Casa Cini
Ferrara 16-09-99
Ringrazio sentitamente coloro che hanno voluto che la mostra sull’embrione umano fosse esposta anche nella nostra città. Il rapporto originario che ciascuno di noi istituisce naturalmente colla realtà è semplicemente quello di “guardarla”: così come essa è. La mostra ci educa a guardare “con occhi semplici” il più grande fatto che possa accadere in questo mondo: la venuta all’esistenza di una nuova persona umana.
Ho ritenuto opportuno riflettere su questo avvenimento, questa sera, da un punto di vista assai preciso. Da sempre lo Stato si è interessato, nel modo proprio della società politica, al concepimento ed alla nascita di nuove persone umane. Questo interesse, dovuto fondamentalmente alla connessione che vige fra bene comune e concepimento umano, è divenuto particolarmente intenso, dopo che l’umanità ha inventato una modalità di concepire l’uomo, che può prescindere completamente dalla congiunzione etero-sessuale.
Mi propongo questa sera di riflettere sui criteri che devono regolare l’intervento dello Stato nel campo della procreatica umana: di dare un giudizio sul disegno di legge N. 4048 approvato dalla Camera dei deputati il 26 maggio scorso: “Disciplina della procreazione medicalmente assistita”, e che presto sarà discusso in Senato. Ma non potrei svolgere questi due momenti senza premettere alcune riflessioni generali sul rapporto che vige fra l’ordine etico e l’ordinamento giuridico.
Pertanto, la mia riflessione si svolgerà in tre punti: rapporto fra ordine etico ed ordinamento giuridico (1); criteri etico-giudirici per una regolamentazione della procreazione artificiale (2); giudizio sul disegno 4048 (3).
Ordine etico ed ordinamento giuridico.Mi limito a riflettere sulla questione così come si pone oggi nelle democrazie occidentali.
Per capire i termini del problema, penso sia utile partire dalla riflessione di uno dei grandi maestri delle nostre democrazie, H. Kelsen, sul dialogo fra Pilato e Gesù. Kelsen “commentando la domanda evangelica di Pilato a Gesù “cos’è la verità?”, scriveva che in realtà questa domanda del pragmatico uomo politico conteneva in se stessa la risposta: la verità è irraggiungibile. Perciò, continua Kelsen, Pilato formula la domanda ma non aspetta la risposta di Gesù: si indirizza alla folla e domanda: “volete che vi liberi il re dei giudei?”. Vale a dire: sottomette la questione alla volontà popolare e lascia che sia il popolo a decidere. Agendo così – conclude Kelsen – Pilato si comporta da perfetto democratico: affida cioè il problema di stabilire il vero e il giusto all’opinione della maggioranza” [J. Herranz, La struttura morale della libertà, in Evangelium Vitae e Diritto, LEV 1997, pag. 19-20]. E, notate bene, a Kelsen non fa problema né che in questo modo viene condannato a morte un innocente né che il giudice (Pilato) sia personalmente convinto che sta condannando a morte un innocente.
La pagina di Kelsen pone in termini inequivocabili il problema: nelle società (se-)dicenti democratiche, tutto è negoziabile e pertanto è giusto nell’ambito pubblico solo ciò che la maggioranza ha deciso che sia tale? E’ meglio che poniamo la domanda allo stato puro, per così dire, senza considerare, per il momento, elementi di “disturbo”, che prenderemo in esame dopo.
Diciamo subito che la risposta affermativa a quella domanda è oggi largamente condivisa, per cui l’ordinamento giuridico si configura sempre più come “un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi contrapposti interessi” [Lett. Enc. Evangelium vitae, 70, cpv. 5]. Non solo, ma chi nega questo “dogma” è subito giudicato come persona che rifiuta il sistema democratico, dando per ovvia ed indiscutibile la connessione inscindibile fra democrazia e negazione che esiste una giustizia anche pubblica non stabilita dalle maggioranze.
