Essere genitori oggi: una sfida da raccogliere

Castenaso, 25 gennaio 2005


Una riflessione di Mons. Carlo Caffarra


Parlando qualche giorno fa al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Giovanni Paolo II ha individuato quattro sfide cui soprattutto l’umanità oggi deve far fronte: la vita, il pane, la pace, la libertà. Questi fondamentali valori assumono oggi il volto di una sfida che l’uomo deve raccogliere.

Noi questa sera rifletteremo su uno dei luoghi fondamentali, anzi sul luogo fondamentale in cui la prima sfida deve essere raccolta: la comunità coniugale, il matrimonio. La prima sfida deve essere raccolta oggi in primo luogo dagli sposi, divenendo così genitori.

Perché questo passaggio dalla coniugalità alla genitorialità è divenuta oggi una sfida? Perché oggi questa sfida deve essere raccolta? Nella riflessione seguente cercherò di rispondere a queste due domande, dividendola così in due punti.


Perché essere genitori è oggi una sfida.


Sfida è una parola grossa. Che cosa richiama alla nostra mente? L’idea di una gara, che può essere vinta o persa, nella quale è richiesto a chi vi entra un intenso coinvolgimento della propria persona. Ma diventare ed essere genitori oggi è una decisione e una condizione di vita che ha questo profilo? Non è questa un’esagerazione retorica?


Consentitemi di iniziare la mia risposta da una citazione: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la libertà, la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’essere nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’Avvento: un bambino è nato per noi” [H. Arendt, Vita activa, ed. Bompiani, Milano 1964, pag. 263].


Il testo potrà sembrare complesso, ma il suo significato penso sia chiaro e semplice: ogni bambino che nasce è una novità assoluta e quindi è segno di speranza nel mondo. La nascita di ogni bambino è come un dire “uomini, si ricomincia da capo!”. È il bambino che salva il mondo dalla sua “normale naturale rovina”. Novità e speranza sono le cifre di ogni nascita umana.


Non è così facile oggi forse leggere questo significato nell’avvenimento di ogni nascita umana. Per aiutarvi a farlo [chi è genitore ha vissuto questa esperienza!] seguitemi nella considerazione che ora vi propongo.


Vorrei partire da un paradosso cui assistiamo ogni giorno: è normale che nascano i bambini; è straordinario che nascano i bambini. È normale: rientra nei fenomeni propri di ogni specie vivente; è abbastanza spiegabile in base alle conoscenze scientifiche della fisiologia riproduttiva. La normalità si evidenzia nella registrazione numerica dei nati: esiste degli stessi una numerazione progressiva. È straordinario: non è nato un individuo che permette il perpetuarsi della specie umana, perché è nata una persona che non è semplicemente un individuo della specie umana; perché è nata una persona che non è numerabile [le persone non fanno numero] perché è irripetibile. È venuto all’esistenza qualcuno di unico.


Posso dire la stessa cosa dicendo: il concepimento di una nuova persona umana è un evento biologico e un evento spirituale. Fra i due eventi non c’è estraneità: l’uno è dentro all’altro; è il concepimento di una persona.


La comunione coniugale è il luogo adeguato perché impedisce che questo fatto perda il suo carattere di straordinarietà, diventi un dato statistico. È quando il concepimento di una nuova persona umana avviene nell’amore coniugale che la nuova persona umana è riconosciuta nella sua unicità ed irripetibilità.


Ritorniamo ora con maggiore consapevolezza a quello che ho chiamato “le cifre di ogni nascita umana”: novità e speranza.


Ciò che ho appena detto, ci aiuta a capire la novità di cui è portatore ogni bambino che nasce. Ed è proprio per questo che la decisione di diventare genitori implica una attitudine di speranza, più precisamente la fiducia che nasce dalla convinzione che la vita è un bene e quindi donarla è una cosa giusta e degna.


