di Fausto Carioti
Con Fidel Castro moribondo la sinistra comunista era in cerca di un nuovo dittatore da applaudire. L’attesa è stata breve: il vuoto politico è stato già riempito da Hugo Chávez, amico e allievo del tiranno cubano. In Venezuela si continua a votare, ma sono elezioni sempre meno libere: la stampa è intimidita e imbavagliata, le imprese passano la mano allo Stato, la polizia manganella e sbatte in carcere gli oppositori e ora la costituzione sta per essere riscritta a uso e consumo del caudillo. Tanto che Europa, quotidiano di una Margherita sempre più imbarazzata da certe connivenze, ha deciso di chiedere conto agli alleati e ai quotidiani della sinistra: «Sono stati i giornali comunisti a scegliere Caracas come la nuova Avana, la capitale di ogni possibile fronte comune contro il capitalismo e l’America. (…) A Rifondazione e anche a coloro che nel Pd considerano l’alleanza con questo partito non solo necessaria, ma indiscutibile, vorremo chiedere adesso: come la mettiamo con Chávez? L’antiamericanismo genetico si spinge fino a giustificare anche quest’ultima scivolata del Venezuela verso la dittatura?». È la bagarre. Il Manifesto reagisce prendendosela con quelli della Margherita: «Se ci sono detenuti politici nelle carceri chaviste», intima sarcastico il quotidiano di via Tomacelli, lo dicano. Altrimenti, silenzio. Stessa difesa del direttore di Liberazione, il bertinottiano Piero Sansonetti: «Non mi pare che le carceri venezuelane siano piene di dissidenti. Se invece ci fossero, sono pronto a ricredermi», dice al Corriere della Sera.
Se il punto è questo, eccoli serviti. I prigionieri politici e di coscienza nelle carceri venezuelane sono centinaia. Lo denunciano, tra gli altri, la Human Rights Foundation, organizzazione non governativa che annovera nel proprio board il premio Nobel per la Pace Elie Wiesel, il campione di scacchi (e avversario politico di Vladimir Putin) Garry Kasparov, il dissidente sovietico Vladimir Bukovsky e il cinese Harry Wu, reduce dai terribili Laogai, i lager di Pechino.
Il più noto prigioniero politico venezuelano si chiama Francisco Usón. È in carcere dal 22 maggio del 2004. Ex generale dell’esercito, arrestato senza processo, ha la colpa di aver espresso dubbi, durante una trasmissione televisiva, sulla verità ufficiale riguardo la morte di due soldati bruciati vivi nella cella di punizione di una base militare venezuelana. Il governo di Chávez sosteneva che le fiamme erano state accidentali. Usón, da ex militare esperto, spiegò che un lanciafiamme non può uccidere due persone e ustionarne gravemente altre sei se prima qualcuno non lo ha caricato di combustibile e portato sul posto. Per avere espresso questo giudizio tecnico, Usón è stato condannato da una corte militare (illegalmente, perché non portava più la divisa) a cinque anni e mezzo di carcere. Durante la detenzione, per due volte gli sono stati iniettati medicinali sbagliati, che hanno rischiato di ucciderlo. La vicenda di Usón, riferisce la Human Rights Foundation, ha visto il governo di Caracas violare sedici articoli di diversi trattati e convenzioni internazionali sottoscritti dal Venezuela.
Usón è il più famoso, ma non certo il solo. Quando, lo scorso 27 maggio, nelle strade di Caracas migliaia di studenti sono scesi in piazza per protestare contro la chiusura della televisione privata Rctv, vicina all’opposizione, la polizia, secondo un copione consolidato, ha fatto una retata di manifestanti chiudendo in cella oltre cento minorenni, i più giovani dei quali appena tredicenni, e ottanta adulti. «Nessuno conosce le loro condizioni o ha una lista dei loro nomi. Ecco perché i mezzi d’informazione indipendenti sono importanti. Al di là delle loro inclinazioni politiche, i media privati in molti casi hanno denunciato e impedito violazioni dei diritti umani. Ad esempio sono stati decisivi per attirare l’attenzione sul numero crescente dei prigionieri politici in Venezuela», ha ricordato la Human Rights Foundation dopo gli arresti di massa, avvenuti in aperta violazione della stessa costituzione venezuelana.
I siti web dell’opposizione abbondano delle liste dei nomi dei prigionieri politici. In uno di questi, InfoVenezuela.org, si legge che «allo stato attuale in Venezuela ci sono oltre duecento prigionieri politici e persone perseguitate per motivi politici, molti senza alcuna garanzia di ottenere un giusto processo». Cifre confermate dai maggiori organi di stampa internazionali, che solo in Italia si finge di non vedere. A novembre sul Boston Globe e sull’International Herald Tribune si poteva leggere che «oggi in Venezuela ci sono oltre 200 prigionieri politici. Molti altri venezuelani, inclusi attuali ed ex funzionari statali, ex giudici della Corte Suprema, giornalisti, ufficiali dell’esercito, leader sindacali e membri della società civile che difendono la democrazia e i diritti umani, sono obbligati a dividere le loro energie tra la battaglia per migliorare il loro Paese e gli sforzi per evitare l’arresto arbitrario». L’economista venezuelana Ana Julia Jatar ricordava che «il governo ha approvato leggi che restringono la libertà d’espressione, tra cui una che rende un crimine rivolgersi in modo “irriguardoso” al presidente e ad altri pubblici ufficiali, anche in conversazioni private. Nel Venezuela di Chávez non c’è solo la persecuzione, ma anche la discriminazione politica. Più di tre milioni di cittadini sono stati emarginati per aver firmato, nel 2004, la petizione per indire un referendum contro Chávez, seguendo l’iter previsto dalla costituzione. La lista dei firmatari è stata pubblicata sul sito web di un parlamentare di Chávez. Migliaia, in quella lista, hanno ingiustamente perso il loro impiego pubblico o hanno visto negarsi servizi da parte del governo. Le conversazioni telefoniche degli oppositori di Chávez sono registrate e mandate in onda sulle televisioni di Stato. Il ministro delle Comunicazioni», concludeva l’economista, «ha letto una delle mie email su un canale pubblico».
Completano il quadro le intimidazioni, i pestaggi e gli attentati ai danni dei giornalisti, spesso compiuti da uomini provenienti dalla polizia. Proprio per capire meglio l’entità della repressione e indagare sulla «impunità che sembra caratterizzare le esecuzioni sommarie commesse da agenti dello Stato», la Commissione interamericana per i diritti umani ha chiesto, come da prassi, di poter inviare una propria delegazione in Venezuela. Chávez si è detto disponibile, ma stava solo scherzando: il suo governo si è guardato bene dall’accettare le richieste della Commissione, che manca dal Venezuela dal 2002.
Questo è il Venezuela di Chávez. Si attendono ora segnali di ravvedimento da parte dei compagni di Rifondazione e del Manifesto. O stavano scherzando anche loro?
© Libero. Pubblicato il 22 agosto 2007.