Identità e statuto embrione umano: il contributo della biologia (Parte I^)

di SERRA A. e COLOMBO R. in AA.VV. Identità e statuto dell’embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Citta del Vaticano, 1998 – Tratto da http://www.academiavita.org/template.jsp?sez=Pubblicazioni&pag=testo/ident_embr/serra_colombo/serra_colombo


Introduzione


Nel dibattito, che sembra senza termine, sullo status dell’embrione umano, le argomentazioni filosofiche e scientifiche sono spesso così complessamente interconnesse che è difficile isolare e riconoscere quale debba essere il puro contributo delle scienze biologiche a questa discussa questione. D’altra parte, le affermazioni filosofiche – se non sono semplicemente formali o logiche – non possono escludere un qualche riferimento al tipo di fenomeno di cui trattano.

La vita fisica è un fenomeno che cade sotto l’indagine delle scienze empiriche, quali le discipline biologiche, e ogni realistico approccio filosofico allo status degli esseri viventi implica almeno qualche preliminare, elementare conoscenza dei dati empirici e delle loro possibili spiegazioni. Da parte sua, il ricercatore biomedico, mentre raccoglie e interpreta le osservazioni e i risultati degli esperimenti, non può evitare di usare almeno pochi, essenziali concetti razionali (come, ad esempio, i concetti di unità, individualità, causalità, forma, divenire), i quali non possono essere completamente ridotti ai risultati del tipico processo induttivo delle scienze empiriche. Questi concetti meta‑biologici hanno giocato un ruolo decisivo nello sviluppo dell’idea di individuo vivente, di organismo, di specie, di riproduzione, di informazione genetica, di patologia, di evoluzione, etc.


Oggi, una sintesi tra dati e ipotesi scientifiche, pensiero filosofico e istanze delle scienze umane, è divenuta una urgente necessità per affrontare i gravi problemi etici, giuridici e sociali sollevati dagli interventi dell’uomo in molti aspetti e fasi della vita. Una tale sintesi, laboriosa ma necessaria, può essere realizzata in modo fruttuoso solo se vengono rispettate due condizioni. La prima richiede che filosofi e ricercatori nel campo delle scienze umane abbiano una lucida visione e comprensione dei dati biologici, unita – quando ciò sia richiesto dalla natura dell’argomento in questione – ad una chiara ricezione delle interpretazioni fornite dalla scienza stessa come esito di un rigoroso metodo induttivo. Non è infatti estraneo ai filosofi il compito di partecipare al processo di selezione delle ipotesi esplicative degli aspetti empirici della realtà, svolgendo essi un ruolo critico nei confronti della consistenza e della cogenza di tali ipotesi. La seconda condizione richiede che biologi e medici, oltre a osservare una scrupolosa logica scientifica nell’interpretare i dati raccolti, siano disponibili a seguire il processo di analisi filosofica e di inferenza dalle scienze umane, così da arrivare a riconoscere il valore delle conclusioni cui è giunto il processo stesso, valore che è sia di ordine teorico (ontologia) che di natura pratica (etica).


Sia i difensori che gli oppositori dello status di persona dell’embrione umano fanno appello ai dati scientifici e alle loro spiegazioni biologiche (o alla interpretazione dei dati correnti che presumono essere quella corretta). Una notevole importanza viene attribuita alla descrizione dei processi che fanno parte dello sviluppo dell’embrione prima, durante e dopo l’impianto nell’endometrio. Come ha osservato D. Folscheid, « vi è una forte tentazione di chiedere alla scienza stessa di operare una scelta tra opinioni e credenze che si escludono a vicenda. La scienza ci ha fornito una tal quantità di conoscenze circa la realtà biologica dell’embrione che è per noi davvero molto difficile porre la questione in termini corretti. La questione non è “Che cosa la scienza ci dice a proposito dell’embrione?”, ma “Che cosa la scienza ci dice legittimamente a proposito dello status dell’embrione?” ».1 Di certo la biologia non può dire nulla sullo status di persona dell’embrione umano, poiché le scienze naturali non includono la persona tra i loro oggetti formali di indagine. Cionondimeno, le scienze biologiche – ed in particolare modo la genetica, la biochimica, la citologia, la biologia dello sviluppo e l’ostetricia – possono sicuramente contribuire alla discussione su come e quando un organismo umano individuale si forma e si sviluppa: gli organismi individuali, et quidem l’organismo umano in fase di sviluppo, sono precisamente oggetti materiali e formali della ricerca biologica. Ciò che intendiamo sottolineare è che questo contributo non ha come obiettivo quello di dimostrare o confutare una affermazione su se e quando sia già presente una persona nell’embrione umano. Tale argomento è affrontato dettagliatamente in altre parti di questo volume. Al contrario, lasciando da parte le opinioni personali sullo status di persona dell’embrione umano e gli atteggiamenti morali nei suoi confronti, lo scopo del nostro lavoro è di esporre i più recenti dati biologici che, correttamente interpretati secondo un metodo strettamente scientifico, possono contribuire a determinare quando un essere umano (cioè un organismo individuale della specie umana) inizia ad esistere e come esso si sviluppa.2 Successivamente saranno prese in debita considerazione le principali obiezioni che possono essere sollevate contro le nostre conclusioni e le loro implicazioni, fornendo una valutazione critica di esse per quanto concerne gli aspetti biologici pertinenti.


