Pera: Benedetto XVI il «nobile guerriero»

Ratzinger riprenderà la bandiera dell’Europa


Intrevista al Presidente del Senato, On. Marcello Pera


Se si chiede a Marcello Pera, presidente del Senato, come mai proprio lui, un pensatore laico, sia stato chiamato l’anno scorso a confrontarsi col cardinale Joseph Ratzinger sui destini di quella Babilonia che è l’Europa d’oggi, la risposta si traduce in una battuta fulminante: «Gli altri sono politici cattolici, io sono un credente nel cristianesimo. Credo persino alle pene dell’inferno».

A gennaio Pera e Ratzinger avevano raccolto le loro riflessioni in un libro scritto a quattro mani, Senza radici (Mondadori), che si chiude con una lettera in cui il secondo dà atto al primo: «Mi trovo completamente d’accordo su tutto». Una straordinaria consonanza d’idee. L’elezione del porporato tedesco al soglio di Pietro non sembra aver interrotto il sodalizio intellettuale della «singolare coppia», com’è stata definita dal politologo don Gianni Baget Bozzo. Da venerdì scorso sulla scrivania del suo studio privato, a Palazzo Giustiniani, Pera tiene le bozze del prossimo saggio di Ratzinger. S’intitola L’Europa nella crisi delle culture. Sarà il primo a uscire col nome di Benedetto XVI in copertina. «Mi sono impegnato a stendere la prefazione» confida il presidente del Senato.
La seconda carica dello Stato italiano aveva imparato a conoscere il prefetto della Congregazione vaticana per la dottrina della fede dai suoi scritti. «Così nel 2003 chiesi di andarlo a trovare al Sant’Uffizio. Dall’incontro fra due timidi nacque una reciproca stima. Il cardinale non s’aspettava che io avessi studiato le sue opere. In quell’occasione lo invitai a tenere una conferenza nella sala del Capitolo in Senato. Accettò. Nel frattempo il rettore monsignor Rino Fisichella mi offrì di svolgere una lectio magistralis alla Lateranense. Scelsi di trattare il relativismo e l’Occidente, un tema che mi riportava ai miei studi filosofici. Il caso ha poi voluto che i due discorsi, il mio all’università pontificia e quello di sua eminenza in Senato, si tenessero a distanza di un giorno l’uno dall’altro». Pera parlò il 12, Ratzinger il 13 maggio 2004, anniversario della prima apparizione di Fatima e dell’attentato a Papa Wojtyla, del quale di lì a 11 mesi avrebbe raccolto l’eredità. Un segno del destino. «O del divino» chiosa il presidente del Senato.


L’idea di scrivere Senza radici come nacque?
Nel corso di successivi incontri. Ci abbiamo lavorato nel mese d’agosto, durante le vacanze. A settembre ci siamo scambiati i dattiloscritti.


Che cosa la colpì di più nel cardinale Ratzinger al vostro primo colloquio?
La gentilezza. La dolcezza. Lo sguardo penetrante. E soprattutto ciò per cui ero andato a trovarlo: il rigore intellettuale e un grande coraggio. Parlava con schiettezza ed era netto nei giudizi, anche sulla Chiesa, anche sul clero.


Lei s’aspettava la sua elezione a pontefice?
Me la auguravo sinceramente. Per la Chiesa, per i suoi milioni di seguaci, per i giovani svegliati alla spiritualità da Giovanni Paolo II, per l’Occidente. E in particolare per la bella narcotizzata: l’Europa.


Che cosa ha mandato in catalessi l’Europa? Il relativismo?
Questo è il narcotico più potente. Si tratta dell’idea che le tradizioni, le culture, le civiltà abbiano tutte lo stesso valore e non possano essere giudicate con un metro comune. Ma se si accetta quest’idea, cioè che l’una vale l’altra e ha gli stessi diritti dell’altra, non vi è più verità in alcuna tesi, perché ciascuna si giustifica da sé. Ne discende che, se una cultura o civiltà combatte l’altra, quest’altra non ha i mezzi neppure per reagire, perché deve riconoscere che anche la prima ha i suoi buoni argomenti. Contro quest’idea relativista, che è penetrata anche nella teologia cristiana, Benedetto XVI s’è strenuamente battuto. Secondo me con ragione.


