La Grande guerra che uccise l’Europa
Le radici della crisi in cui versa oggi l’Europa sono profonde. Risalgono alla Prima guerra mondiale, quando venne a scadenza una cambiale emessa dalla Rivoluzione Francese. Una tesi ardita che però Alan Kramer, il maggior specialista mondiale del tema, illustra con lucidità…
di Massimo Introvigne
Uno dei grandi temi del magistero di Papa Benedetto XVI è la malattia dell’Europa, che vive – come il pontefice ricordava il 24 marzo 2007, in occasione del cinquantenario di quei Trattati di Roma che sono all’origine dell’Unione Europea – una drammatica situazione di “apostasia da se stessa” e, vista dall’esterno, sembra addirittura sul punto di “congedarsi dalla storia”. Da dove viene questa crisi? Le cause sono certo molteplici, ma Benedetto XVI è spesso tornato su un evento per lui cruciale, la Prima guerra mondiale.
Certamente anche in precedenza c’erano state guerre tremende, ma la Grande Guerra del 1914-1918 rappresenta una sinistra novità non solo per il primo uso massiccio di armi di distruzione di massa – tali sono considerati, ancora oggi, i gas asfissianti – ma anche perché si teorizza e si pratica la separazione fra la guerra e la morale. Ricordava nel 2006, in occasione del novantesimo anniversario della terribile battaglia di Verdun, il Papa – che ha scelto il nome di Benedetto in omaggio, oltre che a san Benedetto (480-547), che è alle radici dell’Europa cristiana, anzitutto al Pontefice Benedetto XV (1854-1922) –: «In una nota del 1° agosto 1917, inviata ai capi dei popoli belligeranti, il mio predecessore Papa Benedetto XV proponeva una pace duratura e, allo stesso tempo, lanciava un appello pressante a cessare quella che egli chiamava una “inutile strage”».
In altra epoca, il Papa sarebbe stato preso sul serio. Ma nel 1917 l’Europa è cambiata, e quando le sue due massime autorità tradizionali, il Papa di Roma e l’imperatore di quanto sopravvive del Sacro Romano Impero – che nel caso di specie è anche stato beatificato dalla Chiesa –, il Beato Carlo I d’Asburgo (1887-1922), cercano di fermare il conflitto facendo notare che tutto quanto le nazioni vogliono con la guerra lo potranno ottenere con la pace, a stento sono trattati con cortesia e comunque non sono presi sul serio.
Naturalmente il Papa, il cui padre ha combattuto nella Prima guerra mondiale, non intende certo mancare di rispetto ai tanti che, da una parte e dall’altra, ebbero fiducia nella bontà della loro causa e si batterono con valore. Il problema non riguarda i combattenti, ma la guerra in sé, in cui viene a scadenza una cambiale secolare emessa all’epoca della Rivoluzione Francese, quando cominciano a diffondersi in Europa nazionalismi senza nazione, ideologie in cui ciascuno vuole più potere per la propria nazione perché, appunto, è la propria e non perché la ritiene portatrice di valori moralmente apprezzabili da chiunque. Perché, se si trattasse di valori, scendendo in profondità – e certo incontrando nel corso della discesa la frattura della Riforma protestante – ogni nazione europea li troverebbe nelle proprie radici e queste radici sono comuni, sono cristiane.
Incipit inquietante in Belgio
Invece, la Prima guerra mondiale è la conseguenza della separazione dell’idea di patria e di nazione dalle proprie radici religiose: con il Kulturkampf in Germania, con la laïcité in Francia, con le campagne laiciste e anticlericali dell’Ottocento in Italia.
Il libro Dynamic of Destruction: Culture and Mass Killing in the First World War (Oxford University Press, Oxford-New York) dello storico Alan Kramer, docente al Trinity College di Dublino e uno dei più noti specialisti internazionali della Prima guerra mondiale, può essere considerato una grande nota a pié di pagina del magistero pontificio sul tema. Il volume di Kramer non è una storia della Prima guerra mondiale. Inizia in medias res con l’incendio della biblioteca dell’Università Cattolica di Lovanio, bruciata dalle truppe tedesche il 25 agosto 1914. Questo evento è significativo perché – a differenza di quanto è avvenuto in altri casi simili – una delle più importanti biblioteche cattoliche del mondo non è stata vittima di un bombardamento aereo, né si è trattato di “danno collaterale” mentre l’artiglieria cercava di colpire posizioni nemiche. No: a Lovanio non era in corso nessuna battaglia, anche se l’ossessione dei “franchi tiratori” che le truppe tedesche si portavano dietro dalla guerra con la Francia del 1870 (ma che a Lovanio non c’erano) stava causando fucilazioni di massa di civili della città (alla fine, si conteranno 248 morti). Nella biblioteca non c’erano combattenti, e neppure resistenti civili. La decisione di darle fuoco fu consapevole e premeditata – per quanto in seguito si sia cercato di negarlo –: si trattava di colpire al cuore la cultura e la storia del Belgio. Distruggendo uno dei loro simboli nazionali, si pensava che la volontà di resistere dei belgi sarebbe stata anch’essa distrutta.
