Un monito per i nostri tempi
Il volto nascosto della Prima Guerra Mondiale
Le radici culturali della Grande Guerra sono il male di vivere e l’odio per la vita, mescolati all’ottimismo. La guerra si presenta a molti come una via d’uscita. In più, c’è la possibilità di far sparire per sempre l’ultimo impero cattolico. E questa meta fa gola a molti…
di Francesco Agnoli
L’alba del Novecento promette guerra, annuncia subito un clima di morte: non solo per motivi politici, geopolitici, economici, ma per molto altro ancora. Ci sono i nazionalismi, gli imperialismi che si scontrano, nel cuore dell’Europa, per il controllo dell’Africa, dei mari e dei primati economici. Ma soprattutto ci sono popoli stanchi, annoiati, divorati dal “male di vivere”, pronti, spiritualmente prima che fisicamente, alla catastrofe. Solo la storiografia materialista può ignorare che prima di una guerra, prima di uno scontro che incendierà il mondo, che partorirà dal suo seno i totalitarismi, vi e qualcosa di profondo, qualcosa che affonda le sue radici nello spirito, nell’atmosfera culturale e religiosa di un’epoca. E il Novecento è l’età del positivismo darwiniano, che esalta la selezione del più forte, la lotta per la vita, il progresso, l’azione per l’azione, svincolata da ogni valutazione morale; l’epoca in cui la fede in Dio ha lasciato il posto alla fede nell’uomo, nella nazione, nella politica di potenza.
In molti si aspettano che l’uomo sia ormai maturo per divenire Dio, per sostituire l’antica lampada ad olio della fede con la lampadina elettrica del progresso, la croce col dominio, il servizio col potere. In tanti, allo stesso tempo, mescolano questo ottimismo, questa cieca fiducia infondata, destinata ad affondare col Titanic e la guerra, al pessimismo più nero, all’odio per la vita, ad un profondo sentimento di morte, naturale frutto di una mentalità individualista e antireligiosa. Nasce così una generazione di uomini combattuti tra speranze umane, troppo umane, di riscatto e di paradisi terreni, e scoramenti profondi, disperazioni travolgenti. Sono uomini come Thomas Mann, autori di libri intrisi di pessimismo e di odio gnostico per la vita, pronti, contemporaneamente, ad esultare con una gioia dissennata di fronte allo scoppio della guerra: «Da troppo tempo eravamo già una grande potenza: ci eravamo avvezzi e non ne traevamo l’attesa felicità […]. Guerra dunque, e se occorreva contro tutti, per convincere tutti, per conquistare tutti […] per questo partimmo con entusiasmo, compresi della certezza che l’ora secolare fosse giunta per la Germania…” (T. Mann, Doctor Faust, Mondadori, 1975). L’«ora secolare»: cioè un nuovo messianismo, quello nazionalista, accanto a quello marxista.
In Italia, mentre i poeti crepuscolari denunciano la loro «malattia», la loro stanchezza di vivere e celebrano il funerale della poesia tradizionale, dicendo al lettore che non hanno più nulla da dire, che la loro parola è ormai muta, D’Annunzio e i futuristi esaltano la società del futuro, le macchine e gli aerei, il fuoco e la guerra, in un delirio fanatico che assume i contorni di una strana religiosità invertita, che utilizza anche, nel caso dei futuristi, un nuovo linguaggio, anarchico, disordinato, illogico. L’odio prende il posto della misericordia, la lotta all’esterno il posto del cammino interiore, il culto del superuomo il posto della saggezza cristiana, del senso del peccato e del limite. Umberto Saba, che ben conosce la nuova filosofia psicoanalitica, anch’essa intrisa di perversione e di tanatofilia [culto per la morte], scrive senza ambagi, nelle sue Scorciatoie, che le guerre non scoppiano solo per cause economiche, ma «sono in gran parte, almeno oggi, pretesti offerti all’istinto di morte». E Italo Svevo, anch’egli educato all’idea dell’uomo istintivo, dell’inconscio irrazionale freudiano, fa «guarire» il protagonista di un suo romanzo, Zeno Cosini, proprio in coincidenza con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ed arriva ad augurarsi che la Terra possa venir un giorno distrutta da una bomba terribile, per errare «nei cieli priva di parassiti e di malattie», cioè di uomini.
