I miraggi delle vie “etiche” per reperire le cellule staminali embrionali

Codice: ZI05102311
Data pubblicazione: 2005-10-23


ROMA, domenica, 23 ottobre 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

Irving Weissman – dell’Istituto di Biologia delle cellule staminali e Medicina rigenerativa dell’Università di Stanford (California, USA) – è intervenuto su “Nature” del 16 ottobre con un breve articolo di commento a due studi apparsi sullo stesso numero della rivista, e di cui si è molto parlato nell’ultima settimana.

Weissman cita William Hurlbut, membro del Consiglio di Bioetica del Presidente Bush, che ha avuto un’interessante “idea” per valicare i problemi etici alla produzione di cellule staminali embrionali umane: il sistema dell’ANT, cioè del trasferimento di nucleo alterato (altered nuclear transfer). Attraverso questo metodo si potrebbe effettuare una sorta di clonazione che non dia origine ad un embrione umano, ma ad un corpo embrioide, di natura non umana, le cui cellule staminali potrebbero essere utilizzate senza il rischio di sopprimere vite umane (W.B. Hurlbut, Altered Nuclear Transfer as a Morally Acceptable Means for the Procurement of Human Embryonic Stem Cells, testo discusso nella riunione del President’s Council on Bioethics del dicembre 2004, e confluito nel documento pubblicato nel maggio 2005).

Il tipo di sviluppo cellulare del “clone”, infatti, non avrebbe quelle caratteristiche di coordinazione, di continuità e di gradualità che accompagnano sempre, dal punto di vista biologico, la vita di un organismo come l’uomo. In mancanza di una crescita organizzata e finalizzata, l’insieme di cellule risultante sarebbe un’entità – non un organismo – che evolve in maniera disordinata e confusa, mantenendo la qualità di indifferenziazione cellulare tipica delle cellule staminali embrionali ma mancando di reale totipotenza, cioè della capacità di formare un intero organismo, per assenza di adeguata “programmazione” genetica in tal senso.

Il “libro bianco” del Presidente è stato pubblicato negli Stati Uniti proprio al fine di raccogliere e discutere questa ed altre teorie (quattro in tutto), che possano costituire valide alternative etiche alla distruzione di embrioni umani a fini di ricerca (President’s Council on Bioethics, Alternative Sources of Pluripotent Stem Cells, maggio 2005). La questione è dunque in corso di esame, anche fra i moralisti cattolici, ed è davvero delicata. Intanto – e innanzitutto – perché occorre essere realmente sicuri che il procedimento di ANT davvero non dia origine ad un embrione, seppure alterato o morente. Solo così si potrebbe ammetterne la bontà, anche se le staminali ottenute servissero solo a scopo conoscitivo, e non terapeutico. Questo è il punto decisivo, che coinvolge, come sostiene il libro bianco, lo spostamento dell’attenzione “da se o quando l’embrione sia da considerarsi un essere umano alla questione di quali strutture organizzate e potenzialità costituiscano i criteri minimi per considerare un’entità un embrione”.

Anche il documento congiunto di una vasta organizzazione cattolica americana, l’Ethics and Public Policy Center, ha rilevato che, a determinate condizioni, l’ANT potrebbe essere ritenuto lecito (Production of Pluripotent Stem Cells by Oocyte Assisted Reprogramming, Ethics and Public Policy Center, 20 giugno 2005). Occorre tuttavia osservare che un trasferimento della pratica dall’animale all’uomo presenterebbe serie difficoltà etiche, in quanto costringerebbe almeno per un periodo ad effettuare sperimentazioni con trasferimenti di nucleo in ovociti umani, che potrebbero, magari accidentalmente o erroneamente, dare vita ad embrioni.

Se si potesse stabilire la piena liceità morale della pratica, resterebbe comunque da valutare la sua applicabilità all’uomo. Infatti, la modificazione genetica del nucleo da trasferire (del nucleo alterato, appunto) potrebbe causare la generazione di cellule geneticamente “pericolose”, contenenti cioè anomalie che potrebbero essere immesse nell’organismo che eventualmente ricevesse le staminali.

Inoltre, allo stato attuale delle conoscenze l’utilizzo di staminali embrionali si presenta comunque più rischioso dell’utilizzo di staminali adulte, proprio a causa della maggiore plasticità e ingovernabilità delle prime (C. Navarini, Procreazione assistita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi Editore, Casale Monferrato 2005, pp. 71-83).

Infine, non si può trascurare il grado di invasività del procedimento per le “donatrici” di ovocita, e quindi la possibile strumentalizzazione delle donne, che per fornire (gratuitamente o a pagamento) i propri ovuli dovrebbero sottoporsi a trattamenti non esenti da rischi. Sorprende invece quanto raramente il problema di ottenere un consenso veramente informato da parte delle donne sia preso in considerazione.

A fronte di tante incertezze, peraltro riconosciute dagli stessi studiosi di cellule staminali, Weissman scrive che “ciascuno dei protocolli [presentati nel numero di “Nature” del 16 ottobre, n.d.a.] punta a soddisfare le obiezioni religiose, etiche e/o politiche dei gruppi che si oppongono ad alcuni metodi usati nella ricerca sulle cellule staminali embrionali” (I.L. Weissman, Politic stem cells, “Nature”, 16 ottobre 2005, advance online publication).

