Il Card. Martini e le sue «furbate» gesuitiche…

EUTANASIA,
STRAPPO DEL
CARDINALE
GESUITA



Martini critica il Vaticano
: per Welby non si è trattato di “dolce morte”, ma è stato un caso di cessazione dell’accanimento terapeutico. C’é l’esigenza  di elaborare norme che consentano di respingere le cure. Una legge in materia, riconosce Martini, è una “impresa difficile, ma non impossibile” e andrebbe portata avanti. L’arcivescovo emerito di Milano elogia la normativa francese che nega “le cure protratte con irragionevole ostinazione”. L’intervento del cardinale ha riscosso il plauso di autorevoli esponenti diessini. Primo tra tutti il presidente della Commissione del Senato, Ignazio Marino: sono «parole di grande saggezza” in cui “si ritrova pienamente», mentre Cesare Salvi ha parlato di possibile cooperazione tra cultura laica e liberale quando si confrontano senza pregiudizi, mentre il ministro Pierluigi Bersani ha invitato l’Italia a fermarsi per leggere le parole del cardinale. Riesplode la polemica.
“Non intendo rispondere nell’immediato. Preferisco farlo con calma, più distesamente, con un intervento scritto”. Con queste parole il vescovo mons. Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, il più autorevole esperto vaticano in materia di bioetica, annuncia di voler intervenire sulla riflessione del cardinale Martini pubblicata ieri dal Sole24 Ore.


1) Martini: per Welby non c’è stata eutanasia    di Andrea Tornielli
2) Buttiglione frena: “Il malato non abbia l’ultima parola”   di Fabrizio De Feo


 

MARTINI: PER WELBY NON C’È STATA EUTANASIA


di Andrea Tornielli


Il cardinale Carlo Maria Martini interviene sul dibattito suscitato dalla morte di Piergiorgio Welby e invita la Chiesa a dare «più attenta considerazione anche pastorale» a casi come questi perché «nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona».
Martini – che sta per compiere ottant’anni e all’inizio del suo intervento, pubblicato dall’inserto domenicale del Sole24 Ore, racconta della premura con cui è stato seguito dai medici notando come però in molti altri casi la sanità italiana non sia altrettanto pronta a intervenire efficacemente per aiutare i malati – ritiene che sia «di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi». La prima, infatti, si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita «causando positivamente la morte». La seconda, invece, consiste, spiega l’arcivescovo emerito di Milano citando il compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, nella «rinuncia… all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo». Dunque, aggiunge sempre sulla base del Catechismo il porporato che trascorre il suo «buen retiro» tra Gerusalemme e Roma, evitando l’accanimento terapeutico «non si vuole… procurare la morte: si accetta di non poterla impedire», assumendo così «i limiti propri della condizione umana mortale».
Martini continua affermando che «per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica» ma occorre «un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze, le intenzioni dei soggetti coinvolti». In particolare, aggiunge il cardinale, «non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate». Certo, Martini non vuole che il malato sia lasciato da solo, a decidere in assoluta autonomia, ma spiega che «è responsabilità di tutti accompagnarlo». Però precisa che «sarebbe più corretto parlare non di “sospensione dei trattamenti” (e ancor meno di “staccare la spina”), ma di limitazione dei trattamenti. Risulterebbe così più chiaro che l’assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche».
Per quanto riguarda il versante legislativo, l’arcivescovo emerito di Milano parla dell’«esigenza di elaborare una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure – in quanto ritenute sproporzionate dal paziente – dall’altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell’eutanasia». Martini cita positivamente a questo proposito la legge su questa materia approvata nel 2005 in Francia, capace «di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista». Quella francese è una normativa che non legalizza l’eutanasia ma prevede che le cure mediche non debbano essere protratte «con ostinazione irragionevole». Una persona in fase terminale, insomma, può decidere, secondo la legge, «di limitare o di interrompere ogni terapia».
Anche se il caso Welby è stato accennato direttamente da Martini soltanto all’inizio del suo articolato ragionamento (il cardinale ha notato come Welby abbia «chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio» e ha pure sottolineato «l’intenzione di alcune parti politiche di esercitare una pressione in vista di una legge a favore dell’eutanasia»), è evidente che quanto segue si può applicare proprio a quello come ad altri casi simili. In sostanza, Martini non considera affatto quello di Welby un caso di eutanasia, e quell’accenno alla necessità per la Chiesa di una «più attenta considerazione anche pastorale» suona come una velata ed indiretta critica alla decisione del Vicariato di Roma di negare il funerale religioso richiesto dalla famiglia all’indomani dell’interruzione delle terapie respiratorie provocata da un medico.
Lungi dall’essere uscito di scena, ancora una volta l’arcivescovo emerito di Milano apre nuove frontiere di dibattito su temi etici e bioetici. Come aveva già fatto nel maggio scorso, attraverso il dialogo con il bioeticista Ignazio Marino pubblicato sull’Espresso, manifestando aperture verso la fecondazione eterologa e l’uso sperimentale dell’ovocita nelle prime ore dopo la fecondazione.