A questo punto il biologo esaurisce il suo compito, anche se una ulteriore, legittima questione può essere posta: « Come un individuo umano non sarebbe una persona umana? ».3 Il biologo, in quanto biologo, non è nella condizione di rispondere a una tale domanda di carattere meta‑biologico, sebbene egli possa avere in proposito una sua ponderata opinione; il compito è dunque consegnato ad altri studiosi della realtà. Ciò che segue è davvero solo un contributo – da un punto di vista limitato ma imprescindibile – per una comprensione oggettiva dello status dell’embrione umano durante i primi stadi del suo sviluppo, che ha l’intendimento di facilitare il compito di rispondere alla questione decisiva: “Chi è l’embrione umano e come dobbiamo trattarlo?”. Una questione che richiede però l’essenziale apporto di forme di sapere diverse.


 


Parte  Prima


Il concetto di vita ed il suo uso analogico


Che cos’è la vita? E, specificamente, che cos’è la vita umana? Gli attuali dibattiti in bioetica – soprattutto quelli che concernono il rispetto della vita umana al suo inizio e al suo termine – si riferiscono a un concetto, quello di « vita », e ad una delle sue specificazioni, quella di « vita umana », che non appartiene al solo sapere della biologia. Altre scienze, come la filosofia, la teologia, la psicologia, la sociologia, il diritto e la politica, si occupano di vita e di vita umana, ognuna secondo differenti punti di vista. Ciascuna di esse, tuttavia, si riferisce iuxta propria principia all’identico fenomeno la cui componente empirica – la cosiddetta « vita fisica » o « vita corporea » – sembra essere già senza dubbio conosciuta grazie ad un implicito riferimento a un concetto “bio‑logico” di vita, che viene considerato come immediatamente evidente.


In realtà, i biologi hanno da molto tempo rinunciato ad elaborare un concetto propriamente teoretico di vita fisica, perché il modo di concepire uno specifico fenomeno empirico è inseparabilmente connesso a una certa interpretazione della sua natura in termini meta‑empirici, cioè appellandosi a principi filosofici. Tale compito è stato perciò consegnato ad una filosofia della natura, e precisamente della natura vivente, la cui rinascita è attesa con interesse da molti studiosi dopo la profonda crisi che essa ha subito nel corso del diciannovesimo secolo.4


Non intendiamo certo escludere che i biologi identifichino in modo corretto una classe di enti che essi chiamano « esseri viventi », e che riconoscono come tali sulla solida base di caratteristiche o proprietà inconfondibili. Ogniqualvolta un oggetto di studio risulta simultaneamente dotato di tutte queste proprietà, essi sono portati ad inferire la sua natura vivente dapprima mediante un processo intuitivo e successivamente attraverso un ragionamento di tipo riduttivo‑induttivo. Queste caratteristiche comprendono la dinamicità del sistema e la sua capacità di autocontrollo (omeostasi), la eccitabilità (capacità di risposta a stimoli di diversa natura e origine), la autoriproducibilità, la ereditarietà dei caratteri, e la tendenza evolutiva.


Ogni ente o gruppo di enti naturalmente dotato di queste caratteristiche è un « essere vivente », anche se non le possiede nello stesso modo e allo stesso grado, o sebbene non le mostri tutte contemporaneamente. Il livello fondamentale di organizzazione della natura vivente è la cellula. Essa costituisce l’elemento più semplice ma essenziale della materia vivente, di cui è l’unità biologica di struttura, funzione e riproduzione.5 Tutti gli esseri viventi, dal più semplice al più complesso, sono costituiti da una o più cellule, e hanno origine da una o più cellule preesistenti. Se si esclude il caso più semplice, quello degli esseri unicellulari (batteri, alghe azzurre, e molti dei protisti), nei quali la singola cellula rappresenta il loro unico modo di esistere dalla riproduzione alla morte, gli esseri viventi multicellulari vengono identificati dai biologi attraverso il riconoscimento di una loro forma di esistenza individuale, che li costituisce e caratterizza nel corso di tutta la loro vita. Questa forma individuale viene chiamata organismo. Essa è la forma di vita che rappresenta l’integrazione, la coordinazione e l’espressione ultima (fenotipo) delle strutture e delle funzioni dell’essere vivente, e che lo fa essere questo singolo essere vivente e non un altro della stessa specie. Anche se la forma pienamente sviluppata di un organismo (adulto) è completamente realizzata solo nella fase matura del suo ciclo vitale, tuttavia essa esiste già dall’inizio del ciclo stesso (generazione) e forma la base della unicità di ogni essere vivente per tutta la sua vita. Ogni organismo multicellulare che si riproduce sessualmente inizia il suo ciclo vitale come un organismo temporaneamente costituito da una singola cellula (embrione unicellulare o zigote) e successivamente da poche cellule (embrione multicellulare).6 Ma le loro strutture biologiche, apparentemente semplici, non rendono l’embrione unicellulare equivalente a nessuna delle cellule del corpo umano prese singolarmente, né l’embrione multicellulare equivalente ad alcun gruppo o massa di queste cellule. Sin dall’inizio si tratta già di un organismo – e non di una cellula o di una massa di cellule – a motivo del suo incipiente ciclo vitale che rappresenta l’espressione definita, nello spazio e nel tempo, della integrazione e della coordinazione di tutte le sue cellule, pur a differenti livelli della sua progressiva organizzazione morfo‑funzionale (cellule, tessuti, organi e apparati).


