Mozioni gay, come la Corte di Strasburgo ha cambiato idea
La condanna inflitta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo alla Francia, colpevole di aver rifiutato a un’insegnante lesbica la possibilità di adottare un bambino, pesa molto più di quanto diecimila euro di ammenda possano far pensare…
Roma. La condanna inflitta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo alla Francia, colpevole di aver rifiutato a un’insegnante lesbica la possibilità di adottare un bambino, pesa molto più di quanto diecimila euro di ammenda possano far pensare. E’ un importante precedente che segna un drastico cambio di rotta da parte della Corte.
La quale, non più tardi del 2002, in un caso simile, aveva optato per la decisione opposta. Sei anni fa, i giudici di Strasburgo riconoscevano come la comunità scientifica fosse “divisa sulle eventuali conseguenze dell’accoglimento di un bambino da parte di un genitore o di genitori omosessuali, tenuto conto, in particolare, del numero limitato di studi scientifici disponibili”, e che “profonde divergenze” sul tema animavano l’opinione pubblica nazionale e internazionale. Ma quando, martedì scorso, il rappresentante dello stato francese ha avanzato gli stessi argomenti, la Corte li ha ritenuti insufficienti, e con dieci voti contro sette ha dato ragione a Emmanuelle B., insegnante quarantacinquenne di scuola materna nel Jura, dal 1990 convivente di una psicologa. Contro di lei, secondo la Corte, si è consumata una discriminazione legata ai suoi “orientamenti sessuali, che non hanno mai smesso di essere al centro del dibattito che la riguardava”, tanto che “l’influenza della sua omosessualità dichiarata sulla valutazione della sua domanda (…) ha rivestito un carattere decisivo, conducendo alla decisione di rifiutarle l’idoneità ad adottare”.
I fatti. Nel 1998, la donna aveva chiesto di poter adottare un bimbo, così come la legge francese consente dal 1966 anche a persone sole. Emmanuelle B, che non ha mai nascosto ai servizi sociali né la propria omosessualità né il legame stabile con una donna, ricevette all’epoca due risposte negative, motivate dalla mancanza di “punti di riferimento paterni” e dall’ambiguità della posizione della sua compagna rispetto alla procedura di adozione. Dopo una serie di vicissitudini giudiziarie che hanno via via investito la Corte amministrativa d’appello, la Cassazione e il Consiglio di stato, quest’ultimo stabilì che il mancato riconoscimento dell’idoneità all’adozione nel caso di Emmanuelle B. non era fondato sulle scelte di vita della donna, che non si configurava nessuna violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita private e familiare) e 14 (proibizione di ogni discriminazione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che non erano in discussione gli orientamenti sessuali dell’interessata, ma i bisogni e l’interesse di un bambino adottato. Conclusione contestata da Emmanuelle B., che ha deciso di ricorrere alla Corte europea, perché il criterio di “assenza di referenti paterni” finiva di fatto per rimettere in questione il diritto di una donna nubile ad adottare, a meno che non si volesse discriminare tra omosessuali ed eterosessuali. C’è da notare che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo accetta “differenze di trattamento” tra gli individui, purché siano “obiettive e ragionevoli”. Lo erano nel 2002, non lo sono più oggi, e questo giudizio, sottolinea il quotidiano cattolico La Croix, “si imporrà da ora in poi al giudice amministrativo francese”. Non sarà più possibile opporre a un omosessuale “l’assenza di referenti paterni (o materni)” per giustificare un rifiuto all’adozione. E se c’è chi minimizza, come il giurista Jaen Hauser, esperto di diritto di famiglia, secondo il quale “siamo di fronte all’adozione da parte di una persona sola, non si tratta in nessun caso di riconoscimento dell’omoparentalità, vale a dire di adozione da parte di una coppia omosessuale”, a smentirlo è la stessa Emmanuelle B., che in un messaggio trasmesso all’Associazione dei genitori gay e lesbiche dice di provare “profonda gioia per le coppie omosessuali, che in Francia, oggi, non hanno gli stessi diritti delle altre e sono considerate composte da cittadini di seconda categoria”.
Il Foglio 24 gennaio 2008