Ma, nota Kramer, l’attacco a Lovanio aveva radici profonde nel Kulturkampf e nell’anticattolicesimo inculcato agli ufficiali tedeschi (anche se naturalmente nell’esercito del Kaiser c’erano anche soldati cattolici). La distruzione della biblioteca «aveva molto a che fare con la fobia anti-cattolica diffusa nell’esercito tedesco e con lo status di Lovanio come centro intellettuale del cattolicesimo belga. L’anti-cattolicesimo era un elemento potente nella volontà del nazionalismo militarista tedesco di soggiogare i nemici, e la distruzione di un simbolo culturale rivale s’inseriva nel senso missionario che animava quel nazionalismo». Infatti, «le truppe tedesche vedevano il cattolicesimo belga e le sue istituzioni intellettuali come espressione di un’identità culturale nemica della Germania».
Il nazionalismo maledetto
Né Lovanio è un caso isolato: in Belgio, le distruzioni di chiese e di edifici storici si susseguono a Dinant e a Ypres; in autunno vi è l’episodio che desta maggiore scandalo nei Paesi neutrali, il bombardamento della cattedrale di Reims, in Francia, «la distruzione di un luogo centrale della memoria della Francia […], il luogo dell’incoronazione dei re». In questo caso – di fronte alle proteste internazionali – la Germania afferma che sulle torri della cattedrale i francesi avevano collocato un posto di osservazione per l’artiglieria, e ancora oggi è controverso se si sia trattato di «una distruzione culturale deliberata». Ma, dopo Lovanio, le difese tedesche non risultavano mai completamente credibili.
Ma si trattava solo della Germania? Lo scopo principale del libro di Kramer – che è piuttosto una storia culturale della Prima guerra mondiale – è mettere in discussione la tesi dell’“eccezione tedesca” (German exceptionalism), che è al centro di una vasta letteratura, e che sostiene che il nazionalismo esacerbato ha portato la Germania a commettere nella Grande Guerra atrocità che altri belligeranti non hanno commesso.
Questa tesi, per molti versi ancora dominante nel dibattito storiografico internazionale, non è – secondo Kramer – completamente sbagliata. La sua parte di verità sta nel fatto che alla Germania spettano le maggiori responsabilità per l’inizio della guerra. Certamente l’impero austro-ungarico aveva i suoi nazionalisti, specie nei circoli militari, che spingevano per risolvere una volta per tutte la questione della minaccia posta dalla Serbia – che sosteneva l’irredentismo di altre popolazioni slave – all’integrità di un impero multinazionale e multietnico. Ma l’Austria non si sarebbe mossa senza l’avallo della Germania. Dopo la crisi fra Austria e Serbia originata dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria (1863-1914) a Sarajevo il 28 giugno 1914, un’oscura vicenda dove entrano servizi d’informazione di vari Paesi e società segrete, «la Germania aveva il potere di accelerare e lanciare la locomotiva verso l’abisso o di mettere mano al freno e fermare il treno». Scelse di far partire la locomotiva verso quella che sapeva sarebbe stata una guerra mondiale, non solo per la sua convinzione di vincerla ma perché vi vedeva l’occasione di stabilire una volta per sempre la sua “egemonia mondiale”.
Kramer contesta sia la tesi marxista secondo cui la guerra fu voluta dai capitalisti per questioni principalmente economiche, sia quella postmoderna secondo cui le guerre scoppiano – per così dire – da sole, come esito di una meccanica che nessuno riesce veramente a controllare. Al contrario, le guerre sono decise da uomini e nascono da dottrine e da culture. Un nazionalismo militarista e un imperialismo culturale del tutto sganciato dall’appello a valori morali universali (cioè, non ristretti a una sola cultura nazionale che intendeva affermarli contro le altre) sembrano a Kramer più presenti in Germania che altrove, ma certamente non assenti negli altri Paesi, come conseguenza di una crisi morale generale della coscienza europea.
L’esplorazione del contesto non soltanto militare ma accademico, artistico e letterario (un’ampia sezione è dedicata al Futurismo, non solo italiano) dell’Europa nei primi decenni del secolo XX mostra come forme di nazionalismo disposte a mettere in secondo piano ogni riferimento a valori morali (talora sostituito dall’appello alle virtù purificatrici della violenza e della guerra) e anche ai princìpi formali del diritto internazionale (che pure già esistevano) si manifestavano un po’ dovunque. Già la campagna di Libia dell’Italia nel 1912-1913 e le guerre balcaniche in cui i nuovi Stati cercavano di affermarsi gli uni a spese degli altri avevano registrato massacri di civili e brutalità senza immediati precedenti.
L’inutile strage
Queste premesse culturali si traducono in quel modo nuovo di fare la guerra che tanto colpiva Papa Benedetto XV e che non può essere spiegato solo con il progresso tecnologico.
