EVVIVA LO SFASCIO… dal terrorismo rosso al parlamento

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Ex terrorista di Prima linea condannato a 30 anni di carcere ora è deputato e segretario di presidenza della Camera
 


1) «La verità è che per la sinistra gli ex terroristi sono dei beniamini»


2) «Siamo le sue vittime. Non può rappresentarci»


3) Dalle bombe al Parlamento “via Pannella”


4) «Mi sono pentito e ho pagato. Questo è il senso della giustizia»


 

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« La verità è che per la sinistra gli ex terroristi sono dei beniamini»


Tutti cadono dalle nuvole in Parlamento. Ognuno conosceva Sergio D’Elia come leader dell’associazione “Nessuno tocchi Caino“. Solo Carlo Giovanardi sapeva dei trascorsi terroristici del neo-deputato della Rosa nel Pugno da poco nominato segretario di presidenza della Camera. È stato l’ex ministro centrista per i Rapporti con il Parlamento a rivelare che D’Elia è un exmembro di “Prima linea” condannato a 30 anni di carcere per l’omicidio dell’agente di polizia Fausto Dionisi, avvenuto nel 1978 a Firenze. «Io l’ho saputo dalla vedova Dionisi, che è presidente di un’associazione dei familiari delle vittime del terrorismo, che ho conosciuto quando ero ministro» , spiega Giovanardi. «L’altro giorno mi ha chiamato piangendo perché le avevano appena detto che D’Elia era stato nominato segretario di presidenza», racconta. «Fino ad allora neanche io sapevo che lui faceva parte di “Prima linea“, e che era un capo, non un gregario», tiene a precisare. «Si sta creando una situazione per cui gli ex terroristi ottengono le attenzioni, le carriere, le prime pagine e le coccole dalla maggioranza di cui sono diventati i beniamini», protesta Giovanardi anche con riferimento al provvedimento di grazia a favore di Ovidio Bompressi, «mentre chi è stato ucciso per difendere la libertà di tutti viene dimenticato. La classe politica al potere deve darsi una calmata», esorta il dirigente dell’Udc che invoca «un po’ di sobrietà soprattutto nei confronti di chi si è macchiato di fatti così cruenti».
Dall’Udc arriva anche la denuncia del responsabile Difesa Francesco Bosi, che stigmatizza il caso D’Elia come «una grave provocazione e un’offesa nei confronti dello stato di diritto e dei familiari di Dionisi». Ma l’indignazione contagia via via tutti quelli che apprendono la notizia. «È come se Cicciolina aprisse una scuola di educande», esclama Maurizio Gasparri di An, «come può pretendere uno che ha squarciato Caino di fare la morale agli altri?». E inserisce il deputato della Rnp nella «triade perversa Luxuria- D’Elia-Caruso», bollandola come «il giusto sigillo di questa presunta maggioranza». Sottoscrive Angelo Sanza di Fi:«Prodi ci ha propinato una bella accozzaglia fra trans, no-global e terroristi. E pensare che in Parlamento dovrebbe esserci la rappresentanza più nobile del Paese» . Si associa anche Alessandra Mussolini: tra Bompressi, D’Elia e la controparata del 2 giugno, « sono troppi i segnali di disgregazione posti in essere dalla sinistra», avverte la leader di Azione sociale, che esorta a «imbracciare la sciabola contro il regime che sta nascendo sotto i nostri occhi» . Si dice «sconcertato» Paolo Nanni, coordinatore dell’Italia dei Valori in Emilia Romagna, che invoca un «patto etico fra i partiti» per «non candidare più persone condannate con sentenza penale passata in giudicato».
di Barbara Romano
LIBERO 3 giugno 2006


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«Siamo le sue vittime. Non può rappresentarci »
Parla la moglie dell’agente di Polizia Fausto Dionisi, ucciso a Firenze il 20 gennaio 1978 durante una sparatoria in via delle Casine


