L’onestà della memoria in una patria davvero comune

La giornata per le vittime delle foibe


Ulderico Bernardi


La dimenticanza, ebbe a scrivere il dalmata Niccolò Tommaseo, perde i popoli e le nazioni, perché ogni nazione altro non è che memoria. Un pensiero alto su cui l’Italia contemporanea appare intenzionata a meditare. 

Se è vero, come molti sostengono e come dolorose esperienze di divisione tuttora impongono, che il male profondo della nostra comunità nazionale è la fragilità della sua memoria collettiva, attraversata da antiche e più recenti fratture. A cominciare dalle modalità con cui si è venuta formando la stessa unità italiana. Nell’indifferenza per le specifiche tradizioni culturali regionali, quando non con l’imposizione manu militari. Il Regno delle due Sicilie, aggredito dal Piemonte senza dichiarazione di guerra, conosce la resistenza di decine di migliaia di soldati nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, in nome della legittima dinastia borbonica. I prigionieri meridionali rinchiusi in carceri alpine a morire di freddo, la caccia feroce sulle montagne ai non rassegnati, bollati come briganti. Regno d’Italia e regime fascista hanno steso una coltre pesante su questi fatti. E una lettura distorta della storia ha negato il peso che ebbe sull’immigrazione di milioni di italiani verso le Americhe l’odio borghese contro i contadini, accusati di essere succubi del prete. E ancora, una perversa retorica nazionalista ha imposto lo stereotipo bonario dell’occupante italiano nelle colonie d’Africa e nei territori strappati all’Austria-Ungheria con la Grande guerra. Quando si spinse il confine fino a pochi chilometri da Lubiana e si occupò Fiume, inglobando oltre trecentomila abitanti di ceppo slavo che il regime fascista tentò con ogni sopruso di strappare alla loro lingua e cultura. La Seconda guerra fece di peggio, dichiarando Lubiana e Spalato province italiane. Chi si opponeva alla snazionalizzazione veniva destinato dal generale Roatta ai campi di concentramento di Gonars in Friuli, di Arbe in Dalmazia, di Monigo a Treviso, dove migliaia di donn e, uomini e bambini sloveni e croati trovarono la morte per fame e stenti. Se ne parla a fatica solo ora. Quando si comincia a cercare risposta al dramma devastante e sanguinoso vissuto dalla Venezia-Giulia. A cominciare dagli abitanti di Zara, costretti a lasciare la città fin dal 1943, quando gli Alleati si accanirono in bombardamenti quotidiani. Interrogandosi sui perché di un esodo istriano e fiumano che ha sconvolto per sempre la geografia umana ed etnica di quelle bellissime terre miste. Gli italiani delle cittadine venete della penisola istriana, gli italiani di Pola martire, gli italiani dei villaggi dell’entroterra, costretti a fuggire nel terrore degli infoibamenti cominciati subito dopo l’8 settembre del 1943 e ripresi nel terribile maggio del ’45, anche a Trieste e Gorizia occupata dai comunisti di Tito. Ebbene, il Parlamento nazionale ha fatto una scelta responsabile nell’istituire il giorno della memoria per confermare il valore dell’identità italiana. La nazione ne ha il dovere, per la sua grande tradizione di civiltà, per i tesori di bellezza che le sue genti hanno creato nei secoli. Meditare, anno dopo anno, sulle verità rimosse e negate. In un esame di coscienza civile che chiami in causa, senza tabù, risorgimento, fascismo, resistenza e violenza sugli sconfitti. Epoche segnate da eventi grandi, da uomini generosi quanto da misfatti e sangue innocente sparso in nome di ideologie totalitarie. Il 10 febbraio è la data del trattato di pace imposto nel 1947 all’Italia sconfitta. Pola si svuota del 90 per cento dei suoi abitanti. L’esodo complessivo disperderà in Italia e oltre oceano trecentomila cittadini della Venezia-Giulia, che paga il conto per tutti gli italiani. Una somma esorbitante di costi umani. Che il sacrificio di tanti abbia almeno il senso, per la nuova Europa, di sollecitare all’onestà delle memorie, in una patria comune per tanti popoli diversi.

Avvenire 10 febbraio 2005