Orbene, una tale negazione è insostenibile in sé e per sé, perché contraddittoria, cioè irragionevole (a); perché le moderne democrazie sono nate dal presupposto contrario (b); perché quella negazione porta alla distruzione pura e semplice del sociale umano (c).
(a) La tesi secondo la quale “tutto è negoziabile e pertanto è giusto nell’ambito pubblico solo ciò che la maggioranza ha deciso che sia tale”, è insostenibile in sé e per sé. Neppure chi la dice, la può ritenere vera. E’ cioè un’affermazione che si autodistrugge. E ciò può essere mostrato in vari modi.
La tesi afferma che tutto è negoziabile; che la definizione del giusto è il risultato esclusivamente della discussione e della “messa ai voti”. Ma nel momento in cui si accetta questa procedura e si riduce il “giusto” alla procedura della libera discussione, implicitamente si riconosce l’uguaglianza fra i vari interlocutori, la loro libertà di parola, il loro diritto ad essere rispettati nelle loro opinioni. In una parola: la loro dignità di persone.
Non solo. Ma nel momento in cui una persona accetta di entrare nella discussione politica, seriamente, delle due l’una: o intende semplicemente imporre colla forza la sua posizione oppure intende proporre ragioni. Nel primo caso siamo dentro al principio di ogni dittatura. Nel secondo caso, “proporre ragioni” significa che si è tutti d’accordo nel presupporre che non tutte le soluzioni si equivalgono, altrimenti non avrebbe senso argomentare, cercare una giustificazione, discutere con gli altri. Non si può, cioè, non avere come referenti una verità che non è il risultato del negoziato politico, ma ne è la condizione di possibilità.
In breve. Se si afferma che tutto è negoziabile, delle due l’una. O è negoziabile il negoziato stesso, ed allora si respinge il “principio-democrazia”; o è negoziabile tutto, ma escluso ciò che rende possibile il negoziato stesso, e cioè l’esistenza di una verità sull’uomo, e la possibilità della ragione di conoscerla.
(b) Anche il più superficiale conoscitore della storia delle democrazie moderne, conosce da quali presupposti è nato ed è stato costruito questo sistema politico.
Esso nasce come affermazione di un insieme di diritti umani fondamentali che non sono a disposizione di nessuno: in primo luogo del potere. E’ dunque implicata in ogni costruzione democratica della vita associata la certezza che la persona umana, ogni persona umana, è dotata di una “consistenza” che la pone al di sopra di ogni potere. E’ implicata la certezza che esistono diritti della persona che non sono negoziabili: che esiste, in fondo, una verità della persona non riducibile all’opinione della maggioranza.
(c) Pensare veramente che non esiste alcuna verità sull’uomo; che tutta la regolamentazione della vita associata debba prescindere completamente da ogni riferimento a beni/valori umani assoluti significa porre semplicemente la promessa per la corruzione della democrazia in dittatura.
Se, infatti, non esistono beni umani assoluti o che esigono incondizionato rispetto da ogni persona ragionevole, non esiste nessun criterio obiettivo per giudicare quando una società è giusta o ingiusta. Solo la verità sul bene può unire gli uomini. Senza questa consapevolezza di partecipazione alla stessa umanità, i rapporti fra le persone o sono conseguenza del potere del più forte oppure sono fragili miracoli della convergenza di opposti interessi.
“A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzati per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia” (Lett. Enc. Centesimus annus 46, cpv. 3; EE 8/1456). Soprattutto di questo secolo.
A questo punto, il liberista contemporaneo obietta quanto segue. Esiste un’insuperabile contrarietà di concezioni circa ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo; esiste un’impossibilità di conoscere ciò che è vero e ciò che è falso al riguardo e pertanto non si deve privilegiare nessuna concezione propria riguardo la vita buona. Ciascuno sia libero di seguire qualsiasi concezione di bene, purché osservi le norme pubbliche negoziate.
