Presentata in Vaticano la prima enciclica di Benedetto XVI

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«Deus caritas est»
Preoccupato della situazione della fede Benedetto XVI ha deciso di andare alle radici con la sua prima enciclica che punta dritto su Dio stesso, sulla Sua realtà e, di conseguenza, sull’immagine dell’uomo…


1) Il Papa: «Il marxismo filosofia disumana» di Andrea Tornielli
2) Il manifesto del Papa: la politica a Cesare di Vittorio Messori

1)


Il Papa: «Il marxismo filosofia disumana»
Benedetto XVI sottolinea nella sua enciclica che «la Chiesa non fa politica.
La carità cristiana è indipendente da partiti e ideologie»


Il cristianesimo non ha distrutto l’eros, non è contro la corporeità, ma è per l’amore vero nel quale «corpo e anima si ritrovano in perfetta armonia». Dio è amore ed è per questo che la carità è un elemento che appartiene all’essenza stessa del cristianesimo.
La Chiesa non fa politica, non pretende di interferire nei compiti dello Stato e anche «l’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti e ideologie». Ma la Chiesa «non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia». C’è teologia, filosofia ma anche dottrina sociale e politica nella prima enciclica di Benedetto XVI, «Deus caritas est», presentata ieri mattina in Vaticano. Un testo atteso, che si divide in due parti: la prima, più speculativa, è una dissertazione sull’amore. La seconda, più calata nel concreto, spiega come si attua la carità cristiana e come si colloca nel contesto sociale e politico. Ratzinger – e questo è inusuale in un’enciclica – procede rispondendo alle più diverse obiezioni che vengono mosse al cristianesimo. «In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza», parlare dell’amore di Dio, scrive il Papa, «è un messaggio di grande attualità».
Elogio dell’amore
Dopo aver notato che la parola «amore» è oggi una delle più abusate, il Papa ricorda come al concetto di «eros» dei greci, vale a dire l’amore come desiderio ed ebbrezza, il cristianesimo abbia sostituito l’«agape», cioè l’amore come dono di sé. «Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche – scrive Ratzinger – avrebbe dato da bere del veleno all’eros… La Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita?». Il Papa spiega che non è così. Il cristianesimo non è contro l’eros, è contro lo «stravolgimento distruttore» dell’eros, trasformato in abuso. Oggi «l’eros degradato a puro sesso diventa merce, una semplice “cosa” che si può comprare e vendere, anzi l’uomo stesso diventa merce». La fede cristiana, invece, ha sempre considerato l’uomo come essere nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda. L’agape, l’amore cristiano che si dona, non significa affatto un rifiuto dell’eros e della corporeità. Attraverso la maturazione e la purificazione l’amore «diventa veramente scoperta dell’altro», diventa sì «estasi», ma «non nel senso di un momento di ebbrezza passeggera»: l’io, donando se stesso, protendendosi verso l’altro e cercando la felicità dell’altro, si ritrova e trova Dio. Eros e agape, desiderio e offerta di sé «esigono di non essere mai separati completamente». In Gesù, «l’amore incarnato di Dio», e nella sua morte in croce, l’eros-agape raggiunge la sua forma «più radicale» e «partecipando all’eucarestia anche noi veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione».
Carità e obiezione marxista
Nella seconda parte dell’enciclica, il Papa scrive che la carità «per la Chiesa non è una specie di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza». Benedetto XVI riporta poi la grande obiezione marxista, secondo la quale i poveri «non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia». Per il marxismo, che si è rivelato una «filosofia disumana», le opere di carità contribuirebbero «al mantenimento delle condizioni esistenti» di ingiustizia. Il Papa riconosce che «i rappresentanti della Chiesa» hanno percepito «solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo», quando nell’Ottocento è nata la società industriale. Ma ricorda poi il magistero sociale dei Papi, a partire da Leone XIII e fa osservare come la dottrina marxista, che prometteva la realizzazione di un «mondo migliore» attraverso la collettivizzazione, in realtà sia fallita: «Questo sogno è svanito». Mentre non è svanita, nella situazione difficile del mondo globalizzato di oggi, la dottrina sociale della Chiesa, che è anzi diventata «un’indicazione fondamentale».
La Chiesa non fa politica
Benedetto XVI ricorda quindi che il «giusto ordine della società» è compito della politica, e ricorda, citando Sant’Agostino, che «uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri». Va dunque riconosciuta l’autonomia delle realtà temporali, e la dottrina sociale «non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato» né imporre «a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa». Nessuna nostalgia per lo Stato confessionale: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile», «non può e non deve mettersi al posto dello Stato». Questo non significa «restare ai margini nella lotta per la giustizia» bensì «risvegliare le forze spirituali» che la facciano affermare.
I limiti dello Stato
Un altro passaggio significativo è dedicato al tema della sussidiarietà: il Papa spiega che anche nella società più giusta ci sarò sempre bisogno di carità. «Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente ha bisogno». Lo Stato deve dunque sostenere e riconoscere le iniziative caritative, le quali devono essere indipendenti «da partiti ed ideologie». L’attività caritativa «non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico, ma è l’attualizzazione qui ed ora dell’amore di cui l’uomo ha sempre bisogno». Spetta invece ai fedeli laici «il compito immediato di operare per un giusto ordine della società» partecipando «in prima persona alla vita pubblica».
No all’attivismo
Il Papa, infine, dopo aver tracciato una sorta di identikit del volontario e dopo aver ringraziato chi si dedica agli altri, mette in guardia dal rischio dell’attivismo che può far perdere il senso dell’azione caritativa e il suo rapporto con l’origine che è l’amore di Dio. «La competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta… Gli esseri umani hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore». Per tre volte, nell’enciclica, è citata Madre Teresa di Calcutta, come «un esempio molto evidente del fatto che il tempo dedicato a Dio nella preghiera non solo non nuoce all’efficacia ed all’operosità dell’amore verso il prossimo, ma ne è in realtà l’inesauribile sorgente».


