Foibe: interessi e ideologia dietro i mancati procedimenti giudiziari

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FOIBE I processi che non ci furono
Ecco perché nessun procedimento giudiziario è mai stato intrapreso contro i crimini commessi dal regime di Tito

Una domanda che è lecito porsi è perché nessun procedimento giudiziario sia stato intrapreso negli anni immediatamente successivi agli avvenimenti stessi, come invece avvenne per i crimini di guerra commessi dalle truppe tedesche del Terzo Reich in Italia e negli altri Paesi dell’Europa occupata.
Domanda alla quale vengono date riposte diverse. In primo luogo occorre osservare che la Jugoslavia di Tito era tra i Paesi vincitori al tavolo della pace, protetta dall’Urss prima e dagli alleati occidentali dopo il 1948. Controllava militarmente e politicamente con un pugno di ferro i territori dove la maggior parte di questi eventi si erano verificati. Quindi ogni possibilità di ricerca sul campo di prove materiali o documentali era preclusa. E tale rimase per decenni fino al 1991, cioè al crollo del regime comunista jugoslavo.
I territori considerati inoltre avevano subito un’autentica pulizia etnica, essendo stati svuotati in gran parte della loro popolazione, le città quasi interamente. Se si considera che le cinque province contavano circa un milione di abitanti nel 1940; che i territori rimasti all’Italia dopo il 1954 (la stretta striscia triestina fino a Muggia e il Basso Isontino) ne avevano circa 300.000 e i profughi furono intorno ai 350.000; tolti gli sloveni e i croati delle Giulie e degli altipiani interni e i circa 60/70.000 italiani «rimasti» sul territorio ceduto, si ha un’idea concreta dello spopolamento subito dalle città costiere e dalla penisola istriana .
Mancava quindi un habitat umano e sociale capace di chiedere giustizia per le violenze e le stragi subite. L’esodo aveva lasciato anche gli italiani che restavano senza un retroterra umano che li proteggesse. Essi si sentivano in balìa dei nuovi padroni .
Ma i profughi in Italia perché non reagivano? Perché non adivano le Procure e i Tribunali per chiedere giustizia? Domanda questa ancora più impietosa dell’altra. Come stavano i profughi nell’amata «madrepatria»? Come erano stati accolti? Molti ebbero esperienze positive. Ma in altri casi non fu così. Ad Ancona e a Venezia manifestazioni ostili di militanti di sinistra. I profughi scendevano sulla banchina a baciare la terra italiana. E ricevevano fischi e sputi e insulti e inviti a tornare da dove venivano. A Bologna chiusero i lucchetti dei vagoni-merci dove stava transitando un carico di profughi negando loro per ore acqua, cibo e latrine, finché la pietà del capostazione non li fece partire. A spiegare la nomea di «fascisti» che veniva propagandata, determinando siffatte accoglienze organizzate, può aver contribuito la circostanza che i primi flussi di profughi avvennero già nell’inverno 1943-1944, a seguito dei primi eccidi di civili italiani in Istria e in Dalmazia e dei pesanti bombardamenti alleati su Zara. La città fu quasi distrutta in 54 incursioni .
Avvenne così che le prime notizie sui massacri e l’esodo apparvero sul Corriere della Sera e sugli altri giornali italiani pubblicati sotto la Rsi. Quindi non potevano essere, questi profughi, che «tutti fascisti»! E questa etichetta rimase sulla schiena di tutti loro, come un marchio di infamia per la sinistra italiana del dopoguerra. Fu così che si cominciò a non capire. E si continuò per decenni, almeno in una parte della cultura politica italiana. Fino a pochi anni fa.
Alloggiati in caserme diroccate o disastrate da precedenti usi o in ex-campi di concentramento, i profughi erano spesso oggetto di aggressioni e pestaggi da parte di commandos di attivisti e in alcuni casi di assalti ai campi-profughi (La Spezia, Mantova, Padova, ecc.). Tanto che si recavano al lavoro o alle mense della Poa (Pontificia Opera di Assistenza) in gruppi per non essere sorpresi isolati; la notte si autoimponevano il coprifuoco e si era arrivati a dover costituire delle squadre, più o meno armate, che si davano il turno nello scortare i ragazzi a scuola e i camion che portavano vettovaglie ai campi. A volte erano le stesse autorità a fornire ai profughi per vie traverse armi per l’autodifesa. Era questa l’Italia tra il 1945 e il 1950.
Un’altra osservazione va fatta. Le vecchie classi dirigenti giuliane, sia chi aveva collaborato nel Ventennio sia chi si era ritirato o aveva subito persecuzioni dal regime fascista, erano state già indebolite dalle deportazioni tedesche e furono falcidiate dalle repressioni iugoslave. L’effetto voluto degli eccidi comunisti era proprio questo: privare la popolazione italiana autoctona dei suoi dirigenti, dai più autorevoli ai più umili, fino ai parroci. In quattro anni furono uccisi trentanove sacerdoti. Non si rinvennero estremi di reato? Non fu possibile raccogliere prove? È un campo aperto all’indagine, un’indagine approfondita che ancora non è stata fatta.
Nella pubblicistica più recente viene dato risalto a motivazioni di ordine politico generale, sia interno che internazionale. Sul fronte interno bisognava fare i conti con le soppressioni di migliaia di fascisti «repubblichini» e di altri cittadini da parte di alcune formazioni partigiane alla fine delle ostilità, senza valide giustificazioni militari. Sopraggiunse la nota amnistia voluta dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, che pose termine o comunque vanificò centinaia di processi in corso. Sul piano internazionale l’apertura di indagini sui crimini commessi contro gli italiani dai partigiani jugoslavi avrebbe obbligato ad accogliere le richieste jugoslave e greche di perseguimento di crimini attribuiti alle truppe d’occupazione italiane in quei Paesi tra il 1941 e il 1943


Il Giornale 33 del 09-02-2006