Il Giornale n. 3 del 2007-01-22 pagina 3




Buttiglione frena: “Il malato non abbia l’ultima parola”
Il presidente dell’Udc non condivide le aperture di Martini: “Welby ha chiesto e ottenuto l’eutanasia”


di Fabrizio De Feo


Roma – Il cardinale Carlo Maria Martini riapre improvvisamente il dibattito su eutanasia e accanimento terapeutico. Lo fa citando il caso di Piergiorgio Welby e la «lucidità» con cui «ha chiesto la sospensione delle terapie» non avendo «alcuna possibilità di miglioramento» e invitando la Chiesa a una «attenta considerazione», anche pastorale, della volontà del malato. Una riflessione che convince solo in parte un cattolico «doc» come il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione.
Onorevole Buttiglione, condivide la posizione dell’arcivesco emerito di Milano?
«Sono d’accordo con lui laddove invita a non confondere l’eutanasia con l’accanimento terapeutico. Il punto di partenza non mi sembra, invece, condivisibile, perché io credo che la battaglia di Welby non sia stata una battaglia per la rinuncia all’accanimento terapeutico ma piuttosto per rendere incerti i confini tra eutanasia, testamento biologico e accanimento terapeutico».
Il riferimento al caso Welby appare propedeutico a una richiesta che Martini fa successivamente: elaborare norme che consentano al paziente di respingere le cure.
«Il primo problema è capire davvero cosa è stato il caso Welby. Welby inizialmente non ha chiesto la sospensione delle cure bensì l’eutanasia, diventando così la bandiera di una campagna politica e mediatica. Non si comprende la decisione del Vicariato sui funerali che tanto ha fatto discutere se non si parte da questo dato di fatto».
Qual è il confine tra cure mediche appropriate e accanimento terapeutico?
«La rinuncia alle cure è accettabile soltanto quando si seguono terapie che possono prolungare di poco la vita del paziente senza speranza di restituire la salute. In questi casi si può abbreviare il processo della morte, somministrando piuttosto terapie palliative che evitino la sofferenza. Ma sull’onda del caso Welby si è cercato di abbattere la distinzione tra eutanasia attiva e passiva».
Qual è la distinzione tra eutanasia attiva e passiva?
«L’eutanasia attiva prevede la somministrazione di sostanze velenose. Quella passiva prevede tre possibilità: la sospensione dei trattamenti, la somministrazione di antidolorifici e la sospensione della idratazione e della alimentazione artificiale. La terza è inaccettabile e brutale, visto che prevede la morte per fame e per sete».
Il cardinal Martini invita a «non trascurare la volontà del malato», anche se sottolinea che l’autonomia decisionale non può considerarsi «assoluta».
«La lucidità è importante. Ma se io chiedo lucidamente l’eutanasia è un motivo sufficiente per concedermela? Nessuno può ordinare a un altro uomo di ucciderlo, su questo ci vuole grande chiarezza».
Ma allora a quali condizioni un malato può chiedere la fine dell’accanimento terapeutico?
«Ci sono tre situazioni. La prima. Chiedo di non essere messo sulla macchina cuore-polmoni? Ho il diritto di farlo. La seconda: sono già attaccato a una macchina e chiedo la sospensione del trattamento. Qui c’è spazio per una valutazione del medico perché se c’è una aspettativa di vita lunga come fai a togliere questo supporto? Il parere del paziente non può essere l’ultima parola. Si può arrivare al punto di un paziente che chiede di staccare la spina anche se ha anni di vita davanti. E se lo chiede solo perché è depresso?».
È passato un mese dalla morte di Welby. I riflettori si sono spenti e si può ragionare a mente fredda. Lei condivide ancora la decisione di non concedere i funerali religiosi?
«La Chiesa non ha stabilito che è vietato pregare per Welby. Ma una scelta diversa avrebbe significato per la Chiesa la rinuncia a un giudizio morale. La battaglia mediatica era tutta centrata sull’eutanasia, il Vicariato non poteva che ribadire la sua posizione di fedeltà alla dottrina».


Il Giornale n. 3 del 2007-01-22 pagina 2