Ma perché questa tesi la stupisce tanto? Un pensatore aconfessionale come lei, Gian Enrico Rusconi, ha scritto di recente che «la concezione laica riconosce pari dignità etica a ogni visione della vita e assegna alla deliberazione politica la decisione di legge».
Se non è un lapsus calami, è una mostruosità concettuale e una contraddizione logica. Sarebbe come dire che la visione della vita d’un terrorista o d’un fondamentalista ha la stessa dignità etica della visione della vita d’un sincero liberale o democratico. E se il terrorista fa saltare in aria un autobus pieno di gente o una discoteca affollata, che cosa gli diciamo? Gli diciamo che la sua visione della vita è dignitosa ma, usando il linguaggio politicamente corretto del bravo laico relativista, che è un poco scortese? E poi su che cosa si basa quella deliberazione politica che approva una legge contro il terrorismo, se non sulla superiorità etica della cultura della vita e dunque sull’indegnità etica di chi la nega?


Lei e Ratzinger sembrate accomunati dall’insofferenza per le manette linguistiche della political correctness.
Le manette linguistiche sono mortali. Si ricordi che cosa afferma l’attuale Pontefice in Senza radici: «L’Occidente non ama più se stesso. L’Europa sembra svuotata dall’interno, come paralizzata». Per di più la cultura relativistica europea è incoerente, perché mentre predica che tutte le culture hanno la stessa dignità, finisce per attribuire ad alcune più valore di altre, rovesciando spesso le gerarchie tradizionali. Come ha scritto Benedetto XVI, «nella nostra società attuale, grazie a Dio, viene multato chi disonora la fede di Israele e chi vilipende il Corano. Se invece si tratta di Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà d’opinione diventa il bene supremo». Strano, no?, per dei relativisti.


Vuol dire che, secondo lei, l’Occidente è migliore dell’Islam?
Vuol dire che l’Islam non ha ancora prodotto società civili, Stati, istituzioni e cultura dei diritti che siano uguali a quelli occidentali e altrettanto desiderabili per milioni di persone.


Il cardinale Ratzinger aveva pronunciato un chiaro no all’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Lo condivide?
Condivido la sua preoccupazione. Sessantotto milioni di musulmani che s’aggiungono ai 13-14 milioni già presenti in un’Europa priva d’identità costituiscono sicuramente un problema da non trattare con leggerezza.


Lei ha denunciato l’influenza negativa del relativismo postconciliare nella teologia cristiana. Ma i tradizionalisti cattolici attribuiscono quest’influenza proprio a Benedetto XVI, sostenendo che egli arrivò al Concilio in giacca e cravatta come punta di lancia del progressismo tedesco e subito dopo si travestì da conservatore in talare. Le sembra un’analisi fondata?
No. Ma è probabile che a Joseph Ratzinger sia capitato ciò che è successo a molti, anche laici. Cioè che si sia presto accorto che il dialogo, l’apertura ai «nuovi diritti», il compromesso con la modernità, predicati durante e dopo il Vaticano II, portavano alla perdita della fede e alla caduta dell’identità. Ecco perché ha combattuto la «teologia della liberazione» e combatte la teologia relativistica.


Sarà un Papa conservatore? «Il pastore tedesco» l’ha definito Il Manifesto con un irridente titolo in prima pagina.
Queste non sono definizioni, bensì insulti di chi non ha argomenti. Quanto al conservatore, lo sarà certamente sul vero punto che per un cristiano deve essere conservato: la fede e la verità del cristianesimo.


Ma un Papa che proclama la verità del cristianesimo come può dialogare con le altre religioni?
Bisogna intenderci su questo termine equivoco: dialogo. In senso proprio, dialogo si ha quando due interlocutori ammettono ciascuno di poter essere in errore e di poter accettare, alla fine, la tesi dell’altro o una tesi diversa. Il dialogo fra religioni è allora impossibile, perché le religioni, in particolare quelle monoteiste e in particolare quelle rivelate, sono sistemi assoluti, chiusi, che si escludono reciprocamente. Il dialogo è però possibile a livello culturale e politico, dove i valori derivati dalla religione e non solo da essa – penso, nel caso del cristianesimo, alla dignità della persona, all’uguaglianza, alla tolleranza, al rispetto – sono diventati valori secolari.