Questo modo di ragionare è incredibilmente superficiale ed ingenuo. Infatti, in primo luogo, chi elabora quelle norme non può mai prescindere dalle proprie concezioni del bene: una totale neutralità al riguardo è impossibile. Si pensi al caso del “matrimonio omosessuale”. “E’ impossibile separare semplicemente in tutti i casi, valori morali pubblici e “privati”, il giusto e il bene, precisamente perché una parte del bene umano, anche privato, possiede una dimensione sociale, comunitaria e, in questo senso rilevante per l’ordinamento pubblico” (M. Ronheimer, L’immagine dell’uomo nel liberalismo, in I. Yarza (a cura di), Immagini dell’uomo, Armando ed. Roma 1996, pag. 124). Non solo, ma, stabilita la norma, che cosa induce il soggetto ad osservarla o non? O si pensa ad uno Stato di polizia oppure si deve fare riferimento al giudizio del soggetto agente su ciò che è bene/male, e pertanto ad una connessione intrinseca fra la norma giuridica e le concezioni proprie dei soggetti-cittadini. Pertanto una cultura politica dominata dal relativismo morale è incompatibile con la democrazia. Essa (cultura) infatti non è in grado di rispondere alle fondamentali questioni di ogni comunità statuale: “perché devo considerare ogni altro uguale a me?”, “perché dovrei rispettare i diritti di un altro anche contro i miei interessi?”, “perché mai dovrei agire per il bene comune contro il mio bene privato?”.
Ho terminato il primo punto. Mi ero proposto di dimostrarvi una tesi. La seguente: è impossibile separare totalmente la costruzione dell’ordinamento giuridico da quei beni che per la vita della persona, sono fondamentali, e quindi, è impossibile stabilire una legalità pubblica completamente indipendente dalla concezione morale personale.
L’accettazione di questa tesi non solo non è antitetica alla democrazia, ma al contrario la salvaguarda da ogni sua corruzione nella prevalenza dell’interesse del più forte. La nostra intrinseca dignità e i nostri diritti fondamentali non sono il risultato di convenzioni. Essi precedono tutti i negoziati politici e danno la fondamentale ispirazione alle leggi civili.
La tesi sostenuta non significa che: (a) la legge debba imporre tutto ciò che è moralmente buono, ma solo ciò che è moralmente necessario alla difesa dei diritti fondamentali dell’uomo; (b) la legge debba imporre una particolare concezione del bene, come se (b1) non esistesse una verità sul bene universalmente valida, e (b2) questa verità non fosse conoscibile dall’uomo.
Criteri etico-giuridici della procreazione artificialeDa ciò che ho detto finora deriva che esistono dei criteri in base ai quali giudicare un’eventuale regolamentazione della procreazione artificiale. Essi sono fondati sul bene delle persone coinvolte.
Mi limito alla persona del concepito artificialmente. Lo faccio per brevità ed in ragione del fatto che essa è la più esposta alla ingiustizia: il diritto deve preoccuparsi in primo luogo dei deboli.
La domanda fondamentale è la seguente: quali sono i beni e quindi i diritti fondamentali dell’embrione, che devono essere tutelati in una regolamentazione legislativa della procreazione artificiale? La risposta non è poi così difficile, se riflettiamo attentamente.
Il primo e fondamentale diritto è il diritto alla vita. Esso non comporta solamente che nessun embrione può essere direttamente ucciso, ma che non può essere neppure esposto ad un grave pericolo di sopravvivenza.
Il secondo e fondamentale diritto è il diritto all’educazione. Con “diritto all’educazione” intendo la facoltà morale che il concepito possiede ad esigere tutto ciò che è necessario al suo sviluppo fisico, psichico e spirituale. Ciò comporta, ed è un punto fondamentale, che egli abbia origine in un “contesto” dai lineamenti precisi.