Occore però menzionare altre due forme nelle quali è organizzato il mondo vivente: la popolazione e la specie. Una popolazione è costituita da un gruppo di organismi della stessa specie che vivono in uno stesso ambiente od occupano lo stessa sfera territoriale. La specie, sebbene il suo concetto è tuttora dibattuto tra i tassonomisti,7 può essere definita – da un punto di vista evolutivo – come una sequenza di popolazioni antenate e discendenti strettamente imparentate tra loro, e perciò più o meno simili nelle caratteristiche essenziali. In prospettiva genetica e riproduttiva, la specie viene considerata come un gruppo di popolazioni naturali effettivamente o potenzialmente interaccoppiabili, e che risultano geneticamente simili e riproduttivamente isolate da altri gruppi di popolazioni.


Ogniqualvolta si intende parlare, in senso biologico, di inizio o di fine della vita – et quidem di vita umana – occorre specificare a quale forma del “fenomeno vita” ci si sta riferendo: a livello di cellula, di organismo, di popolazione o di specie. L’affermazione che « la vita umana è un continuum, e non ha senso cercare l’inizio della vita umana » è certamente vero se essa si riferisce alla vita umana cellulare o alla vita della specie homo sapiens. Cellule umane e membri della specie umana sono esistiti sulla terra senza soluzione di continuità sin dalla comparsa del primo uomo. D’altra parte, la stessa affermazione è errata se viene riferita a un singolo organismo umano o ad una popolazione umana.8 Gli organismi non preesistono all’inizio del loro ciclo vitale, che è individuale e limitato nel tempo. Il concetto biologico di vita è analogico, non univoco, ed il suo uso richiede la precisazione del soggetto al quale lo si sta applicando. Biologicamente parlando, ha sicuramente senso sollevare e cercare di risolvere la questione di quando inizia la vita umana individuale (vita organismica).


Il « ciclo vitale » di un organismo


L’organismo è la modalità di esistenza che è propria di un singolo essere vivente.9 Da un punto di vista strettamente biologico, ogni essere umano è un organismo distinto, un organismo umano singolare. Gli organismi mantengono la loro identità organismica attraverso l’identità di una forma (identità formale), non della materia (identità materiale). L’identità organismica non si fonda su una identità materiale, ma sulla identità nel tempo di un ente che si auto‑costituisce e realizza continuamente la sua forma vivente. Tale forma vivente è ciò che rimane identico, grazie alla continua sostituzione di materiali (metabolismo) che rende possibile mantenere (omeostasi) il suo disequilibrio controllato tra l’ambiente interno e quello esterno (termodinamicamente, un organismo è un sistema aperto in disequilibrio controllato). Ma la identità diacronica della forma di un organismo (autoidentità nel tempo) non implica che la sua morfologia e fisiologia organismica rimanga identica dall’inizio alla fine della sua vita. Un concetto statico di identità non sarebbe idoneo a descrivere un sistema altamente dinamico quale è un organismo vivente. La identità concreta di un organismo non può semplicemente essere concepita a partire da una forma astrattamente definita (un « oggetto eterno », come le forme geometriche), fissata e realizzata una volta per tutte e poi tenacemente conservata per milioni di anni, come un cristallo di diamante. Piuttosto, durante la sua vita l’organismo rimane continuamente un agente in operazione, e la sua identità è il risultato di uno sforzo protratto nel tempo, l’autocreazione ed il mantenimento di una particolare integrità attraverso una continua performance; l’identità biologica è un attributo dinamico del suo essere quel organismo e non un altro.


La descrizione ordinata delle variazioni morfologiche e funzionali che avvengono nel corso della vita di un organismo secondo un programma intrinseco (cioè non accidentalmente) viene chiamata « ciclo vitale ». Il ciclo vitale è la forma reale di esistenza di un organismo; naturalmente si tratta di una forma dinamica, non statica. L’unità e l’identità di un organismo può essere definita nei termini del suo ciclo vitale, indipendentemente dalla durata o dal completamento di uno o di tutti i processi che costituiscono il ciclo stesso.


Le caratteristiche essenziali del ciclo vitale dell’uomo sono le seguenti.10 La fertilizzazione dà avvio al ciclo vitale iniziando un periodo di sviluppo chiamato embriogenesi, nel quale le diverse cellule, i tessuti e gli organi si formano progressivamente a partire dall’organismo primordiale, costituito da una singola cellula (zigote), mediante un processo di proliferazione e differenziazione. La riproduzione e lo sviluppo prenatale dei mammiferi avvengono in modo naturale all’interno dell’apparato genitale della madre, attraverso due fenomeni chiamati rispettivamente fertilizzazione e viviparità. Dopo il periodo dello sviluppo fetale, attraverso il parto viene dato alla luce un neonato, che continua a svilupparsi e a crescere fuori dal grembo della madre. Quando viene raggiunta la maturità, questa fase del ciclo vitale è seguita dalla senescenza e dalla morte. Dopo la pubertà, durante il periodo della maturità, la donna e l’uomo possono prendere parte al processo riproduttivo che fa iniziare un nuovo ciclo vitale. La vita cellulare umana non termina mai – se ciò avvenisse, ne risulterebbe l’estinzione della specie umana – e viene trasmessa da una generazione all’altra. La vita umana organismica individuale è definita all’interno del suo ciclo vitale, che è temporalmente limitato, cioè ha un inizio e una fine.11


Unicità e individualità degli esseri viventi


Tra gli argomenti attualmente discussi all’interno del dibattito sull’embrione, la distinzione tra individualità genetica e individualità di sviluppo viene frequentemente sollevata a proposito delle prime due settimane di vita dell’embrione umano. Questa distinzione ha origine dalla esposizione delle tesi di Grobstein e di Ford sullo sviluppo pre‑ e periimplantatorio,12 e può essere rinvenuta in diversi noti autori,13 i quali sostengono che il cosiddetto « pre‑embrione » non è un individuo umano. Prima di considerare se si debba oppure no ammettere una distinzione tra questi due tipi di individualità, ci sia concesso di discutere brevemente il concetto filosofico di individualità per quanto concerne la sua applicabilità agli esseri viventi (individualità biologica).


