Il divo Giulio. Prima li condanna, poi li salva


IL SOLITO ANDREOTTI,
DICE “NO” MA POI SALVA LA BARACCA

Otto giorni fa Andreotti ha fatto perdere il governo, bacchettandolo sui DICO. Ieri
ha attaccato ancora sulle coppie di fatto. Ma alla fine si è astenuto, aiutando Prodi. Andreotti ha abbandonato l’aula perché la sua astensione avrebbe complicato la vita del governo e così gli ha fatto un regalino insperato, preferendo una soluzione alla democristiana…


I «valzer politici» ai quali ci hanno abituato i vari Andreotti, Scalfaro, Cossiga, Prodi, Marini, Mastella, Bindi, Binetti, Castagnetti, Lusetti, Follini, Casini & C.  suscitano nell’uomo della strada (e non solo) seri interrogativi sulla qualità dell’impegno politico di coloro che si dicono di Cristo… Interrogativi che ovviamente interpellano in primis i Pastori della Chiesa.

Se uno nasce, e vive, da democristiano, non può che continuare ad esserlo. Fino in fondo. La scuola di De Gasperi, Dossetti, Fanfani, Moro non può essere cancellata con un colpo di spugna. O nello spazio di una semplice seduta parlamentare. Giulio Andreotti di quella scuola si è nutrito, ci ha vissuto, l’ha arricchita laddove era carente, l’ha completata dove era mancante, l’ha resa prassi dove era solo teoria. In Andreotti poi tutto si è sublimato con la sua abitudine al potere e a mantenerlo, che gli ha consentito di essere per sette volte capo del governo e decine di altre ministro. Così ieri il divo Giulio ha confermato ancora una volta se stesso nel segno di quarant’anni di storia democristiana: ha scontentato il governo non votando la fiducia a Romano Prodi, ma non ha nemmeno accontentato le opposizioni decidendo di abbandonare l’aula al momento del voto, facendo così abbassare il quorum necessario al Professore per incassare la vittoria.
LA FESTA CONTINUA…



RIFLETTORI PUNTATI
Una decisione di cui pochissimi erano a conoscenza. Almeno a vedere le facce in aula dei senatori di Forza Italia quando Andreotti nel suo intervento ha annunciato le sue intenzioni: sbigottiti. Mentre tra i banchi della maggioranza si è tirato un lungo, intenso, sospiro di sollievo. Il protagonista della giornata, infatti, è stato, ancora una volta, lui. L’ultima volta era stata quella torrida notte di aprile quando Andreotti si disputò sul filo del rasoio il posto di presidente del Senato con Franco Marini. Un duello rusticano vinto per un soffio dall’ex sindacalista. Ma da cui il divo Giulio era uscito, comunque, vincitore. Dopo la sua astensione una settimana fa, infatti, in pochi a sinistra nutrivano la speranza di riconquistarlo. E infatti sui giornali i termometri dei conteggi assegnavano Andreotti come sicuro astenuto e come voto contrario al governo. Solo dopo l’accordo sui dodici punti programmatici voluto da Prodi su Andreotti si era cominciata a nutrire qualche speranza. Nulla di ufficiale, ma il divo Giulio faceva trapelare soddisfazione per il fatto che nulla si diceva sui Dico e qualcosa, invece, si diceva sulla famiglia. Il presidente della Repubblica, però, aveva chiesto al premier una maggioranza politica, senza i senatori a vita. Quindi le attenzioni di Fassino & C. si spostavano sul recupero dei dissidenti e sui senatori eletti all’estero. La novità un paio di giorni fa. «Voterò la fiducia a Prodi. Sono sempre stato governativo e continuerò ad esserlo», affermava Andreotti. Voto in cassaforte per il centrosinistra? Nemmeno per sogno. La giornata di ieri, infatti, è stata convulsa. E gli occhi erano tutti puntati su di lui. A un certo punto del pomeriggio si diffonde la voce che Andreotti non verrà. «Dirà che non sta bene di salute, così il suo voto non sarà determinante», sussurra qualcuno in sala stampa. Ok, Andreotti se ne sta a casa? Macché. Si diffonde un’altra voce, che alla fine risulterà quella esatta: il senatore viene, ascolta la replica del presidente del consiglio, poi non parteciperà al voto. Tutti, a questo punto, lo aspettano. E quando compare, verso le 17.40, subito la calca intorno a lui si fa ressa. Lui tranquillo, non fa una piega e se ne va alla buvette. Una pastarella alle mandorle e un cappuccino. Rimane ammaliato dalle belle confezioni di cioccolatini dietro il bancone. «Peccato, non ho abbastanza denaro in tasca, altrimenti me ne comperavo una. Sembrano deliziosi…».
CAPPUCCINO E PASTA
Tutti vogliono sapere, lui ha già deciso, ma vuole tenere ancora il paese sulla corda. Prima parla di politica estera. E’ preoccupato per un possibile attacco degli Usa all’Iran. Poi i fatti di casa nostra. «Ascolterò Prodi. Poi o mi astengo o non parteciperò al voto». Che non è proprio la stessa cosa. Sembra però un ultimo invito al Professore. Liturgico. Dì una sola parola (sui DICO) e io ti salverò. «Sono amareggiato, non credo che Prodi ci insisterà, non capisco perché il governo li abbia dovuti mettere in pista». Poi, sorseggiando il cappuccino, torna il parallelo con una “vera” riforma, quella agraria. «Quella sì che fu importante. Vi immaginate se poi avessimo fatto anche una legge per consentire a due contadini (maschi) di sposarsi…!». Risate. Avanza una cronista tedesca, chiede come voterà. Lui serafico: «Signora, comunque voti, il mondo va avanti lo stesso…». Si sarà consultato con Ruini?, chiede qualcuno. «Andreotti non ha bisogno di sentire il Vaticano. Andreotti è il Vaticano», sorride un cronista di lungo corso. Poi l’aula. Prodi parla dei DICO, spiega che sono in balìa del Parlamento. E parla di famiglia. Ad Andreotti non basta. «La scorsa volta mi sono astenuto perché non ho condiviso il discorso sulla discontinuità della politica estera», afferma il senatore a vita, «e poi secondo il governo c’è la necessità di regolare la convivenza tra persone dello stesso sesso, ma non credo che siano queste le riforme che il paese attende. E sul quel testo ci sono le firme di cinque ministri. Ora spero che sulle unioni di fatto il governo non metta la fiducia, ma nel frattempo mi astengo. Però, siccome l’astensione in Senato ha un significato politico preciso, non parteciperò al voto». Si complimenta Mastella. Gli stringe la mano anche Enrico Letta. Il governo Prodi è salvo. La vita continua. E a qualcuno viene in mente proprio una delle massime andreottiane, con cui lui ama schermirsi: «La storia è una cosa seria. Io appartengo alla cronaca».


LE REGOLE ASTENSIONE Dopo aver contribuito, con il voto di astensione del 21 febbraio, alla sconfitta del governo in Senato, Andreotti ieri ha annunciato la sua non partecipazione al voto in Aula.
LA DIFFERENZA A Palazzo Madama il voto di astensione equivale a un “no”: per questo il governo è andato sotto il 21 febbraio. Astenersi dal voto, uscendo dall’Aula o semplicemente non rispondendo alla “chiama”, non equivale invece a un voto contrario.


di GIANLUCA ROSELLI


LIBERO 1 marzo 2007