Vale anche per il dialogo fra laici e cattolici?
Anche qui occorre intenderci. Chi sono i laici? Almeno in Occidente, non sono certo coloro che hanno valori diversi dai cattolici. Conosce dei laici che non onorino il padre e la madre, che giurino il falso, che uccidano, che non rispettino il prossimo, giusto per rifarci al Decalogo di Mosé? Io non ne conosco. I laici non hanno valori diversi dai credenti, solo li giustificano diversamente. Per un laico i valori sono imperativi etici, per un credente sono comandamenti divini. Ma si tratta pur sempre degli stessi, identici valori. E perciò il dialogo fra laici e credenti è possibile.


Anche sulla bioetica?
Anche sulla bioetica. Sopprimere un feto è un male tanto per il laico quanto per il credente. Se il laico in talune circostanze lo fa, è perché egli compie caso per caso una valutazione del male minore. E se il credente non lo fa mai, è perché la vita umana, a qualunque stadio, anche di embrione, per lui è sacra, essendo creata a immagine di Dio. Ma sopprimere una vita è un disvalore per tutti, laici compresi. E perciò tutti possono dialogare se sia o no il caso di farlo.


In realtà questo dialogo sembra difficile, e non solo su un tema lacerante come l’aborto.
È vero, è maledettamente difficile, ma non per ragioni filosofiche o concettuali. È difficile soprattutto per colpa della nostra storia, specie europea continentale e italiana. A causa delle guerre di religione prima, dei conflitti Stato-Chiesa poi, e dei concordati infine, molti laici sono diventati laicisti e molti cattolici sono diventati clericali o temporali o secolari. Ma un accidente della storia può fare ostacolo al dialogo, non può impedirlo. Aggiungo che questo dialogo oggi è ripreso. Dopo l’11 settembre anche i laici-laicisti si sono dovuti chiedere: «Chi siamo noi che veniamo attaccati da loro?». E hanno dovuto rispondersi: «Noi siamo i cristiani», esattamente come sostiene Al Qaida, che infatti nei suoi proclami ci chiama «crociati e giudei». Insomma, noi siamo quelli che ci riconosciamo nella nostra civiltà cristiana o, meglio, giudaico-cristiana. A me sembra che anche la Chiesa – ho in mente per esempio il cardinale Camillo Ruini nel suo libro Nuovi segni dei tempi – abbia colto bene questo punto e ammetta con sollievo che proprio in Occidente, e soprattutto in America, è rinato un sentimento di identità religiosa.


Se è così, perché nel Preambolo del Trattato costituzionale europeo non si citano le nostre radici cristiane?
Perché l’Europa narcotizzata dal relativismo ha persino paura di queste radici. Forse pensa che sarebbe costretta a difenderle. Cosa che non vuol fare, neppure dopo l’11 settembre di New York e l’11 marzo di Madrid.


Chi ha disertato nella battaglia per il riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa? Il cattolico presidente della Commissione europea, Romano Prodi, avrebbe potuto fare di più?
Il professor Prodi e tutti gli altri avrebbero potuto fare di più solo se avessero voluto fare qualcosa. Invece non hanno fatto pressoché nulla o hanno fatto qualcosa contro. E purtroppo, nonostante i richiami angosciati di Giovanni Paolo II, molto poco ha fatto la stessa Chiesa cattolica, come, con un coraggio di cui sono ancora ammirato, ha riconosciuto Ratzinger a Subiaco, quando ha denunciato il «compromesso politico» dell’articolo 52 del Trattato costituzionale.


Spieghiamolo, questo compromesso.
Si tratta di un ennesimo concordato temporale. La Chiesa si è trovata davanti a un bivio: da un lato, permeare la società civile europea combattendone l’egemonia laicista, e perciò pretendere il richiamo delle radici cristiane nel Preambolo; dall’altro lato, accettare quest’egemonia come un dato di fatto, rinchiudersi nella propria istituzione, goderne i benefici, e perciò sottoscrivere un nuovo concordato. Alla fine, la Chiesa ha scelto la seconda strada: l’articolo 52 del Trattato dice esattamente che l’Unione europea rispetta i concordati nazionali. L’appuntamento per una ripresa della discussione si ripresenterà qualora il Trattato non venisse ratificato, come allo stato attuale sembra probabile. Quel giorno, a fianco del Papa, spero che ci siano anche tanti laici.


Gli ultimi sondaggi rivelano che nel referendum di fine maggio il 62% dei francesi dirà no a quella Costituzione europea che ha visto il presidente Jacques Chirac schierato contro il Papa affinché non contenesse riferimenti a Dio e alle radici cristiane. Un bel paradosso, non trova?
Il laicismo di Stato non paga.


