A Budapest lacrime di coccodrillo

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Cinquant’anni fa, Napolitano elogiò la repressione sovietica; oggi mette fiori sulla tomba di Nagy… Ma il pentimento dove è?

Un’ondata di commozione sta invadendo l’Italia e il Corriere della Sera di ieri se n’è fatto partecipe con un articolo che mescolava lacrime e furbizia: anche il presidente Napolitano si reca oggi a Budapest, dove, col suo passo felpato da Botteghe oscure, porterà una corona di fiori sulla tomba del presidente Imre Nagy, fucilato dai russi. Ha preferito non andare alle celebrazioni ufficiali, nel mese prossimo. Meglio mandarci D’Alema, al quale gli ungheresi nulla possono rimproverare, dato che, quando i carri sovietici arrivarono, aveva solo sette anni. Per una singolare ironia della sorte, l’11 ottobre toccherà poi a Bertinotti, comunista non ex, commemorare alle Camere riunite uno degli eventi più sanguinari del Novecento. Oggi Napolitano rappresenta tutti gli italiani, anche quelli che non si sentono da lui rappresentati. E se non pochi ungheresi non lo volevano, ecco che il Corriere dà voce, in una intervista a un funzionario ungherese, sostenitore del governo che in questi giorni viene così duramente contestato dalla piazza: benvenuto Napolitano, l’Ungheria è uno dei Paesi modello del postcomunismo, inutile pensare al passato, guardiamo avanti. Napolitano, nel 1956, non fu tra i 101 iscritti e simpatizzanti che firmarono il manifesto di protesta, anche se alcuni, come Di Vittorio, ritirarono subito quella dichiarazione di solidarietà con gli insorti. E neppure si accontentò di tacere per disciplina di partito. Egli era convinto, come dichiarò, che la rivoluzione ungherese fosse un complotto imperialista contro il comunismo e, pertanto, un atto contro la liberazione dell’umanità. E, di conseguenza, giustificò pienamente l’ukase sovietico. Seguì in tutto la linea del partito e del suo segretario Togliatti, che aveva sollecitato Mosca ad intervenire.

Una presa di distanze di dubbia sincerità
Ma, si dirà, non è apprezzabile che oggi egli abbia preso le distanze da quel suo errore giovanile? E non solo oggi, dato che una prima autocritica sull’Ungheria venne da lui fatta nella “Intervista sul Pci” (1975), anche se in termini ben più cauti di quelli espressi lo scorso anno nel suo scritto autobiografico “Dal Pci al socialismo europeo”. Riconoscerei propri errori è segno di onestà e di saggezza. Ma qual che dubbio insorge quando si pensi a come è avvenuto il “pentimento”. Non alla Giolitti, alla Gobetti o alla De Felice, ma lentamente e cautamente, senza mai voltare le spalle al partito ancora comunista, del quale fu sino alla fine un importante dirigente. In fondo Napolitano, facendo autocritica, si serviva di un metodo inventato dai comunisti. Dato che il Partito ha sempre ragione, quando un iscritto si allontana dalla linea del Comitato Centrale (obbligatoria per tutti secondo l’articolo 5 dello Statuto), ha davanti a sé due strade: o l’espulsione, «per indegnità morale e politica (si pensi ai compagni de Il Manifesto) l’autocritica. La storia dei comunismo è cosparsa di autocritiche, dato che l’adepto può mostrare di avere una coscienza pulita solo quando accetta in toto le direttive del Partito, questo “Nuovo Principe” (Gramsci), superiore alla morale in quanto esso stesso produttore di morale. In Ita ha, la storia del Pci è stata in ogni momento una variabile di quella del Pcus, anche quando se ne differenziava in qualche punto: cosa consentita dai sovietici, in quanto utile alla vittoria dei partiti comunisti nei Paesi ancora borghesi.

I soliti metodi da Unione Sovietica
Napolitano non ha fatto eccezione. La “via italiana al comunismo”, il “migliorismo”, I “fronti popolari”, erano tutte strategie dettate da Mosca, come gli storici degli archivi segreti del Pcus hanno mostrato. Solo quando il comunismo sovietico e la stessa URSS sono caduti il Pci ha preso finalmente le distanze. Rimanendo ancora, in termini negativi, una variabile del comunismo: «Come si può essere ancora comunista, se non c’è più il comunismo?». Ecco allora il Pci diventare Ds: sul passato di esaltazione e di complicità con il più sanguinario regime della storia è stato steso un pudico velo di oblio: tutti dissociati e ben pochi pentiti. E la tomba di Imre Nagy, per decenni senza nome, come richiede la damnatio memoriae del comunismo, avrà oggi una corona inattesa: quella di chi, cinquant’anni or sono, appoggiò e difese gli invasori che sterminarono lui e il suo popolo.

Gianfranco Morra – LIBERO 26 settembre ’06