Secondo l’adagio della scolastica – che è divenuto la definizione classica di individualità – « individuum est indivisum in se, et a quodlibet alio ente divisum ». L’espressione indivisum in se si riferisce alla unità intrinseca dell’ens, la quale è il risultato della mutua relazione tra il tutto e le sue parti, e rende ragione della unicità dell’ente stesso. Divisum ab alio ente identifica una linea di demarcazione tra un ente ed un altro, che si fonda su una qualche forma di discontinuità (ad esempio, una differenza nella composizione chimica o nello stato fisico) ed è la ragione della loro distinzione. Tuttavia, se – come vorrebbero alcuni filosofi – si adotta un approccio all’individualità di tipo puramente analitico e fortemente riduttivo che la esaurisce nelle due qualità della indivisibilità e della separatezza, le quali sono concetti operativi e non descrittivi, l’individualità non può essere predicata né di un intero organismo, né di un singolo organo o di una cellula. L’indivisibilità di un organismo multicellulare è sempre relativa, e dunque non in grado di fondare la sua individualità: l’organismo può essere sempre diviso in strutture che sono morfologicamente e funzionalmente più semplici ed elementari, scendendo fino al livello cellulare. In senso stretto, solo la singola cellula è una unità biologica, cioè un’entità che non può essere divisa nelle sue parti senza perdere i caratteri distintivi della materia vivente. La separatezza di un organismo o anche di una cellula – a motivo del fatto che entrambi sono fisicamente (termodinamicamente) dei sistemi aperti e dinamici – non può essere una proprietà del reale, ma piuttosto della sua rappresentazione geometrica e statica. Lo scambio ininterrotto di materia ed energia tra qualunque sistema biologico ed il suo ambiente rende la separatezza di un organismo vivente, e anche quella di una singola cellula, un concetto assolutamente formale che non può essere utilizzato per fondare la loro individualità.


Sebbene non erronea e di utilità generale, la definizione classica, descrittiva dell’individuum, è in grado di individuare anche un essere vivente? O le proprietà fisiche (termodinamiche) e biologiche dei viventi richiedono un concetto specifico di individualità (individualità biologica), che non sia la semplice estensione del concetto generale e possa essere predicato di un organismo o di una cellula, le cui particolari caratteristiche non sono adeguatamente rappresentate dalla definizione classica? Se si fa uso dei concetti operativi di indivisibilità e separatezza, occorre ripensarli perché essi possano tenere conto delle reali condizioni di esistenza di un essere vivente? Per affrontare tali questioni seguiremo criticamente il pensiero di alcuni autori che si sono cimentati su questo terreno in modo speculativo.


Secondo H. Jonas,14 l’identità organismica, che può essere osservata attraverso segni esterni, sia morfologici che fisiologici, è una indicazione necessaria e sufficiente di una identità interna (che non può essere accertata direttamente), e dunque di una individualità. Qualunque ente che mostri una identità organismica è un individuo; chi non la possiede non è un individuo, ma un mero particolare. A motivo del metabolismo e del continuo scambio tra l’ambiente esterno e quello interno, l’identità organismica deve essere diversa da quella fisica: si tratta di una identità sui generis. Durante il corso della sua vita, un organismo cambia continuamente i suoi costitutenti materiali rimanendo tuttavia più o meno lo stesso. L’identità biologica non si fonda sulla identità fisica, sebbene l’organismo necessiti essenzialmente dei suoi costituenti materiali (atomi, molecole) che transitoriamente lo compongono. Non vi è documentazione fisica della sua continua identità: l’identità organica è l’identità di una forma (nel tempo), non di una materia.15 Non si tratta della identità permanente di una forma statica, sincronica, ma della identità nella trasformazione di un ente autocostruentesi e autoorganizzato che realizza continuamente questa forma dinamica, diacronica, di se stesso, e che lo fa fino alla morte, che rappresenta la perdita irreversibile di questa forma. Questa forma vivente è ontologicamente « il complessivo ordine strutturale e dinamico di un molteplice »;16 è ciò che rimane identico grazie alle attività che continuamente sostituiscono i materiali della sua complessa molteplicità strutturale e dinamica.


Come è possibile interpretare l’identità organismica di cui parla Jonas nei termini in cui vengono spiegate dalla scienza contemporanea le proprietà e le caratteristiche biologiche? Attualmente, le basi biochimiche e morfofunzionali del metabolismo e dell’omeostasi sono riconosciute nel quadro fenotipico (a tutti i suoi livelli, dal molecolare al somatico). A sua volta il fenotipo deriva dalla interazione cumulativa del genotipo (che viene espresso attraverso la sintesi delle proteine, le “molecole chiave” che controllano la sintesi di ogni altro composto) con l’ambiente fisico, chimico e biologico (interno ed esterno) al quale l’organismo è esposto nel corso del suo ciclo vitale. Poiché il genotipo (contenuto informazionale genetico delle cellule) rappresenta l’elemento permanente di un organismo – con la significativa eccezione delle mutazioni genomiche –, la sola forma dinamica di cui possiamo fare esperienza è il fenotipo. L’“informazione” genetica garantisce il piano di sviluppo e la invarianza essenziale di ciascuna delle attualizzazioni transitorie e stabili della forma vivente, mentre i fattori epigenetici e ambientali contribuiscono alla modulazione della forma vivente stessa, così come si manifesta nel fenotipo. L’identità organismica si riferisce direttamente al fenotipo, e solo indirettamente (attraverso i processi epigenetici e le interazioni ambientali) al genotipo.