Riguardo al primo, è da considerare grave violazione del diritto alla vita “produrre” più di un embrione in vitro, anche se essi vengono tutti trasferiti in utero. Tutti gli studi, infatti, dimostrano che il trasferimento in questione comporta la morte [aborto spontaneo] della maggior parte di essi.
Per avere un’idea più precisa del fenomeno riportiamo i dati della FIV in Francia dal 1986 al 1990.
Se teniamo conto che nei 76.000 cicli cui fa riferimento il lavoro sopra riportato sono stati ottenuti in media 3,5 embrioni e trasferiti in utero almeno 2,7 embrioni per ciclo (Bilan FIVNAT 1993, Copntracept Fertil Sex 1994; 22:278-281) ci si può rendere subito conto che dei 266.000 embrioni ottenuti, 205.200 dei quali sono stati trasferiti in utero, sono sopravvissuti solo 6.879 neonati, nati da 5371 parti.
Se aggiungiamo ai 6879 neonati i 15.200 aborti infraclinici attesi possiamo valutare il vero costo in vittime umane della Fecondazione in Vitro, cioè 243.921 embrioni (93,82%).
Come si vede gli embrioni soprannumerari, cioè quelli non trasferiti in utero sono 64.800, mentre quelli esposti a morte al solo scopo di consentire la sopravvivenza dei 6.879 sono stati 198.321!
La percentuale di gravidanze evolute resta in tutti i casi strettamente dipendente dal numero di embrioni trasferiti (arrotondando le cifre, si ottiene il 10, 20 e 30%, a seconda che siano stati trasferiti 1,2 o 3 embrioni). Tale tasso non aumenta se si trasferiscono più di 3 embrioni, mentre aumenta il rischio di gravidanza plurigemellare (E.M.C. Ginecologia-Ostetricia, vol. 3,5001 – A – 10).
Secondo altri autori (American Fertility Society, Fertility Sterility; 59, 5:956-61) la percentuale di gravidanze ottenute sale da valori del 13% per trasferimento di 3 embrioni (o meno), al 25% per 4 embrioni ed al 26% per 5 o 6 embrioni.
Le probabili vittime della riduzione fetale potrebbero essere al massimo circa 1500.
E’, quindi, evidente che la responsabile prima dell’ecatombe di embrioni è la fecondazione in vitro. [devo questi dati all’amico Dott. A.F. Filardo, Aiuto Corresp. U.O. OST. Ginec. Osp. Foligno: lo ringrazio!]
Da ciò deriva che solo la fecondazione di un solo ovulo e trasferimento dell’embrione ottenuto, non sembrerebbe costituire grave pericolo di violazione del diritto alla vita, di cui l’embrione è soggetto. Se però risultasse da ricerche accurate una percentuale di abortività naturale significativamente maggiore che in natura, se ne dovrebbe dedurre che anche in questo caso si esporrebbe l’embrione ad un rischio non solo moralmente, ma anche giuridicamente inaccettabile.
Riguardo al secondo, il discorso è più complesso. In sostanza la domanda alla quale bisogna rispondere è la seguente: a chi la legge può permettere di chiedere una procreazione artificiale? La mia risposta è: solo all’uomo e alla donna che sono uniti in un legittimo matrimonio. Restano pertanto esclusi singole persone, coppie di omosessuali, conviventi di fatti e fecondazioni eterologhe.
Per comprendere l’esistenza ed il contenuto di questo diritto fondamentale dell’embrione, è necessario permettere una riflessione. Nessuno ha il diritto ad (avere) un’altra persona: si ha diritto solo alle cose. La ragione dell’inesistenza di un tale diritto è l’uguaglianza nella dignità di ogni persona umana, in forza della quale nessuna può essere semplicemente usata, neppure per scopi moralmente buoni.
Dire “ho diritto al figlio”, non ha senso, se non nel contesto della costruzione di un sociale nel quale alcune persone servono ad altre: di un sociale cioè ingiusto.