di Andrea Tornielli
Il Giornale 26 gennaio 2006



2)


Il manifesto del Papa: la politica a Cesare
L’Enciclica sull’amore


Giunto al pontificato alla soglia degli 80 anni e al vertice sia dell’approfondimento teologico che dell’esperienza ecclesiale, Joseph Ratzinger sembra deciso a non perdere tempo in questioni secondarie nella prospettiva globale della fede
Fautore della sobrietà, ha già sfrondato la sua agenda da impegni non indispensabili – viaggi, liturgie, incontri – e non intende neppure mantenere il ritmo di produzione dottrinale del pur amato predecessore. Preoccupato, poi, della situazione della fede (è l’indebolirsi di questa, secondo la sua diagnosi, che ha provocato la crisi della Chiesa), ha deciso di andare alle radici con la sua prima enciclica che, probabilmente, resterà a lungo l’unica. Così, ha scelto il cuore del cristianesimo, ha puntato dritto su Dio stesso, sulla Sua realtà e, di conseguenza, sull’immagine dell’uomo che ne deriva. La sua «lettera circolare» (questo il significato di enciclica) ai pastori della Chiesa, primi destinatari di simili documenti, focalizza l’attenzione su tre brevi parole di Giovanni che sono il marchio distintivo del cristianesimo e lo differenziano radicalmente da ogni altra religione. «Dio è amore»; con la conseguenza che ne trae l’apostolo: «Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui».
Dunque, un ricominciare da capo, dai fondamenti del credere. Scoprendo poi – ma solo dopo che la scelta era stata compiuta – che il tema è di drammatica attualità visto che ci tocca vivere «in un mondo in cui al nome di Dio viene collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza». Riferimento esplicito al fondamentalismo islamico; ma, forse, non solo.
Il testo è breve, rispetto alla media delle encicliche di Giovanni Paolo II: ancora una volta, la scelta ratzingeriana della sobrietà. Le non moltissime pagine, peraltro, sono di una densità che provocherà commenti corposi da parte degli esperti. Qui, dobbiamo limitarci ad indicare una chiave di lettura, una sorta di piccola «istruzione per l’uso» del documento. Soprattutto nella prima parte – la più dottrinale, quella volta a chiarire che si intenda per «amore» – al lettore avveduto appare evidente che l’estensore probabilmente unico è stato Benedetto XVI in persona. Precisazione che non deve stupire: di solito, per questi documenti, il Papa dà schemi e indicazioni e procede all’ultima stesura, mentre la struttura è redatta da un gruppo di collaboratori. Stavolta, non sembra il caso: tutto sembra redatto sul suo scrittoio. In questa serietà diligente, Joseph Ratzinger ha confermato la sua natura «tedesca». Mentre tutto il testo mostra sino a che punto la sua prospettiva di fede (istintiva e poi approfondita a Roma) sia «latina». Nel senso, almeno, di «cattolica», nel senso più pieno.
Va infatti ricordato che la legge che presiede al cattolicesimo è quella che qualcuno ha chiamato «dell’et-et». La compositio oppositorum , il «sia questo che quello», «l’uno e l’altro», la sintesi e l’equilibrio tra gli estremi, sulla scorta di Gesù stesso, uomo e Dio al contempo, venuto «per completare, non per distruggere». E sulla scorta della croce stessa: et-et per eccellenza, composta com’è da un braccio verticale e uno orizzontale. A questa visione globale, che a nulla intende rinunciare («Sono cattolico perché voglio tutto», mi disse una volta Jean Guitton), il protestantesimo oppone il suo «aut-aut», richiede la scelta, il rifiuto, la condanna di molti aspetti della realtà.