Affrontiamo ora il caso, molto discusso, di due organismi umani dotati di uno stesso genotipo: i gemelli monozigoti (ma non tutti di essi, come sappiamo, hanno in comune l’identica coppia di alleli per ciascun gene in tutte le loro cellule: il mosaicismo dovuto a crossing‑overs mitotici nel corso dello sviluppo precoce prima dell’impianto viene considerato una causa di tale riscontrata eterogeneità genetica17). Durante la loro vita, l’espressione di questi identici genomi interagisce con numerose condizioni ambientali diverse che contribuiranno a determinare la forma dinamica della vita di ciascuno dei gemelli, entrambi i quali rappresentano un fenotipo che è unico rispetto al ciclo vitale. Ciascun gemello monozigote possiede la sua identità organismica. L’individualità di un gemello appartiene al suo intero ciclo vitale, il quale nel caso di uno di loro include anche la fase di sviluppo precoce dell’embrione che è precedente all’avvenuto processo di gemellazione. Jonas ritiene che l’individualità implichi qualcosa di più che una entità inflessibilmente collocata lì, un semplice e identico oggetto confezionato entro uno schema estrinseco: « l’essere differenti dagli altri, dal resto delle cose, non è una caratteristica avventizia ed estrinseca [degli individui], ma un attributo dinamico del loro essere, nel senso che la tensione richiesta da questa differenza è proprio il mezzo attraverso il quale ciascuno di essi mantiene se stesso nella sua individualità distinguendosi dall’altro e, allo stesso tempo, comunicando con esso ».18


Come afferma P. Parisi, « in logica, l’identità rappresenta la qualità per la quale un oggetto è ciò che è, e non qualcosa d’altro. La nozione di identità può anche essere ben espressa come lo stato di una cosa che rimane sempre la stessa. L’identità di un essere vivente, anche se presenta alcuni elementi di stabilità, è soprattutto caratterizzata da una qualità dinamica. E subito presente al suo inizio ed è, d’altra parte, il risultato di un continuo progresso. […] L’identità di un sistema vivente contiene sia elementi permanenti che dinamici ».19


Secondo P. Caspar, « il solo criterio di individualità è quello di una esistenza capace di autocontrollo. Se questo criterio non è soddisfatto – come nel caso dei virus – le entità biologiche non sono degli individui ».20 Oltre ai contributi classici della fisiologia e della embriologia alla comprensione rispettivamente dell’omeostasi e dei processi di sviluppo, Caspar sottolinea l’importanza di considerare le moderne conoscenze dell’immunologia, che introduce « un concetto forte di individuazione » attraverso l’idea di “io molecolare”. La scoperta della « memoria molecolare » degli organismi, che è implicata nella distinzione tra « sé » e « non sé », fornisce un ulteriore possibilità per una migliore comprensione della nostra individualità biologica.21


Recentemente anche M. Johnson, in una chiara disanima degli argomenti attualmente portati a favore della ominizzazione successiva,22 sostiene che, per quanto concerne le creature viventi, l’organismo capace di governare se stesso è paradigmaticamente un individuo. Poiché, secondo l’evidenza fornita dalla biologia, anche uno zigote umano è tale, egli ammette che l’embrione multicellulare che da esso deriva è veramente un individuo, e non una parte di un tutto più grande o un aggregato di elementi sconnessi tra loro. In un articolo che accompagna il testo di Johnson nello stesso numero della rivista, J. Porter risponde che « per quanto concerne questo aspetto, il suo [di Johnson] argomento è cogente. Infatti esso è così cogente che è difficile immaginare qualcuno che possa non essere d’accordo con lui su questo punto ».23 E questa è anche la nostra opinione.


Non vi è modo di distinguere tra individualità genetica ed individualità di sviluppo, poiché l’individualità appartiene alla forma dinamica, diacronica (fenotipo) di un organismo e non al suo genoma conservativo (genotipo, contenuto genetico informazionale delle sue cellule). L’individualità di ciascun organismo si fonda sulla singolarità del suo ciclo vitale e non sulla unicità del suo genoma. Cionondimeno, occorre ammettere che la singolarità di un ciclo vitale dipende in larga misura dal differente contenuto informazionale del genoma di ciascun organismo, che si costituisce con la fertilizzazione.


