La nuova teologia, l’inferno vuoto e… Fatima

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Nouvelle theologie

Senza il timore di Dio non si crede all’inferno, ma allora che senso ha l’incarnazione?

di Francesco Agnoli

Il sottoscritto, chiamato a redigere una rubrica d’argomento cattolico, non ha mai letto interamente la Bibbia, né alcun trattato teologico o morale di una qualche consistenza. Forse, se lo avesse fatto, scriverebbe una rubrica intitolata “progressismi”, o “rivoluzioni”. E’ un fatto che i teologi siano spesso tra coloro che più si allontanano dalla fede semplice e genuina che dovrebbe caratterizzare il cristiano. Nel cattolicesimo, infatti, mi ha sempre stupito questo: quanto sia semplice e alla portata di tutti, con i suoi esempi di vita incarnata e vissuta presenti nel Vangelo, e quanto possa nello stesso tempo portare a riflessioni profonde, a vette del pensiero inarrivabili. In ogni caso, non c’è fede sincera se non rimane anche nel teologo più raffinato un animo di fanciullo, pronto a lasciarsi modellare da parabole, storie, esperienze, non filosofie, di duemila anni fa. Così accade che spesso siano proprio i teologi, ritenendosi adulti, a fare scempio della fede. Ebbene, in tanti anni di nouvelle theologie mi sembra che il primo concetto che si è perso sia questo: “Initium sapientiae timor Dei”, il timore di Dio è l’inizio della sapienza. Fanno sorridere coloro che si affannano a spiegare che l’uomo ha iniziato a credere per paura del fulmine, dei terremoti, ecc., lasciando pensare che oggi, insomma, non sia più necessario. Io continuo ad avere paura del fulmine, nonostante Franklin. Nel senso che il parafulmine, e alcuni altri oggettucoli con cui l’uomo ritiene di dominare il mondo, non mi sembra abbiano risolto alcuni problemini, tra cui la morte. Detto questo, il timore di Dio non è soltanto l’inizio della sapienza divina, ma anche di quella umana. Nasce infatti da una realtà palese: non siamo Dio, ma creature limitate, relative, fragili. Se avessimo sempre presente questo concetto, forse, saremmo un po’ più simpatici: meno falsi, superbi, ipocriti, iracondi… Certo né Hitler, né Stalin avevano paura di Dio, né dell’inferno. Nel catechismo di San Pio X si parla del timore di Dio, sapientemente catalogato come “servilmente servile”, “servile” e “filiale”: di fronte a Dio, infatti, l’uomo è come un fanciullo, che ha dapprima bisogno di essere guidato, e che non fa il male solo perché tema di essere punito; poi imparerà il timore filiale, in cui la paura lascia il posto ad un amore premuroso. Qui è la differenza tra le religioni antiche della mera paura e quella del Dio che ha preso carne: che in quest’ultima l’uomo viene personalmente amato, per cui il suo timore sarà quello del buon figlio, che non vuole offendere il padre anzitutto perché lo ama. Ma il cammino della sapienza e dell’amore, passa appunto anche per il timore: timore dell’inferno, timore di perdere Dio. Non per nulla la pedagogia cristiana prevede i dieci comandamenti, sette dei quali iniziano col “non”, anche se è vero che poi tutti possono essere riassunti nei due comandamenti positivi dell’amore. Ma sempre occorre partire dalla constatazione dell’esistenza del peccato originale. Non si può dimenticare, quando si parla dell’amore, questo limite che ci portiamo addosso.
Dimenticare Fatima
La nuova teologia, invece, ha voluto eliminare il timore, come se l’uomo fosse creatura angelica, come se in lui non fosse vivo anche un sentimento luciferino di superbia e di orgoglio. Per questo qualcuno disse che l’inferno c’è ma è vuoto, assassinando così non soltanto il mistero della giustizia di Dio, ma anche quello della sua misericordia: se l’inferno è vuoto, e destinato a rimanerlo, la confessione, il tribunale della misericordia, non serve a nulla. Neppure l’incarnazione, in fondo, sarebbe necessaria… E’ chiaro che dalla nuova teologia esce un cristiano “adulto”, che non teme Dio, né l’inferno: non deve confessarsi, non sente la necessità di essere perdonato, risponde solo a se stesso. Ne derivano una serie di equivoci: il Concilio che si rifiuta di condannare il comunismo e altri errori della contemporaneità, come ha notato don Divo Barsotti; gli esorcismi propri del battesimo, che vengono in parte eliminati; le preghiere a san Michele Arcangelo, introdotte da Leone XIII, che cadono in disuso… Forse è proprio in questa mentalità che si nasconde anche la volontà di dimenticare, almeno in parte, il terzo segreto di Fatima, di cui ha ben dibattuto Antonio Socci. In una lettera al conte Enrico Galeazzi il cardinal Pacelli, futuro Pio XII, scriveva: “Io sono assillato dalle confidenze della Vergine alla piccola Lucia di Fatima. Questa ostinazione della buona Signora davanti al pericolo che minaccia la chiesa è un avvertimento divino contro il suicidio che rappresenterebbe l’alterazione della fede nella sua liturgia, nella sua teologia e nella sua anima…”. Anche Papa Luciani, come sappiamo, rimase atterrito dalle confidenze di suor Lucia, tanto da cambiare umore ed aspetto ogni volta che qualcuno accennava all’argomento. Perché allora Giovanni XXIII non rivelò il segreto, nel 1960, come la Madonna aveva chiesto? Il cardinal Silvio Oddi, già suo segretario, provò a rispondere, in una intervista del 1991: “Io che conoscevo benissimo Papa Giovanni, sono certo che il segreto non riguardava una bella cosa. Roncalli non voleva sentir parlare di disgrazie, di punizioni. Quindi ritengo contenga qualcosa che suona come proibizione, punizione o disastro… Mi permetto di avanzare una ipotesi: che il terzo segreto preannunciasse qualcosa di grave che la chiesa avrebbe fatto, naturalmente senza intenzione…”. Ma nell’atmosfera della nuova teologia, come si diceva, né timor di Dio, né punizioni, né inferno… (il che, sia detto tra parentesi, piacerebbe anche a me, se fosse vero).

Il Foglio 6 settembre 2007