È una guerra di un’inaudita ferocia, e con un numero di perdite tra i militari e tra i civili non conosciuto da alcun’altra guerra precedente (anche se, per la verità, si potrebbero discutere le cifre con riferimento alle grandi invasioni mongole, che Kramer non cita). La stessa vita di trincea e battaglie di cui agli specialisti di cose militari di oggi è difficile comprendere esattamente il senso (decine di migliaia di morti “spesi” per avanzare di qualche chilometro in zone senza città né obiettivi strategici importanti) mostrano come la cultura dominante si fosse abituata a considerare le vite dei soldati (e spesso anche dei civili) come secondarie. Ed è il clima della Grande Guerra che spiega (ma per Kramer non giustifica) come durante il suo corso siano maturate tragedie nella tragedia, tra cui il massacro degli armeni avviato nel 1915 dal governo nazionalista (nonché laicista e ostile a ogni forma di religione) dei Giovani Turchi che si era impadronito dell’Impero Ottomano, o le sevizie inflitte ai prigionieri di guerra (in spregio alle Convenzioni di Ginevra del 1864 e 1906) soprattutto – ma non esclusivamente – dalla Serbia.
Se è vero che i prigionieri austriaci catturati dai serbi speravano – nelle parole di uno di loro – di diventare al più presto «prigionieri dell’Italia, perché l’Italia tratta i prigionieri di guerra molto bene – come esseri umani, e questo dice tutto», a conferma di un ethos nazionale italiano che nonostante tutto non è mai venuto meno, non è meno vero che l’Italia si distingue nel conflitto per il modo particolarmente duro in cui tratta i propri soldati.
E spuntarono i totalitarismi
La pratica della decimazione – cioè dell’uccisione di un certo numero di soldati scelti a caso per punire un’intera compagnia o reparto accusato di viltà in battaglia –, fortemente voluta dal generale Luigi Cadorna (1850-1928), è definita da Kramer «selvaggia», «unica dell’Italia» e da inquadrare in un tardo clima di «retorica mazziniana». La pratica conferisce all’Italia il dubbio primato dei soldati portati davanti alla Corte marziale (356.188, cioè un soldato su dodici), metà dei quali condannati, e di quelli giustiziati (un migliaio, contro 346 della Gran Bretagna e solo 48 della Germania), cui andrebbero aggiunti coloro che furono «falciati dalle mitragliatrici poste [su ordine del generale Cadorna] dietro le linee d’attacco e pronte a colpire coloro che rifiutavano di avanzare».
Che però vi fossero differenze tra le nazioni è mostrato dalle diverse reazioni dopo la Grande Guerra delle opinioni pubbliche: al nazionalismo diffuso in Italia e in Germania fa da contrappunto l’affermazione del pacifismo come fenomeno socialmente ed elettoralmente rilevante in Gran Bretagna e in Francia.
La Russia merita un discorso a sé, perché i disastri della Prima guerra mondiale non possono essere ignorati fra le cause della presa di potere comunista, ma nello stesso tempo gli orrori dei decenni seguenti sono figli non solo della Grande Guerra ma soprattutto della guerra civile fra “rossi” e “bianchi” che, con i suoi dieci milioni di morti (comprese le vittime delle epidemie e delle carestie, alcune delle quali artificiali, cioè provocate volontariamente dalla parte bolscevica), si rivela ben più letale dello stesso conflitto mondiale. Il militarismo di Stalin non è direttamente figlio di quello dei generali zaristi, così come il nazionalsocialismo è qualitativamente e ideologicamente diverso dal nazionalismo tedesco della Grande Guerra (dove, tra l’altro, combattono e muoiono per la Germania 12mila ebrei, anche se quando inizia a profilarsi la sconfitta un “censimento degli ebrei” presenti nell’esercito, pur non seguito da altre conseguenze, annuncia una nuova stagione di antisemitismo).
Eppure, con la Grande Guerra tutto inizia. Su molti punti, non solo di dettaglio, l’opera di Kramer entra in temi ancora dibattuti fra gli specialisti e talora ancora oggi condizionati da passioni e retoriche nazionali.
In Bulgaria, per esempio, il libro è già stato accusato di pregiudizi antibulgari in quanto riapre la pagina dei massacri di traci e di macedoni durante le guerre balcaniche.
Il peso dell’ossessione antigiolittiana (cioè dell’avversione radicale per il suo antico mentore politico Giovanni Giolitti, 1842-1928, che era contrario alla guerra) del primo ministro Antonio Salandra (1853-1931) nelle scelte dell’Italia durante i primi mesi di guerra è un altro tema controverso, anche se alcune intuizioni di Kramer incontrano sul punto i dettagliati lavori dedicati a Giolitti da Aldo Alessandro Mola (che peraltro lo storico del Trinity College non cita).
Per il lettore che non è uno specialista della Grande Guerra, l’essenziale è altrove. Al di là delle genuine passioni e del valore con cui molti la vissero e la combatterono, la Prima guerra mondiale fu una guerra civile europea resa possibile nella sua brutalità estrema solo dal fatto che l’Europa, particolarmente nelle sue élite, stava perdendo – dove più, dove meno – il contatto con quelli che Kramer chiama i valori culturali e morali, e Benedetto XVI, riprendendo Benedetto XV, le radici cristiane. E l’albero che cresce senza radici può essere soltanto un albero di morte.
Il Domenicale N. 48 – DAL 1° AL 7 DICEMBRE 2007