I processi biologici e i loro stadi


La vita è un fenomeno altamente dinamico che può essere descritto e interpretato attraverso lo studio dei processi vitali e delle loro interazioni. I processi biologici24 rappresentano lo strumento concettuale con il quale identifichiamo o correliamo una serie di cause ed effetti sulla base della loro origine (« emergenza ») o del loro fine (« teleologia »).25 Man mano che passiamo da livelli superiori di organizzazione morfo‑funzionale a livelli inferiori (analisi riduzionale), i processi biologici vengono scissi in un sempre crescente numero di trasformazioni di materia, energia ed informazione. Tuttavia possiamo riconoscere – se ci fermiamo a considerare un livello significativo di analisi del sistema biologico che stiamo studiando – alcune trasformazioni discrete, che prendono il nome di « stadi », « passaggi » o « eventi » e che sono caratterizzate da variazioni finite e discontinue dello stato del sistema biologico, così come esso viene definito a quel dato livello di analisi. Ad esempio, il processo attraverso il quale un cuore umano applica una pressione di pompaggio per mantenere un flusso costante di sangue attraverso il sistema circolatorio – processo che costituisce la funzione cardiaca – è analizzabile nei termini di una sequenza ciclica di quattro stadi successivi.26 Il ciclo di pompaggio del cuore comprende (1) la diastole atriale (gli atri si riempiono di sangue mentre le loro pareti si rilassano), (2) la diastole (rilassamento dei ventricoli che fa fluire in essi il sangue proveniente dagli atri), (3) la sistole (contrazione degli atri che completa il riempimento dei ventricoli), e (4) la sistole ventricolare (contrazione dei ventricoli che spinge il sangue dai ventricoli nell’aorta e nell’arteria polmonare). Il battito cardiaco – un singolo e continuo processo fisiologico – è composto di quattro stadi discreti, ciascuno dei quali precede e prepara il successivo. Nessuno di essi è più essenziale o caratteristico degli altri, ma tutti sono mantenuti con un ritmo e in una sequenza efficaci dagli impulsi del nodo senoatriale (il « pacemaker » naturale), che è localizzato in una piccola regione della parete dell’atrio destro. L’intero processo del battito cardiaco non può essere fisicamente interrotto a nessuno dei quattro stadi, e non siamo autorizzati ad affermare che l’ultimo, cioè la sistole ventricolare, sia l’inizio di una nuova onda di pressione nei vasi sanguigni. Esso è solo la causa prossima della pressione ematica. Se può essere identificato un autentico inizio o causa primordiale della circolazione, occorre rivolgersi all’impulso del nodo senoatriale, il sine qua non del processo di pompaggio del cuore.


Dal punto di vista analitico, tale divisione in stadi o eventi può essere utile e anche necessaria per comprendere dei processi biologici molto complessi e articolati, tra i quali si colloca sicuramente lo sviluppo di un organismo umano. In questo caso, l’analisi morfogenetica a livello di cellule, tessuti e organi ci permette di evidenziare la comparsa di nuove strutture, prima non osservabili, che caratterizzano il piano di sviluppo di ciascun organismo. Come esempio, possiamo citare la formazione, all’interno della blastociste, della massa cellulare interna per separazione della linea cellulare dell’embrioblasto da quella del trofoblasto; la comparsa della stria primitiva nella regione caudale del piano mediale della faccia dorsale del disco embrionale; e l’avvicinamento delle pieghe neurali nel piano mediale dell’embrione, seguito dalla loro fusione a dare il tubo neurale. D’altra parte, l’analisi fisiogenetica mostra la progressiva attivazione delle differenti funzioni dell’organismo umano, non appena si rendono disponibili le idonee strutture cellulari, istologiche e organiche. Ad esempio, lo stabilirsi della comunicazione intercellulare attraverso le gap junctions, le tight junctions e i desmosomi; l’inizio della circolazione del sangue nei vasi dell’embrione; e l’esordio dell’attività elettrica nel sistema nervoso periferico dell’embrione a seguito della formazione delle sinapsi tra i neuroni sensori, gli interneuroni e i neuroni motori.


In un approccio sintetico, lo studio degli stadi attraverso i quali un processo coordinato e graduale come lo sviluppo dell’uomo avviene, non ci impedisce di afferrare e comprendere la reale unità e continuità del processo stesso, secondo quella concezione diacronica e dinamica della vita di ciascun organismo che è propria del pensiero biologico contemporaneo. Se seguiamo la logica intrinseca delle sequenze causali e temporali, una ricostruzione sintetica dei processi vitali ci consente di comprendere la loro unità, continuità e gradualità. Senza considerare tali sequenze, risulta impossibile spiegare razionalmente i singoli eventi o stadi, a qualunque livello funzionale, morfologico, biochimico o genetico.27