Ebbene, già ad una prima analisi, questa prima enciclica del papa tedesco mostra sino a che punto sia operante la prospettiva della compositio cattolica. Una unione degli opposti che sembra contrassegnare lo stile stesso, che coniuga la consapevolezza pontificale a un tono quasi familiare, a espressioni talvolta quotidiane. Quanto ai contenuti, si sgrana la serie degli et-et: l’amore cristiano come sintesi dell’umano eros e della divina agape , dell’istinto carnale e dello slancio spirituale, in accordo del resto con la natura dell’uomo, sintesi inestricabile di corpo ed anima; un amore che si rivolge al contempo a una singola persona e all’umanità intera; che deve doverosamente dare e che, altrettanto doverosamente, vuole ricevere; che unisce mistica e prassi, utopia e realismo, culto ed etica, sentimento e volontà.
L’amore, poi, che si fa carità militante, a sollievo del prossimo (è il tema della seconda parte), deve unire preghiera e azione, spontaneità e organizzazione, annuncio di fede e servizio silenzioso, dono del pane materiale e del pane spirituale. Uno sforzo continuo per una sintesi difficile, sempre precaria, eppure per questo feconda, una tensione verso la completezza, una ricerca del «centro», dove gli estremi, unendosi, perdono la loro pericolosa unilateralità e divengono benefici. Nessun aut-aut, dunque ma un continuo «sia questo che quello», e dove un’attenzione particolare è rivolta alla necessità di unire giustizia e carità. Alla illusione («ormai svanita», ricorda il Papa) di marxisti e soci che, per soccorrere l’uomo, occorresse battersi per la giustizia sociale, combattendo al contempo la «alienazione» della carità, Benedetto XVI dedica parole che ci sembrano tra le più toccanti e vere. Sono le sole che lo spazio ci permetta di riportare ma che danno idea della sapienza, non disgiunta da emozione, che pervade il testo: «L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa renderlo superfluo. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine (…). Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica, che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale».
Secondo una certa ossessione attuale, molti commentatori si eserciteranno soprattutto sui paragrafi che il papa dedica alla politica: espressione di amore essa pure, se ben intesa e praticata; ma che, ripete con decisione Benedetto XVI, non compete alla Chiesa in quanto tale. Qui pure, campeggia un et-et fondamentale: Dio e Cesare. La società ha bisogno di entrambi, nessuna contrapposizione tra loro, ma distinzione dei ruoli e delle vocazioni. Non vi è traccia di nostalgie per una christianitas dove Sacro e Profano si intreccino, c’è solo un’umile, discreta eppur convinta riproposta della dottrina sociale cattolica, che ha mostrato la sua sapienza davanti ai disastri delle ideologie politiche. Ma è cura del papa ripetere che, se la Chiesa propone la sua dottrina, è perché essa si basa «sulla ragione e sul diritto naturale»; su elementi, dunque, «conformi alla natura di ogni essere umano», quale che sia la sua fede o la sua incredulità.
Una enciclica, dunque, nel segno dell’equilibrio, del «centro», della saggezza, dell’esperienza, della ricerca di ciò che è davvero fonte di pace, di gioia, di bene, di speranza. Se ci è permesso, con oggettività e senza alcuna tentazione apologetica: c’è, qui, una visione organica sull’uomo e sulla società che può convincere o meno, ma che non si riesce a scorgere da nessun’altra parte, tra orfani di ideologie crollate o adepti di religioni radicalizzate.


di Vittorio Messori
Il Corriere della Sera 26 gennaio 2006