L’RU486 ovvero: l’infanticidio non sarà che un aborto a nove mesi
di Giuliano Ferrara – (C) IL FOGLIO – 12 settembre 2005
L‘appello referendario a trattare l’embrione di un essere umano come un’appendice dei nostri desideri ha raccolto il consenso di un elettore su quattro a metà giugno. La cosa potrebbe non avere un grande valore, perché su simili questioni in linea di principio non ci si dovrebbe contare: l’etica pubblica non è un’appendice della politica e della statistica elettorale, è piuttosto cultura e pensiero per i non credenti, religione e fede per i credenti. Ed è angoscia esistenziale per tutti, o dovrebbe esserlo. La decisione su vita e morte di un essere umano concepito richiederebbe altre procedure che non il consenso della maggioranza. (Per esempio un potere affidato ai “saggi”, indipendente in modo rigoroso dalle pulsioni della politica di massa. Fino a ieri si tutelava con le Authority indipendenti e sovrane come Bankitalia perfino la moneta o la stabilità delle banche, valore superiore ad ogni altro nel mondo contemporaneo; e sulle tasse non è ammesso referendum per chiari motivi di conflitto di interessi in seno al popolo elettore. Esistono dunque le procedure che sottraggono alla volatilità dell’opinione le cose ferme, le questioni importanti: ma quella della vita è evidentemente e stranamente meno importante della vita del denaro).
Ma lasciamo da parte il tema del consenso, e consideriamo la sostanza della cosa. I difensori della Ru486, che consente l’evacuazione dalla vita alla morte di un embrione umano senza intervento chirurgico, dunque senza anestesia e altre sgradevoli invasività, per così dire “serenamente”, riformulano lo stesso superargomento a testata multipla impiegato nel referendum sull’embrione, e battuto dal voto. Dicono: è in gioco la salute delle donne. Dicono: bisogna rendere più facile l’aborto nell’interesse delle donne e del loro corpo. Dicono: decide chi accoglie o non accoglie dopo avere concepito, e chi ha da venire è in caso negativo un frutto già appassito di un atto d’amore andato a male, il suo diritto è nullo di fronte al dovere di assecondare il nostro desiderio. Dicono perfino, rimescolando di nuovo bizzarramente etica e turismo, questa volta non riproduttivo ma antiriproduttivo: così nessuna donna sarà più costretta ad andare all’estero per procurarsi la Ru486 e rimediare senza sforzo alle conseguenze non volute di un impollinamento indigeno. Cazzo, per fare figli o per eliminarli sempre all’estero ti tocca andare.
In realtà la salute non c’entra con l’allegra sperimentazione del Sant’Anna, perché niente è insalubre come un aborto, chimico o chirurgico. Niente è insalubre come espellere nel sangue non un figlio, si chiama parto, ma la negazione di un figlio, si chiama aborto. Insalubre per il corpo di una donna, per la vita di una società, per la psiche o anima degli individui, per una intera civilizzazione. Salubre è una nascita conseguente un atto d’amore. La vera questione è ideologica, lo sappiamo: ne va della libertà sessuale; ne va della separazione tra sesso e riproduzione, pubblicamente assistita e predicata come virtù sociale piuttosto che empiricamente perseguita nel privato come limite profilattico della virtù personale; ne va del potere femminile sulle pretese del patriarcato. Sul piano religioso, lasciamo da parte il creazionismo e i comandamenti, in fondo siamo devoti ma laici. Basta pensare che nell’ondata di girotondi smo neodarwiniano si afferma, perché non lo si può impunemente negare, che anche il maestro dell’evoluzionismo e della selezione naturale delle specie considerava una curvatura biologica mica male, quasi un disegno intelligente, il nesso tra piacere e riproduzione fissatosi in non so quanti milioni di anni di storia naturale del vivente.