifista e antiamericano quando si sa, come Fassino sa bene, che quelle posizioni sono condivise anche da tanta parte del popolo dei Ds? Certo: quel popolo è troppo legato alla propria appartenenza identitaria per non insorgere in difesa del segretario del partito, ma la sua cultura e – quel che più conta – la sua anima e le sue passioni sono in gran parte lontane, molto lontane da quelle di Fassino. Il Correntone dà voce a qualcosa che nei Ds esiste e conta: a sentimenti, pregiudizi, tic ideologici che decenni di esistenza del vecchio Pci hanno lasciato in eredità come un deposito di difficile smaltimento. Un deposito che da tempo va rinnovandosi con gli abbondanti materiali offerti dall’antioccidentalismo no-global, dall’antiamericanismo del neopacifismo radicale, dall’intransigentismo cattolico a sfondo eticistico. È di fronte a questo variegato avversario che il riformismo postcomunista tocca oggi con mano quale errore sia stato lasciar passare anni evitando sempre una vera analisi critica sulla vicenda del Pci, sui suoi limiti gravissimi e sull’enorme ritardo che esso ha fatto pagare alla sinistra italiana. Quale errore sia stato rifugiarsi così a lungo, alternativamente, nella consolante menzogna del «non siamo mai stati comunisti», ovvero nell’altrettanto consolante escamotage del «ma il comunismo in Italia era un’altra cosa». Adesso che i nodi vengono al pettine, che ci sarebbe bisogno di chiarezza e che alle elezioni mancano tre mesi, adesso rischia davvero di essere troppo tardi.

© Corriere della Sera, 24 marzo 2004