Così sedicenti superuomini, in cerca della loro divinità non realizzata, e mezzi uomini, delusi dalla modernità e avvolti da un malsano desiderio di morire, si avviano come tanti automi verso un evento che li schiaccerà, e di cui non comprendono interamente la portata. Lo spiegherà molto bene Giuseppe Ungaretti, volontario al fronte, quando riconoscerà di essere partito con un’utopia anarchica nel cuore: distruggere con la guerra tutte le guerre, per aprire, nel sangue, un’era nuova. Di questa «era nuova» hanno bisogno soprattutto i giovani inglesi e tedeschi, che partono in massa, volontari, per la guerra, celebrandone lo scoppio, ancora nel 1914, con canti, processioni, manifestazioni incredibili di giubilo e di entusiasmo collettivo. Perché questa gioia, così incomprensibile e irrefrenabile? Perché proprio in queste due nazioni, le più industrializzate, le più scristianizzate d’Europa? Evidentemente perché la guerra si presenta a molti di loro come una via d’uscita, una fuga dal mondo in cui vivono, dal materialismo soffocante in cui sono cresciuti, dal moralismo borghese, verso un ignoto che può solo essere migliore e più nobile del noto. Evidentemente perché per giovani che non hanno alcun idea della Fede, l’unica possibilità di riscatto può sussistere unicamente in una grande avventura, capace di scaldare il loro cuore e di scardinare violentemente il tedio esistenziale. Si capisce molto studiando una figura importante di quegli anni, il ministro per la marina britannica Winston Churchill. All’alba della guerra scrive alla moglie: «Tutto tende verso la catastrofe e la rovina. Sono interessato, in piena azione e felice. Non è terribile essere fatto così? I preparativi hanno per me un fascino orrido […] andiamo tutti alla deriva in una sorta di ottusa ipnosi catalettica, quasi che fosse opera di qualcun altro». E Lloyd George, che si trova a Downing Street al momento dello scoppio della guerra, racconterà in seguito: «Winston si precipitò nella sala raggiante, con il volto illuminato e un aspetto entusiasta […]. Si vedeva che era un uomo davvero felice».
Non c’è un’Europa veramente decisa a scongiurare il conflitto, dunque, nel 1914, ma un mondo disorientato, fanaticamente proiettato verso destini terreni, o terribilmente prostrato, da tanta decadenza di valori e di ideali. Quella decadenza che aveva fatto scrivere a Verlaine, molti anni prima: «Tutto è mangiato, tutto è bevuto, nulla più da dire». Per alcuni, insomma, la guerra è la speranza di dire ancora qualcosa, di sentirsi vivi, magari di immaginare uno scontro tra Bene e Male che li faccia finalmente sentire uomini. E il potere comprende questi desideri, trasformando la guerra laica e industrializzata in una «guerra di religione»: il governo tedesco lanciando i suoi strali contro la perfida Albione, padrona dei mari e del mondo, e quello inglese e americano descrivendo i tedeschi come assetati di sangue, «pidocchi» coll’elmetto, nemici della civiltà e del bene. Utilizzano termini sacri, religiosi, Bene e Male, coloro che al bene e al male non credono più.
