Non bisogna rassegnarsi ai piccoli omicidi dell’aborto

Ad una diffusa fetta dell’opinione pubblica costituita dai benpensanti può sembrare esagerato e inopportuno – anzi, addirittura fastidioso – che si continui a riproporre come questione decisiva il problema del rispetto della vita appena concepita e non ancora nata. Dopo i laceranti dibattiti concomitanti alla legalizzazione dell’aborto, avvenuta nell’ultimo quindicennio in quasi tutti i Paesi occidentali, non si dovrebbe considerare ormai risolto il problema ed evitare quindi di riaprire superate contrapposizioni ideologiche?

Perché non rassegnarsi ad aver perso questa battaglia e non dedicare invece le nostre energie a iniziative che possano trovare il favore di un più grande consenso sociale? Restando alla superficie delle cose, si potrebbe essere convinti che, in fondo, l’approvazione legale dell’aborto abbia cambiato poco nella nostra vita privata e nella vita delle nostre società. In fondo, tutto sembra continuare esattamente come prima. Ognuno può regolarsi secondo coscienza: chi non vuole abortire non è costretto a farlo, chi lo fa con l’approvazione di una legge – così si dice – forse lo farebbe comunque. Tutto si consuma nel silenzio di una sala operatoria, che almeno garantisce condizioni per una certa sicurezza dell’intervento: il feto che non vedrà mai la luce è come se non fosse mai esistito. Chi se ne accorge? Perché continuare a dare voce pubblica a questo dramma? Non è forse meglio lasciarlo sepolto nel silenzio della coscienza dei singoli protagonisti?
Vi è nel libro della Genesi una pagina di impressionante eloquenza per il nostro problema.


Si tratta della benedizione che il Signore Dio dà a Noè e ai suoi figli dopo il diluvio; nella quale vengono ristabilite per sempre quelle leggi che sole possono garantire, dopo il peccato, la continuazione della vita per il genere umano. Quella creazione, che era uscita assolutamente perfetta dalle mani di Dio, è stata coinvolta nel disordine e nella degenerazione seguiti alla caduta dei progenitori. La violenza e le uccisioni reciproche senza limiti sono dilagate nel mondo, rendendo ormai impossibile la pace di una vita sociale ordinata secondo giustizia.
Ora, dopo la grande purificazione del diluvio, Dio depone l’arco della Sua ira e abbraccia di nuovo il mondo nella Sua misericordia, indicandogli, in vista della redenzione futura, le norme essenziali per la sopravvivenza: «E più che mai domanderò conto del vostro sangue, ossia della vostra vita, ne domanderò conto a ogni essere vivente. A ciascun suo simile domanderò conto della vita dell’uomo, a ognuno di suo fratello. Chiunque spargerà il sangue di un uomo, dall’uomo sarà sparso il suo sangue,  perché a immagine di Dio l’uomo fu fatto» (Gn 9, 5-6). Con queste parole Dio rivendica la vita dell’uomo come Suo peculiare possesso: essa rimane sotto la Sua diretta e immediata protezione. È cosa «sacra». Il sangue dell’uomo che viene versato grida a Lui (cfr. Gn 4, 10), perché l’uomo è fatto a Sua immagine e somiglianza. L’autorità della società e nella società è da Lui istituita precisamente allo scopo di garantire il rispetto di questo diritto fondamentale, messo in pericolo dal cuore cattivo dell’uomo.


Il riconoscimento della sacralità della vita umana e della sua inviolabilità senza eccezioni non è dunque un piccolo problema o una questione che possa essere considerata relativa, in ordine al pluralismo delle opinioni presente nella società moderna. Il testo della Genesi orienta la nostra riflessione in un duplice senso, che ben corrisponde alla duplice dimensione delle domande che ci eravamo posti all’inizio:
1) non esistono «piccoli omicidi»: il rispetto di ogni vita umana è condizione essenziale perché sia possibile una vita sociale degna di questo nome;
2) quando nella sua coscienza l’uomo perde il rispetto per la vita come cosa sacra, inevitabilmente egli finisce per smarrire anche la sua stessa identità.


Nelle odierne società pluralistiche, in cui coesistono orientamenti religiosi, culturali e ideologici diversi, diventa sempre più difficile garantire una base comune di valori etici condivisi da tutti, capaci di essere fondamento sufficiente per la democrazia stessa. È d’altra parte convinzione abbastanza diffusa che non si possa prescindere da un minimo di valori morali riconosciuti e sanciti nella vita sociale;  ma quando si tratta di determinarli attraverso il gioco del consenso che essi devono ottenere a livello sociale la loro consistenza si riduce sempre più. Un unico valore sembra indiscusso e indiscutibile, fino a diventare il filtro di selezione per gli altri: il diritto della libertà individuale a esprimersi senza imposizioni, almeno finché essa non leda il diritto altrui. E così anche il diritto all’aborto viene invocato come parte costitutiva del diritto alla libertà per la donna, per l’uomo e per la società (…).
Nessuno nega che talvolta la situazione concreta di vita in cui matura la scelta dell’aborto può essere drammatica. Tuttavia il fatto è che l’esercizio di questi diritti reali viene rivendicato a detrimento della vita di un essere umano innocente, i cui diritti invece non vengono neppure presi in considerazione. Si diventa in tal modo ciechi di fronte al diritto alla vita di un altro, del più piccolo e del più debole, di chi non ha voce. I diritti di alcuni vengono affermati a scapito del fondamentale diritto alla vita di un altro.


Brano tratto dal libro di Joseph Ratzinger
“L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”


Pubblicato sul Giornale del 21/06/2005
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=9262