Ora siamo in grado di comprendere che essere genitori oggi assume il carattere di una sfida. Ci aiuterà a capirlo uno straordinario testo biblico che fa riferimento, e non a caso, alla nascita di un bambino. La nascita è quella di Isacco da due genitori già naturalmente incapaci di donare la vita e spiritualmente già rassegnati alla loro sterilità. Il testo dice: “per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre perché ritenne fedele colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia innumerevole che si trova lungo la spiaggia del mare” [Eb 11,11-12].


Abramo e Sara hanno sfidato la morte, dalla quale il loro corpo ed il loro spirito era già segnato, perché hanno ritenuto fedele il Dio della vita che aveva loro promesso di diventare genitori.


I termini della sfida sono rimasti sostanzialmente identici, anche oggi. Che cosa abbiamo oggi il diritto di sperare? con quali occhi possiamo oggi guardare al futuro? Non sembra la società in cui viviamo, la cultura in cui dimoriamo nella situazione in cui si trovava Sara, “fuori dell’età” per poter ancora concepire? Già all’inizio del secolo scorso un grande filosofo scrisse: “il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza” [E. Husserl, cit. da S. Belardinelli, Contro la paura, liberal Edizioni, Roma 2005, pag. 103]. Sembra la nostra Europa “già segnata dalla morte”.


È dentro questo contesto, dove sembra che le ragioni di rassegnarsi “alla normale, naturale rovina” della vicenda umana siano ben più forti delle ragioni della speranza, che esistono ancora coniugi che decidono di diventare genitori. È in questo la sfida della vita; è per questo che oggi donare la vita assume il profilo di una gara, che può essere persa o vinta, e che chiede a chi vi entra un coinvolgimento assai profondo.


Ma il carattere di sfida non si riduce al momento fondamentale in cui i due sposi decidono di donare la vita, decidono di diventare genitori. Essere genitori infatti non si riduce al concepimento ed alla generazione di una persona umana: essere genitori significa essere educatori. E l’educazione oggi assume il carattere di una vera e propria sfida. È una sfida donare la vita oggi dentro ad un mondo “fuori dell’età”, come Sara, e “già segnato dalla morte” come Abramo. È una sfida educare la persona neo-arrivata in questo mondo. Perché?


La risposta può essere formulata nel modo seguente. È una sfida perché alle domande di fondo a cui ogni educatore deve rispondere, oggi vengono date risposte contrarie, col risultato che o l’educatore perde ogni certezza e quindi ogni autorevolezza oppure abbassa la misura della sua proposta educativa.


Quali sono le domande di fondo a cui ogni educatore – ogni genitore – deve rispondere? È una sola: che cosa è la realtà nella quale l’educatore-genitore introduce la persona umana che vi è appena entrata.


Notate bene che quando dico “realtà” intendo la “cosa” più semplice: le persone con cui conviviamo; la natura nella quale dimoriamo; la quotidiana esperienza che facciamo [il lavoro, l’amore, la malattia …]. Tutto questo io intendo quando parlo di “realtà”. Educare una persona significa introdurla nella realtà; introdurla nella realtà significa mostrarle il significato della medesima: ciò che essa è, ciò che essa vale. Ebbene oggi alla domanda suprema di senso non abbiamo più una risposta che non sia contraddetta dalla sua contraria: non a livello delle discussioni dei “filosofi” [questo è sempre accaduto], ma a livello del vissuto del nostro popolo.


La condizione dell’educatore in questa situazione spirituale diventa drammatica. È esposto a due rischi. Egli stesso, l’educatore-genitore, non ha più una risposta, di cui sia certo, alla domanda di senso: l’educatore-genitore “non sa più che cosa dire” e come fare. Ha perso ogni autorevolezza, e senza autorevolezza non si può educare.


L’altro rischio è quello di abbassare, di restringere la misura alta della proposta educativa: accontentarsi di trasmettere informazioni e regole di vita perché non ci si faccia del male. Nessuna ragione seria perché si viva bene; qualche ragione per non odiarsi e tollerarci, nessuna per amarsi e convivere.


Veramente educare oggi è una sfida perché chi se la assume, ed un genitore non può rifiutarsi a questo rischio, entra in una gara nella quale confliggono radicali visioni della realtà.