Analisi multilivellare e paradigma informazionale


La peculiarità (“Besonderheit” o “Eigentümlichkeit”, secondo la originale terminologia di Virchow28) della vita, che risiede sia nella struttura che nella funzione degli esseri viventi, è connessa con la loro unica, intrinseca ed essenziale complessità. Un organismo vivente è un sistema complesso non solo a motivo del numero estremamente elevato dei suoi componenti chimici e biologici, ma anche in ragione della sua organizzazione multilivellare. Per livello di organizzazione intendiamo qui riferirci ai livelli composizionali, cioè le divisioni gerarchiche degli oggetti materiali « organizzati mediante relazioni tra le parti e il tutto, nei quali i singoli “tutto” ad un livello fungono a loro volta da “parti” per i livelli successivi (e completamente superiori) ».29 Una delle caratteristiche di tali livelli è che essi sono generalmente composti e decomposti uno per volta, e solo se necessario. La “comparsa” di un certo livello di organizzazione, come risulta documentata dalla presenza di “nuove” (cioè non presenti sino ad allora) strutture e proprietà, è il risultato di una transizione da un livello inferiore a quello attuale. Ovviamente, tale transizione solleva la questione di perché e come essa avvenga, che costituisce il nucleo del noto dibattito tra riduzionismo e olismo. « In quanto riduzionista – afferma Wimsatt – io voglio capire quanto più possibile sui livelli superiori a partire dalle proprietà di quelli inferiori. Come un tipo di olista, sono tentato di fare l’opposto e, per quanto concerne i sistemi evolutivi, non è contradditorio sostenere che l’ordinamento delle parti inferiori (e conseguentemente la comparsa di certi fenomeni superiori) sia il prodotto di forze di selezione di livello superiore. E si può procedere in entrambe i modi […], purché non si giunga a dire che il sistema che si sta studiando deve essere esaustivamente caratterizzato attraverso un approccio piuttosto che l’altro, ma si continui a considerarli come complementari ».30 In questa sede non prenderemo posizione su questo dibattito poiché le nostre argomentazioni, sebbene presuppongano un’idea di contenuto informazionale del vivente e il concetto di organizzazione multilivellare, non risultano condizionate da praticamente nessuna delle esistenti analisi della comparsa della informazione biologica e della riduzione o emergenza dei livelli di organizzazione.31 La sola pesante obiezione sarebbe quella proveniente da una ferma persuasione che i differenti livelli di organizzazione non sono altro che meri schemi concettuali attraverso i quali i biologi mettono in ordine e correlano tra di loro i risultati di diversi esperimenti scientifici, come il legare la presenza nella membrana cellulare di una classe di composti chimici dotati di specifiche strutture e proprietà alla scoperta del movimento di sostanze verso l’interno e l’esterno di una cellula vivente. Non sarà qui discussa la interessante ma complessa questione filosofica del realismo delle scienze naturali,32 e le posizioni che si oppongono al realismo scientifico, il relativismo e lo scetticismo.33 Si tratta della questione fondamentale della filosofia della scienza, dalla quale non si può facilmente sfuggire quando si affronta – dal punto di vista biologico – lo status dell’organismo umano, et quidem dell’embrione umano che si sviluppa. Riconosciamo che la relazione tra le rappresentazioni scientifiche degli organismi viventi e la valutazione dello status “reale” (ontologico) degli enti che esse pretendono di svelare è ben più complessa di quanto non sia stato riconosciuto dalle tradizionali forme del realismo biologico, in larga misura vincolate all’analisi di ben strutturate versioni di teorie particolari. All’interno di una teoria (ad esempio, la genetica molecolare delle malattie ereditarie), la tipizzazione formale delle pertinenti entità e proprietà non è – e non deve essere – il solo mezzo di identificazione, localizzazione o caratterizzazione delle entità e proprietà stesse; altrimenti, se così fosse, risulterebbe impossibile costruire delle prove per validare l’adeguatezza delle categorie impiegate dalla teoria per caratterizzare tali entità e proprietà. Come hanno giustamente fatto notare Burian e Trout, « il fatto che delle soddisfacenti prove di adeguatezza non sono solo possibili ma anche effettive, indica che il realismo scientifico a proposito degli enti dipende, almeno in qualche misura, dalla nostra conoscenza di generalizzazioni vere, non accidentali – cioè di leggi – che riguardano questi enti ».34


Tra i quattro approcci, noti con il nome di paradigma determinista, probabilista, indeterminista e informazionale,35 attualmente adottati per costruire modelli scientifici dei fenomeni empirici in grado di fornire una comprensione razionale della realtà fisica, il paradigma informazionale è oggi riconosciuto come il più idoneo a rendere pienamente ragione della peculiarità dei sistemi biologici.36 L’informazione non è riducibile né alla materia né all’energia, anche se la sua conservazione, tramissione e conversione dipende fisicamente sia dalla materia che dall’energia.37 Il paradigma informazionale, così come viene applicato al mondo biologico, pone in evidenza il fatto che ogni singola cellula vivente e ciascun organismo contiene una certa quantità di informazione, la cui analisi è essenziale per una esauriente comprensione di che cosa sia una cellula o un organismo e di come funzioni. La scomposizione e la localizzazione attraverso la sola analisi materiale (fisica, chimica o biologica) ed energetica (ogni forma di energia fisico‑chimica) è una strategia euristica che risulta insoddisfacente, e non ha successo neppure per spiegare come le più semplici forme di vita (ad esempio, un organismo procariote unicellulare come il batterio Escherichia coli) riescano a produrre un fenomeno che ci interessa. I promotori e gli utilizzatori (soprattutto biologi molecolari, genetisti, embriologi e studiosi dell’evoluzione) dell’analisi informazionale a qualunque livello della ricerca biologica sottolineano giustamente che essi non stanno in nessun modo riesumando l’antico e fallace approccio vitalistico ai fenomeni empirici della vita, poiché l’informazione – così come viene intesa entro i confini della ricerca biologica – non rappresenta né una forza in contrasto con le leggi fisiche né una entità che si giustappone semplicemente ad esse in un modo dualistico, ma costituisce un principio intrinseco di organizzazione della materia e della energia naturali, che dà “forma” alle macromolecole e alle strutture sopramolecolari secondo un ordinato piano di sviluppo.38


Secondo Polanyi,39 un organismo vivente – come una macchina – è un sistema fisico sotto il controllo di due distinti principi generali. Il principio superiore è rappresentato dalla struttura biologica a tutti i suoi livelli, dagli aggregati sopramolecolari, membrane cellulari interne e organuli, sino ai tessuti, agli organi e ai sistemi. Questa struttura serve da “condizione limite” che vincola il principio inferiore, cioè i processi chimico‑fisici mediante i quali le cellule, gli organi e l’intero organismo compiono le proprie funzioni metaboliche e fisiologiche. La forma di un dato livello, che è dato dal modo con cui gli elementi del livello inferiore sono organizzati ed interagiscono tra di loro, costringe le sostanze e le forze fisico‑chimiche che operano ai livelli inferiori ad interagire al servizio delle funzioni sviluppate dal livello superiore.