Con un simile Preambolo può passare qualsiasi decisione, dal matrimonio fra gay all’eutanasia?
Il premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero ha già applicato alla lettera l’articolo 69 della Costituzione europea che parla di un generico «diritto di sposarsi». Pensi quanto ciò sia in contrasto con la Costituzione italiana che invece definisce la famiglia «società naturale fondata sul matrimonio». Consideri che secondo la Costituzione europea il diritto della Ue prevale su quello nazionale. Capisce che cosa succederà anche da noi?


L’intellettuale cattolico di destra Franco Cardini ha preso di mira il suo liberalismo, dichiarando sarcastico all’Unità: «Nell’orizzonte di Benedetto XVI credo sia uscito Pera e sia entrato lo Spirito Santo». Anche l’«ateo devoto» Giuliano Ferrara sembra voler arruolare Papa Ratzinger sotto le insegne d’un nuovo integralismo.
Il liberalismo classico si fonda sul cristianesimo. Temo che in Italia, anziché riscoprire questa tradizione liberale, sia già in atto il tentativo di fare del Pontefice antirelativista il campione del pensiero forte del postcomunismo.


Ci sono possibilità che Benedetto XVI aiuti la cultura della destra che oggi guarda a lui con simpatia?
Se si riferisce alla politica italiana, la destra non ha ancora un’identità culturale precisa. Alcune sue componenti sono residuali, ex democristiane, ex fasciste; altre sono volontaristiche o in ritardo, come il liberalismo anni ’80 di Forza Italia; altre ancora sono prepolitiche, vedi il leghismo fondato su interessi locali o sulle origini mitologiche del dio Po. Anche la destra europea attraversa la stessa crisi, ma il fenomeno è generale e riguarda tutto lo spettro politico, sinistra inclusa: che cosa vuol dire oggi, al di là delle etichette, essere socialdemocratici, popolari, conservatori, liberali? E tuttavia Benedetto XVI può aiutare soprattutto la destra a trovare una sua identità. Perché egli può ridare identità all’Europa. Gli avversari del Papa in questa battaglia per l’identità europea sono gli stessi avversari della destra: i postmodernisti, i postilluministi, i postrazionalisti, i nichilisti, che militano quasi tutti a sinistra. Non a caso è da sinistra che si sono levate critiche alla sua elezione. Cercare di tirare il Pontefice per la giacca politica sarebbe da stupidi. Ma sarebbe da sordi non ascoltare e meditare sulle sue parole.


Lei se la sentirebbe di ripetere nell’aula di Palazzo Madama ciò che disse Benedetto Croce l’11 marzo 1947 alla Costituente? «Veni Creator Spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus». È la stessa invocazione dei cardinali prima di eleggere il Papa.
Mi sembra un’orazione enfatica e retorica, come tante altre di Croce. Non mi piace neppure la citatissima litote del filosofo: «Perché non possiamo non dirci cristiani». È frutto della ragion pigra. Come se noi fossimo cristiani residuali o per default. Mi piace di più: «Perché dobbiamo dirci cristiani», che è frutto della ragion pratica.


Davanti al Papa, anche i miscredenti più coriacei cadono in ginocchio. Ci sono buone possibilità che Benedetto XVI riesca a convertirla?
La conversione non dipende dal Papa, anche se può servirsi del Papa come di chiunque altro. La conversione scaturisce dalla consapevolezza di una presenza, dallo sbigottimento per Qualcuno che si impone a te come divino. È il Dio manzoniano che «atterra e suscita, che affanna e che consola». Inutile cercarlo, questo Qualcuno, con le dimostrazioni della ragione. O ti si manifesta, oppure, se non sei arido e arrogante, puoi solo renderti disponibile.


Che cosa vorrebbe mandare a dire al suo amico Papa?
Non mi permetterei mai. Posso solo augurargli che la sua missione abbia successo. Lo attende una sfida terribile. Con Giovanni Paolo II la Chiesa ha sollevato un immenso sentimento di spiritualità e d’identità cristiana. Un fiume in piena. Il compito di Benedetto XVI è trasformare questa spiritualità, incanalarla in comportamenti cristiani viventi nei singoli, nelle famiglie, nella società.


«Non abbiate paura!» fu il primo discorso di Giovanni Paolo II. «Mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura!”» è stato il primo discorso di Benedetto XVI. Lei ha paura, presidente?
No, non ho paura.


di Stefano Lorenzetto


Panorama 5 maggio 2005