Essere genitori nel significato intero della parola significa far essere una nuova persona umana: dal suo concepimento fino alla pienezza della sua umanità. Generare ed educare: è una sfida perché né l’atto del generare né l’atto dell’educare può essere compiuto se non si afferma la positività della realtà, se non si ama appassionatamente questa positività.


“Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” [Gen 1,31]. È lo sguardo ed il giudizio di Dio sulla realtà da Lui creata. Essere genitori: oggi è una sfida perché significa guardare la realtà come Dio l’ha guardata, e come Dio l’ha giudicata: “era cosa molto buona”.


Perché raccogliere questa sfida.


Vorrei ora rispondere alla seconda domanda: questa sfida deve oggi essere accolta? La sfida della vita, della vita da donare, della persona da educare. Oppure alla fine è meglio rassegnarsi nel torpore di una decadenza mortale anestetizzata dal consumo e dal possesso dei beni?


Ho terminato il punto precedente parlando dello sguardo di Dio sulla sua creazione. Ma poche pagine dopo il testo citato, la S. Scrittura dice: “E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti” [Gen 6,6-7]. Il Signore ha ritirato il suo sì alla creazione e alla vita, passando ad un “no” deciso? È S. Paolo che ci dà la risposta: “Il Figlio di Dio, Gesù Cristo … non fu “sì” e “no”, ma in Lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in Lui sono divenute “sì”. Per questo sempre attraverso Lui sale e Dio il nostro Amen per la sua gloria” [2 Cor 1,19-20].


Perché gli sposi possono raccogliere la sfida della vita? Perché possono dire il loro Amen sulla positività della realtà? Perché la vita dell’uomo è fondata su un avvenimento nel quale è apparsa in questo mondo la Vita eterna. Gesù è l’unico Vangelo della vita: non esiste alla fine nessun altra ragione per affrontare questa sfida. In Cristo “la vita si è fatta visibile” [1Gv 1,2]; anzi Lui stesso è “la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi” [ib.]. Ogni persona umana, fin dal momento del suo concepimento è già predestinata a questa vita in pienezza, alla vita eterna che è in Cristo. Quando una cultura è già “segnata dalla morte”? è già “fuori dell’età”? “il peccatore diventa vecchio perché si allontana dalla novità che è Cristo”. [S. Tommaso d’A., Commento ai Salmi, 56,5]. Quando ci si allontana dal Vangelo, non si accoglie più la sfida della vita.


Al centro del Vangelo sta un annuncio. “Esso è annuncio di un Dio vivo e vicino, che ci chiama a una profonda comunione con sé e ci apre alla speranza certa della vita eterna; è affermazione dell’inscindibile legame che intercorre tra la persona, la sua vita e la sua corporeità; è presentazione della vita umana come vita di relazione, dono di Dio, frutto e segno del suo amore; è proclamazione dello straordinario rapporto di Gesù con ciascun uomo, che consente di riconoscere in ogni volto umano il volto di Cristo; è indicazione del “dono sincero di sé” quale compito e luogo di realizzazione piena della propria libertà”. [Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Evagelium Vitae 81,1; EE 8/ ].


E chi non ha incontrato Cristo nella fede? Faccio due osservazioni, e termino.


La prima. Anche da chi non è credente si riconosce sempre più che la causa della “stanchezza” che ha investito la società occidentale è la perdita delle sue radici cristiane: è un’Europa senza radici. Si avverte il bisogno di poter ancora sperare, e la principale “cifra” della speranza è la nascita di una nuova persona umana.


La seconda. Fortunatamente è vero che ci sono molte più cose in cielo e in terra che nei nostri libri. Esiste cioè un vissuto che implica sempre un pensiero, cioè un modo di guardare alla realtà.


Nonostante tutto … nascono ancora bambini: gli sposi accettano di diventare genitori. Non sarebbe possibile questo, se non fosse presente nel vissuto di questi uomini e di queste donne l’affermazione della positività della vita, e della realtà. Forse si è spenta la fede, ma questi uomini e queste donne continuano a dimorare dentro al “sì” che Dio ha definitivamente detto in Cristo all’uomo e alla creazione.


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