Tra gli incendiari non possiamo dimenticare quanti vedono nella guerra la possibilità di far sparire per sempre l’ultimo Impero cattolico, l’ultimo segno concreto di una possibile fratellanza tra popoli basata sulla Fede, non sugli idoli pagani del «sangue e del suolo»: l’Impero Austro-ungarico di Francesco Giuseppe e di Carlo I. È significativo al riguardo il pensiero del socialista massimalista Benito Mussolini, allorché nei suoi discorsi interventisti si scaglia contro un imperatore che segue a capo scoperto la processione del Corpus Domini, e lo accusa di essere «ostinato negatore» dei principi della Rivoluzione Francese. Ugualmente interessante il trattato segreto di Londra, in cui l’Inghilterra chiede esplicitamente al governo italiano di escludere la Santa Sede, che lotta per scongiurare il conflitto, da qualsiasi azione diplomatica. L’impero Austro-ungarico, ci racconta François Fejto nel suo Requiem per un impero defunto, dedicato «alla memoria di miopadre che fu liberale, massone e leale cittadino della monarchia austro-ungarica», viene ucciso anche da un complotto massonico, che vuole «repubblicanizzare e decattolicizzare l’Europa». Scrive Fejto: «Fu a ragione che Bardoux scriverà, in Le Temps del 30 aprile 1938, che il “protestantesimo e la massoneria si erano alleati per distruggere l’Austria, considerata allora, in questi ambienti, come la cittadella dello spirito clericale e retrogrado”». E prosegue affermando che «è innegabile che il fatto di demolire l’Austria corrispondeva alle idee dei massoni, in Francia e negli Stati Uniti, e che essi erano quasi senza riserve a favore del suo smantellamento». Solo così si può giustificare la sorda ostilità verso l’imperatore cattolico Carlo, ostacolato da austrofobi, pangermanisti, massoni ed anticattolici di ogni risma, nel suo tentativo di concludere anzitempo la guerra e riportare la pace. Quel Carlo, bisogna ricordarlo, che in nome di una moralità, anche nella guerra, si oppone all’idea tedesca di usare i sommergibili per bombardare Venezia, e che «pone limiti alla guerra aerea e all’uso delle bombe incendiarie», in nome del rispetto dei civili. Ma l’Austria morirà, e sulle sue ceneri nascerà una nuova Europa: peggiore di prima, costruita, in tanti casi, come quello della Cecoslovacchia e della Jugoslavia, a tavolino, sulla pelle dei popoli, con l’unico risultato di favorire, solo pochi anni dopo, lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale. «Nel nostro XX secolo, ha scritto David Bereznak, ci massacriamo reciprocamente per servire dei miti»: il mito repubblicano, quello anticattolico, quello nazionalista e quello marxista.
L’Imperatore Carlo sulla via dell’esilio
«Carlo è però un cristiano “senza se e senza ma”: sa che chi governa le sorti dell’uomo è la Provvidenza, che anche le più grandi e più belle costruzioni dell’uomo sono figlie del tempo e nel tempo sorgono e periscono, è consapevole che l’autorità del principe cristiano è servizio. Per questo i re devono anche soffrire, consapevoli che da ogni male temporale Dio è capace di trarre un bene superiore. Sa che la dinastia, di cui egli è l’ultimo rappresentante sovrano, ha dato il suo sangue e il sangue dei suoi soldati per difendere la cristianità. Ma sa pure che essa è carica di responsabilità storiche non lievi: ha duramente limitato – certo meno di altri regimi, ma non meno oggettivamente -almeno in una fase della sua storia, i diritti della Chiesa, ha fatto soffrire più di un pontefice, ha reso più difficile l’evangelizzazione dei popoli dell’impero. E sa che a qualcuno dei sovrani può essere chiesto dalla Provvidenza di scontare anche in questa vita il debito contralto dai suoi predecessori, per il bene proprio e dei sudditi».
(Oscar Sanguinetti e Ivo Musajo Somma, Un cuore per la nuova Europa. Appunti per una biografia del beato Carlo d’Asburgo, D’Ettoris editori, 2004, p. 87).
RICORDA
«Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta».
(Charles Darwin, The Descent of man, and selection in relation to sex, ed. 2, New York 1886, p. 618).
Bibliografia
Andrea Granelli -Andrea Tornielli, Papi, guerre e terrorismo, Sugarco, 2006.
François Fejto, Requiem per un impero defunto, Mondadori, 1991.
Elena Bianchini, Carlo I d’Austria, Tabula Fati, 2005.
Francesco Agnoli, Conoscere il Novecento. La storia e le idee, Il Cerchio, 2005.
IL TIMONE, anno IX – Luglio-Agosto 2007