La nuova Europa rischia di morire prima di nascere

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“Avanti così, l’Europa è finita”


Sbagliato dare la colpa agli astensionisti dell’Est: che senso ha votare un’Europa senza progetto? La crisi irakena ha nascosto le magagne intraeuropee. Parola del politologo Vittorio Emanuele Parsi

Professor Parsi, la percentuale dei votanti alle elezioni per il Parlamento europeo ha toccato il minimo storico, proprio in coincidenza del massimo allargamento dell’Unione Europea con l’ingresso di dieci nuovi paesi. Perché gli europei non amano più le istituzioni dell’Europa politica?
È davvero paradossale, più i poteri del Parlamento europeo aumentano da un trattato all’altro, più l’astensionismo cresce. Le istituzioni europee ormai producono il 60 per cento delle nuove leggi approvate in Europa, ma gli elettori non se ne curano. Perché? Io credo che i paesi dell’Est trovino poco interessante nominare qualche decina di loro rappresentanti in un parlamento di 723 deputati; e credo che il nucleo storico dell’Unione non senta più sua questa Europa allargata, che non si sa ancora cosa sarà, ma che certamente sarà molto diversa dalla vecchia Europa a 6 o a 15. La Ue sta vivendo una crisi d’identità che si riflette nel dato elettorale.
Però all’Est hanno votato pochissimo anche grossi paesi come la Polonia. E poi la ritrovata libertà non dovrebbe spingere alla partecipazione politica un tempo proibita?
L’Est è diventato libero nel 1989, ma è stato accolto in Europa solo 15 anni dopo: con la Spagna post-franchista si aspettarono solo sei anni. Nel frattempo questi paesi hanno sperimentato le croci e le delizie della democrazia: si sono fatti smaliziati, e non hanno tutta questa gratitudine per chi li ha fatti aspettare così tanto. Inoltre l’ultimo anno e mezzo di politica europea è stato contrassegnato dall’inesistenza dell’Europa: la crisi irakena ha dimostrato a cechi, polacchi, ecc. che l’Europa non c’è come soggetto politico e che ci sono paesi autorizzati a dare ceffoni ad altri: Francia e Germania.
A parte Spagna e Grecia, dove i nuovi governi sono entrati in carica da poco, negli altri paesi i governi in carica sono stati puniti più o meno severamente. Come mai?
Le elezioni europee eleggono un Parlamento dai poteri limitati, ma vengono anche percepite impropriamente dagli elettori come “elezioni di medio termine” utili a tastare il polso ai governi nazionali, dove il potere c’è tutto. Se andiamo a vedere la serie storica delle elezioni europee, vediamo che i governi in carica sono quasi sempre penalizzati. Il voto delle europee è anche un voto di sanzione ai governi nazionali, ed in tempi di vacche magre come questi difficilmente si premiano i governi. Tutti i governi hanno magagne per la difficoltà di riforme sociali, previdenziali, ecc. Più l’affluenza è bassa, più l’effetto sanzione si sente, perché vanno a votare soprattutto gli scontenti. A ciò si aggiunge la mancanza di chiarezza delle istituzioni europee e dei governi nazionali circa la natura del progetto dell’Europa allargata, la carenza di visione strategica che caratterizza il momento attuale.


