L’ombra di Tito su Porzûs

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INTERVISTA

«L’obiettivo degli sloveni era di occupare il Friuli fino al Tagliamento».


Lo scrittore Elio Bartolini (ex garibaldino comunista) ripubblica il suo primo romanzo sulla Resistenza, già rifiutato da Einaudi perché «poco ideologico»
«La strage fu decisa da slavi (forse con complici nazisti) per eliminare i cattolici. Che volevano salvare Trieste italiana affidandola alla X Mas»

«Tito voleva occupare le nostre terre, fino al Tagliamento. Io posso testimoniarlo». Elio Bartolini, 84 anni, narratore, saggista e poeta, sta per ridare alle stampe con l’editore Avagliano Il ghebo, che è stato il suo primo romanzo, scritto nell’inverno 1946-47. La pubblicazione fu rifiutata prima da Einaudi, poi da Longanesi e avvenne solo nel 1970 per l’editrice cattolica udinese La Nuova Base. L’autore racconta la sua Resistenza e quella dei friulani, tra cattolici e comunisti. «Troppo poco ideologico», fu definito all’epoca da chi doveva autorizzarne la stampa.

È lei Andrea, il giovane protagonista del romanzo?
«Sì. Mi era stato affidato il compito di organizzare la resistenza nella Bassa friulana, in particolare nella zona paludosa e impenetrabile, la meno raggiungibile. Dovevo tentare di costituire un comando unico tra le bande comuniste e quelle cattoliche. Il 7 febbraio 1945 accade l’eccidio di Porzûs e dovetti rinunciare».

Di che cosa si occupava?
«Ero il cosiddetto intellettuale e il mio compito consisteva nel pubblicare un giornalino ciclostilato. Allora la zona non era nemmeno bonificata. I tedeschi non s’arrischiavano a inoltrarsi, non conoscevano i sentieri buoni, avevano una diffidenza tremenda. Io mi spostavo da una formazione all’altra, nei casali tra Passariano e il mare. Mi rifugiavo nei granai a battere il giornalino, poi lo diffondevo. Ho avuto anche un paio di scontri a fuoco, uno importante in cui sono morti due miei poveri ragazzi. Collaboravamo con l’Intendenza di Montez. Era un operaio di Monfalcone, di grande intelligenza ed onestà, con l’incarico di procurare sigarette e soprattutto scarpe per i titini del IX Corpus».

Come visse la tragedia di Porzûs?
«Sono rimasto sconvolto. Se dopo mesi e mesi di lotta in comune, tra Garibaldini e Osovani; se dopo numerosi tentativi di costituire un comando unificato con la zona libera della Carnia e quelle intorno a Nimis, Faedis ed Attimis – i tre paesini poi bruciati dai tedeschi -, è accaduto Porzûs, vuol dire che era intervenuto qualcosa di davvero grave».

Che cosa, esattamente?
«Mi creda, a distanza di 60 anni ancora non lo so. È venuta fuori la spiegazione, se così possiamo definirla, di Vanni, commissario politico della Garibaldi-Natisone, la formazione che era andata a combattere col IX Corpus titino. Vanni riferisce che gli sloveni erano irritati dalla presenza di questi presidi, soprattutto quello di Porzûs, e li volevano eliminare. E pretendevano che fossero i Garibaldini della Natisone a farlo. Vanni dice di essersi rifiutato, per cui gli sloveni sarebbero ricorsi a “Giacca”, uomo coraggioso, però un fanatico spaventoso. Ha agito da solo? A mio avviso c’era la complicità di qualcuno».

Di chi?
«Dei tedeschi. Un centinaio di ragazzi avrebbero attraversato il medio Friuli, carichi di armi, e sarebbero saliti verso le malghe. Con la sorveglianza che c’era, questo fatto è impossibile al di fuori di una complicità».

Vi era chiaro, allora, il progetto di Tito di «farsi» il Friuli-Venezia Giulia, fino al Tagliamento?
«Posso testimoniare in prima persona che l’obiettivo degli sloveni era di arrivare al Tagliamento. Ricordo un pomeriggio in cui venne a trovarmi una delegazione di sloveni. Erano in 4, giovani, ben formati, sapevano il fatto loro. Pretendevano che almeno i comunisti, la parte garibaldina della Resistenza, riconoscesse il loro diritto ad occupare le nostre terre. Tirarono fuori un loro criterio di autodeterminazione dei popoli, dicendoci che era leninista. Si figuri. Io non avevo una cultura così marxista da poterci stare. Come potevo applicare questo passaggio di Lenin su un territorio che da secoli parlava friulano ed era cattolico?».

Lei – garibaldino – come considera l’apporto della resistenza cattolica?
«È stato un apporto importante, sia come coraggio, intraprendenza, lotta, e anche per il numero di morti. Da parte garibaldina si diceva che erano “partigiani di sacristia”, avendo loro le canoniche come punto di riferimento. Diciamolo pure: la Resistenza qui è stata molto difficile perché non si doveva essere solo contro i tedeschi e i fascisti, ma scegliere anche al proprio interno che cosa essere, se stare contro una parte della Resistenza o no. Ed ha dato luogo ad episodi come quello di Porzûs».

Lei ha aggiunto un capitolo alla precedente edizione del libro.
«Sì, il penultimo. Racconto di un incontro in una canonica dove un prete voleva discutere di Porzûs. Un prete filo-partigiani cattolici. Voleva capire e farmi intendere della gravità di quanto accaduto. Ma anche convincermi che era giusto, da parte nostra, lasciar passare la Decima Mas».

La Decima Mas?
«La quale intendeva andare ad occupare Trieste, perché aveva capito che i primi a farlo sarebbero stati i tedeschi e, quindi, la città sarebbe rimasta indifesa in mano agli jugoslavi. E la Decima Mas voleva evitarlo. C’erano stati abboccamenti anche con me perché li lasciassimo transitare. Loro, infatti, non riuscivano ad attraversare la zona paludosa, per non farsi vedere. Solo noi conoscevamo i sentieri. Loro volevano arrivare sotto Monfalcone e da lì avrebbero fatto il passaggio successivo a Trieste. Risposi, sia a loro che al prete, che non potevamo concedere una cosa del genere senza autorizzazione. La trattativa si arenò».

Francesco Dal Mas
Da Avvenire Online
del 15 gennaio 2006