Da questa riflessione deriva una conseguenza assai importante: nessuna persona umana deve essere introdotta nell’esistenza se non in un contesto nel quale la sua dignità, il suo diritto all’educazione sia salvaguardato. Ora, come anche tutta la storia degli orientamenti giuridici ha dimostrato, solo una coppia etero-sessuale legittimamente sposata assicura il rispetto di quel diritto.
Ovviamente questa tematica esigerebbe ben più prolungata riflessione. Mi limito a cenni. E’ antropologicamente errata quella visione, che oggi cerca di imporsi, che nega significato ontologico alla differenziazione sessuale. Mascolinità-femminilità sono due modi di essere persona umana significativamente diversi. Pertanto che un bambino abbia una madre e un padre non è un fatto irrilevante in ordine alla sua educazione nell’umanità. E’ profondamente ingiusto far sì che un bambino abbia “due madri” o “due padri”, senza, rispettivamente, un padre o una madre.
Dentro questo contesto si capisce come sia ingiusto e pericoloso legittimare fecondazioni eterologhe. Ingiusto: di fatto ha due padri/madri; pericoloso: togliendo la discendenza biologica come fondamento della paternità/maternità si lascia finalmente allo Stato la facoltà di definire la relazione originaria di ogni persona umana.
Si comprende anche come sia ingiusto consentire ai conviventi la fecondazione artificiale. Per definizione le convivenze di fatto sono prive di qualsiasi stabilità. Esse pertanto non assicurano, per definizione, un permanente contenuto educativo.
In sintesi: lo Stato potrebbe tollerare che due sposi ricorrano alla FIV-ET omologa, fecondando un solo ovulo. Una tale legittimazione, pur tollerando una grave violazione alla dignità dell’embrione, perchè non “generato” ma “prodotto”, non sembra mettere in questione i fondamenti dell’istituto matrimoniale-famigliare né violare i due diritti fondamentali dell’embrione.
Giudizi sul disegno di Legge N. 4048Alla luce di quanto detto sopra, possiamo dare un giudizio etico-politico sul disegno di legge N. 4048.
Vorrei richiamare la vostra attenzione sul vocabolario usato: è assai istruttivo. Si parla di “embrioni prodotti” (cfr. art. 13,4); di “possessori di embrioni” (cfr. art. 16,5). E’ la logica produttiva che ormai ha investito anche i rapporti fra le persone: una persona è prodotto e quindi esiste chi possiede il prodotto fatto.
Prout stat, esso è inaccettabile per lo meno a causa di quanto disposto all’art. 5 [ … o conviventi] e di quanto disposto all’art. 13,4 [= più di un embrione].
Conclusione
Non so quale sarà l’esito di questa vicenda legislativa. Questa sera ho voluto adempiere ad un mio grave dovere: difendere la dignità della persona dell’embrione. L’ho fatto offrendo dei criteri per giudicare se coloro che hanno potere legislativo difendono o violano quella dignità, coi loro voti parlamentari. Per ricordarcene al momento opportuno.
E’ un momento gravissimo quello che stiamo vivendo: alla potente ed originaria intuizione della (dignità della) persona si è sostituita l’astratta concezione dell’uomo come “individuo”. Tutta la problematica anche legislativa sembra aver dimenticato la realtà della persona per imporre l’astrazione dell’individuo.
Ogni cultura umana si genera e si qualifica come modo per affrontare e vivere le fondamentali esperienze della vita umana: amore, nascita, rapporto uomo-donna, società, lavoro, morte.
Il futuro delle democrazie dipende in larga misura da una cultura capace di formare uomini e donne in grado di capire, dire e difendere la dignità umana di quelle fondamentali esperienze.
E’ questo soprattutto il compito di una cultura cristiana: riporre la persona umana nella sua dignità.
Tratto da www.caffarra.it