Nell’illustrare uno dei due lavori, quello di Meissner e Jaenisch (del Massachusetts Institute of Technology), afferma che i due autori “hanno ora sviluppato un metodo per ottenere l’ANT”, il trasferimento nucleare alterato, attraverso l’inibizione del gene cdx2 nel topo. Il trasferimento di un nucleo somatico alterato – attraverso la soppressione di questo gene – in un ovulo darebbe come risultato una blastocisti simile ad un embrione ma non embrionale, secondo quanto descritto da Hurlbut.

Al di là dei legittimi dubbi che anche all’interno del Consiglio di Bioetica del Presidente sono stati sollevati sulla proposta di Hurlbut, è importante notare come la prospettiva di Weissman (e dei ricercatori del MIT) assomigli solo in apparenza a quella dell’esperto “presidenziale”.

Hurlbut, infatti, nel difendere la sua proposta muove precisamente dall’idea che il risultato dell’ANT non sia mai vita umana. L’entità formata sarebbe un “embryo-like artifact”, qualcosa di simile ad un tessuto umano o ad un organo, che “non avrebbe alcun intrinseco principio di unità, alcun progetto coerente verso la forma umana matura e alcun possibile diritto allo status morale di una vita umana in via di sviluppo” (W.B. Hurlbut, Altered Nuclear Transfer…cit.).

E precisa ulteriormente: “questo processo non implica la creazione di un embrione che viene alterato per trasformarlo in un’entità non embrionale. Al contrario, l’alterazione genetica suggeritaè presente ab initio, l’entità viene portata all’esistenza con una struttura genetica insufficiente a generare un embrione umano. Fin dall’inizio e in ogni momento del suo sviluppo non può essere definito come un essere vivente. Non verrebbe creato alcun embrione umano, pertanto nessuno verrebbe offeso, mutilato o distrutto nel processo di raccolta delle cellule staminali” ( ibidem).

Può darsi che Hurlbut si stia ingannando, che stia scivolando in una pericolosa riduzione genetista o funzionalista della vita umana. Si può obiettare che il principio di precauzione impegna a non oltrepassare una certa soglia di artificio nella manipolazione dei gameti umani, a non giocare con tecniche inquietanti come la clonazione umana, sia pure “alterata”. Si può dubitare dell’insignificanza attribuita all’entità prodotta con l’ANT.

Ma bisogna riconoscere che l’atteggiamento del prof. Hurlbut appare onesto, appare cioè come la ricerca sincera di una soluzione del problema etico e non il tentativo di mascherare la soppressione degli embrioni (clonati) semplicemente cambiando il nome della tecnica. Sembra trasparire dai suoi lavori, insomma, un oggettivo riconoscimento del valore della vita umana fin dal concepimento. Non sembra invece compatibile con il suo quadro teorico l’affermazione che “l’entità prodotta non è umana perché non può impiantarsi in utero”.

Questa prospettiva, al contrario, è precisamente quella adottata da Weissman, che dubita anzi del fatto che qualunque clonazione dia origine ad un essere umano. Dice infatti che il risultato del “normale” trasferimento di nucleo (NT) è una “blastocisti simil-embrionale, o embrioide” (I.L. Weissman, Politic…cit.). Perché? Semplicemente perché le probabilità di sviluppo degli embrioni clonati sono basse: “qualche rara volta, le blastocisti embrioidi animali riprogrammano un numero sufficiente di geni da potersi impiantare in utero e compiere tutti gli stadi di sviluppo fino alla nascita. Ma in tutte le specie testate, più del 99% delle blastocisti embrioidali fallisce, spesso in fasi avanzate della gravidanza” (ibidem).

Di conseguenza, la “soluzione” del problema etico – ovvero evitare la soppressione di embrioni umani – si risolverebbe per Weissman semplicemente rendendo del tutto impossibile che il risultato della clonazione possa proseguire nel suo sviluppo. Un minuscolo malato, un morente programmato, un embrione senza possibilità di vita (per le anomalie indottegli artificialmente) che smetterebbe per ciò stesso di essere umano. “Una possibile soluzione […] potrebbe essere quella di inventare – sostiene infatti Weissman – un processo che produca un’entità incapace di impiantarsi in utero”.

Tale è appunto la “soluzione” e l’aspirazione di questo “innovativo” studio sull’ANT: produrre una blastocisti – gli autori del lavoro non si scomodano nemmeno a chiamarlo “embrioide” – che non possa proseguire oltre quello stadio, e dunque che muoia precocemente.

Non prima però di avere prodotto preziose cellule staminali pluripotenti: “si possono generare blastocisti clonate che non abbiano il potenziale di svilupparsi oltre lo stadio di blastocisti perché non possono formare la placenta” (A. Meissner e R. Laenisch, Generation of nuclear trasnfer-derived pluripotent ES cells from cloned Cdx2-deficient blastocysts, “Nature”, 16 ottobre 2004).

Capita anche con gli aborti spontanei, che l’embrione venga espulso perché non si forma la placenta, eppure le donne che se ne accorgono dicono curiosamente “ho perso il bambino”, e mai “ho espulso un embrioide”. In quel caso, almeno, sembra che nella blastocisti alterata lo status morale dell’essere umano sia ben presente.


Da Zenit.org del 23 ottobre 2005