Qual è la lezione che dovrebbero imparare le forze politiche, i governi e le istituzioni europee da quello che è avvenuto?
Che non si può andare avanti senza chiarire qual è l’obiettivo strategico dell’integrazione. Con il cosiddetto allargamento non abbiamo allargato l’Europa, ma abbiamo riunito la famiglia: era un atto politicamente necessario, storicamente dovuto, eticamente doveroso. Ma finora si è fatto poco perché la riunificazione sia un successo non solo simbolico: non abbiamo una Costituzione concordata, non abbiamo nessuna possibilità di far funzionare l’Unione a 25. La lezione è che l’Europa può morire d’inedia. Per far funzionare l’Unione a 25 bisogna fatalmente spostare più potere al centro, ma con istituzioni delegittimate da una così bassa partecipazione popolare, come si fa?
Ci sono le cooperazioni rafforzate.
Ma queste non sono soluzioni di progetto, sono soluzioni tampone. Danno un risultato a breve ma impediscono il successo a lungo termine. L’Europa a geometria variabile fa andare vacanti il processo, ma mano a mano che si ottengono risultati pratici in un campo, si indebolisce la capacità di costruire un’identità comune europea. Non si possono avere contemporaneamente l’Europa dei 12 della moneta, dei 7 della difesa comune, dei 10 di Schengen, ecc.: non chiamiamola più Europa. Il fatto stesso che il presidente della Commissione europea ritenga di correre per le elezioni nazionali del suo paese dopo essere stato ai vertici dell’Unione la dice lunga sui rapporti di forza fra istituzioni europee ed istituzioni nazionali. Prodi preferisce essere capo di governo di un paese di media importanza piuttosto che capo del governo europeo. è come se G.W. Bush gestisse la presidenza degli Stati Uniti con l’occhio rivolto al suo ritorno in Texas come governatore. Il problema non è Prodi, non è neanche il giudizio morale sulla vicenda, è la fotografia dei rapporti di potere in Europa che ne emerge.
Ma questo non è inevitabile, dal momento che in Europa la politica resta soprattutto nazionale, anche dopo mezzo secolo di integrazione europea? C’è una diversità di partenza quanto a varietà di lingue, culture, tradizioni politiche delle nazioni europee, rispetto agli stati degli Usa, che sono molto più omogenei.
Allora smettiamola di raccontarci che stiamo costruendo un soggetto politico unitario. Firmiamo la proposta britannica, che concepisce l’Europa come un grande mercato integrato. Non parliamo più di identità europea, di Europa global player, di rapporti Usa-Europa: torniamo alla vecchia Europa dei paesi di serie A e di serie B. Quel che non si può fare è saltare da un registro all’altro.
Dunque si può sostenere che una delle cause più importanti dell’assenteismo elettorale è la mancanza di chiarezza fra le due ipotesi, quella del soggetto politico e quella del mercato integrato?
Con la precisazione che mentre noi contempliamo le due ipotesi le opportunità storiche svaniscono, il tempo lavora contro l’Europa. La politica va avanti. La crisi irakena è stata anche un enorme schermo che ha permesso di mascherare dietro il dissenso “europeo” con gli Stati Uniti la gravissima crisi tutta europea rappresentata dalla mancata approvazione della Costituzione. Adesso che la crisi irakena si sta risolvendo, la crisi europea intorno alla Costituzione torna in primo piano. Se non la si risolve, rischiamo di spaccare definitivamente l’Europa. Bisogna capire la gravità della crisi e trovare l’energia per fare un passo in avanti deciso verso l’integrazione, perché non si può stare a metà del guado. Tornando indietro è più quello che perdiamo di quello che guadagnamo.
Si può immaginare che i britannici bocceranno la Costituzione europea nel loro referendum.
Il problema non è solo il Regno Unito. Rischiamo che la Costituzione venga bocciata dalla maggioranza dei paesi membri. D’altra parte a mettere in crisi il processo sono stati due paesi “europeisti” come Spagna e Polonia, non l’Inghilterra.
Come se ne esce?
Se ne esce con uno scatto di volontà politica, per cui uso la dimensione nazionale per costruire l’Europa e non uso la dimensione europea per costruire un successo, una carriera nazionale. è responsabilità delle élite politiche nazionali ed europee spiegare questa idea. Purtroppo negli ultimi quattro anni la Commissione non ha lavorato efficacemente in questa direzione. Non si può criminalizzare l’elettorato dei paesi dell’Est perché non hanno votato: per cosa dovevano votare, qual era la proposta sul piatto? Per sentirsi dire, con l’avallo di Bruxelles, che erano gli ultimi arrivati e dovevano allinearsi quando Parigi e Berlino avevano deciso qualcosa? La vecchia Europa non c’è più: l’abbiamo deciso tutti insieme, ed è stato giusto, ma adesso bisogna spiegare cos’è la nuova Europa che vogliamo costruire. Altrimenti muore prima di nascere.


di Casadei Rodolfo – Tempi – Numero: 25 – 17 Giugno 2004