Tutto questo ci introduce nella considerazione della base genetica dello sviluppo di un organismo e del ruolo essenziale svolto dal genoma individuale nel processo di ontogenesi, un tema così frequentemente trattato che non richiede di esporre in questa sede quanto già ampiamente disponibile altrove.40 I molti dati che costituiscono questo notevole capitolo della nostra conoscenza biologica includono non solo il modo con cui l’informazione genetica è conservata (struttura del DNA) ed ereditata (replicazione del DNA), ed il meccanismo della espressione dei geni – la sintesi di RNA messaggero a partire dal DNA, e la sintesi delle proteine da RNA messaggero –, ma anche il network del sistema epigenetico delle cellule: i sets di geni interattivi (epistasi), i geni e i prodotti dei geni tra loro interattivi (epistasi, pleiotropia), e le interazione tra prodotti dei geni e ambiente (effetti poligenici e pleiotropici) che costituiscono un sistema altamente dinamico, di grande complessità, inserito tra gli elementi genetici unitari (geni) e la forma finale delle cellule viventi e degli organismi (fenotipo).41


Ma l’argomento non necessita di essere affrontato da una posizione puramente difensiva. E infatti opportuno ricordare che sta emergendo tra gli embriologi una riscoperta del concetto di campo morfogenetico fondata su una base ancor più solida che non in precedenza. Il programma di ricerca della « nuova embriologia », che sorgeva dalla rinascita degli studi embriologici negli anni 1920‑’30,42 era riassunto nella « Gestaltungsgesetze », il tentativo di scoprire le leggi della “forma ordinata”.43 « Il paradigma fondamentale della embriologia, l’idea che le conferì struttura e coerenza, era il campo morfogenetico ».44 L’idea che esistessero nell’embrione dei campi morfogenetici fu postulata da T. Boveri (1910) e ricevette una formulazione esplicita da A. Gurwitsch (1910‑’22), che li chiamò inizialmente con i termini « Geschehensfeld » e « Kraftfeld », ed infine « Embryonales Feld ».45 Questi campi designano delle aree di “in‑formazione” embriologica, vincolate a determinati substrati fisici. I componenti di ciascun campo « creano » una trama di interazioni tale per cui ogni cellula è definita dalla sua posizione all’interno del rispettivo campo. Gli esperimenti di R.G. Harrison sul trapianto di arto46 dimostrarono che la morula di tritone contiene due dischi di cellule che possono formare un arto anteriore se trapiantati in un’altra regione (« campo ») dell’embrione stesso. Inoltre, se il campo di un arto veniva diviso a metà e le due parti trapiantate in regioni differenti dell’embrione, ciascuna di esse dava origine ad un arto completo. Viceversa, se due metà‑campi di un arto erano impiantate assieme con lo stesso orientamento, i campi erano in grado di arrangiarsi a formare un solo arto normale. Inoltre, se delle cellule o dei tessuti ancora indeterminati erano introdotti nel dominio di quel campo, essi venivano organizzati e incorporati nell’arto in formazione. Un secondo modello, correlato al precedente, era quello del gradiente di campo (o campo epimorfico), che rafforzava l’idea di campo morfogenetico associandola al concetto di gradiente.


Negli ultimi decenni l’idea di campo morfogenetico è stata in qualche modo trascurata. Come ha osservato J.M.W. Slack, « ciò è dovuto in larga misura alla confusione di significati, che ha portato a ritenere che il termine “campo” avesse connotazioni mistiche o vitalistiche »,47 e lo ha fatto così scomparire dalla letteratura. Il progresso della genetica, che sembrava offrire una spiegazione alternativa dello sviluppo, ha portato a ridefinire l’embriologia come la scienza che studia le variazioni nella espressione dei geni. « Dal momento che la morfogenesi venne inclusa nella più ampia categoria della espressione genica, i campi non sembravano più necessari ».48 Tuttavia, recentemente è stata ben documentata tra gli studiosi contemporanei della biologia dello sviluppo una accresciuta stima per il concetto di gradiente di campo morfogenetico. E.A. De Robertis e i suoi colleghi hanno evidenziato il ruolo che svolgono i geni omeotici nell’iniziare e organizzare tali campi.49 I biologi molecolari hanno da poco riconsiderato le evidenze a favore dei campi morfogenetici nella Drosophila.50 I dischi imaginali degli insetti erano stati da lungo tempo considerati dei gradienti di campo,51 poiché sono costituiti da ben definiti gruppi di cellule la cui interazione dà origine ad un organo, sono in grado di regolare la sostituzione di parti mancanti, e mantengono la loro capacità di generare quel particolare organo anche quando il disco è trapiantato in un’altra parte della larva. Ad esempio, il campo della zampa della Drosophila appare come costituito da un sistema coordinato rettilineo dove i geni HomHox (Scr, Antp, Ubx) determinano la zona anteroposteriore destinata a formare le zampe, mentre l’espressione decapentaplegica è necessaria nel piano dorsoventrale.


Il concetto di campi è stato anche recentemente riscoperto dai genetisti clinici. I campi dismorfogeneticamente reattivi, definiti sulla base di sindromi cliniche, si sono mostrati come l’equivalente dei campi morfogenetici autoorganizzati, spazialmente coordinati e temporalmente sincronizzati della embriologia classica. Questa equivalenza è stata rafforzata dalle osservazioni che in alcune specie, come in molti dei vertebrati, la stessa malformazione (ad esempio, la ciclopia e la polidattilia) può essere sia prodotta sperimentalmente che indotta da una mutazione.52


I campi sopra ricordati sono i cosiddetti “campi secondari”. Il “campo primario” è rappresentato dall’intero embrione durante la segmentazione e la compattazione, prima della determinazione cellulare o dell’asse.







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