Mancano ancora dal sito della Camera dei Deputati i curricula dei parlamentari. Così per scovare la biografia di Sergio D’Elia, della Rosa nel Pugno, occorre accedere alle pagine di radicalparty.org, che lo definisce «antico membro di “Prima Linea”, l’organizzazione terrorista di sinistra di cui fu il dirigente. Condannato a 30 anni di prigione, ha scontato una lunga pena di prigione che è terminata recentemente» . Manca un particolare: la motivazione della sentenza di 30 anni di reclusione, ridotti poi a 25 in appello, per concorso in omicidio. La circostanze invece sono riaffiorate alla mente di Mariella Magi Dionisi, la moglie di Fausto Dionisi l’agente di polizia ucciso a 23 anni, il 20 gennaio 1978, durante un assalto dei commandos comunisti al carcere delle Murate di Firenze. Suo marito perse la vita durante l’operazione e ora uno dei responsabili di quell’atto non solo ha un seggio da deputato ma è divenuto segretario della Camera. Si è accorta dell’elezione? Come l’ha presa? «Mi sono sfogata con l’onorevole Carlo Giovanardi, con cui avevo collaborato a preparare la legge 206, che riordina i benefici per i familiari delle vittime del terrorismo». Poi è stata approvata, almeno? «Sì, è entrata in vigore ed è operativa, anche se è parzialmente inapplicata, perché la burocrazia rimane tale e blocca tante cose, tra cui alcune misure previste dal provvedimento» . Lei ha già minacciato altre volte di restituire la medaglia d’oro conferita alla memoria di suo marito. Pensa che questa sia l’occasione buona? «No. Stavolta si tratta esclusivamente di una questione mia, personale. Fausto se l’è guadagnata la medaglia. Non c’entra con la vicenda dell’elezione». (Osservate che la vedova di Fausto Dionisi, che è la presidente dell’Associazione Memoria, che raccoglie i familiari delle vittime del terrorismo fra i magistrati e le forze dell’ordine, non nomina mai esplicitamente Sergio D’Elia. Usa delle perifrasi. È un nome che non merita nemmeno di essere pronunciato. O forse provoca ancora troppo dolore e amarezza). Ora D’Elia è un Caino che non solo chiede di non essere toccato, ma pretende di rappresentare il popolo italiano… «Ecco, appunto. Peraltro anch’io sono d’accordo con lo scopo di “Nessuno tocchi Caino“. Non voler applicare la pena di morte è un fatto di civiltà. Ma da qui a diventare deputato, ce ne passa. In teoria dovrebbe rappresentare anche me e i familiari delle vittime del terrorismo. E, sinceramente, non mi sento rappresentata». Ha mai visto D’Elia? «Alla televisione, ma anche al processo». Si ricorda come è avvenuto il pentimento? «Ho dei dubbi su questi pentimenti, ma è un’opinione personale. Resta un dato di fatto inoppugnabile: Fausto è morto. E non vedo nemmeno una grandissima differenza tra chi spara e chi gli mette in mano la pistola» . Anche la pena scontata è un fatto. Non crede nemmeno nella riabilitazione attraverso la pena? «Certo che ci credo. È giusto che uno faccia un suo percorso di pena e di reinserimento. Rimane comunque il fatto che l’unico che non ha avuto un’altra possibilità è stato Fausto, che non ha potuto nemmeno crescere la sua bambina. Tutti gli altri invece hanno avuto una nuova opportunità di vita, fino a diventare deputati. Il “fine pena: mai” lo hanno avuto soltanto quelli che sono stati assassinati dai terroristi» . In quell’occasione quante furono le vittime, oltre a suo marito? «Quella volta è morto soltanto lui. L’altro suo collega è soltanto rimasto ferito. Ma le vittime degli “anni di piombo” sono più di 130. E ora rischiamo di perdere il conto, perché nel frattempo ci sono anche le vittime di Nassiriya» . E gli altri familiari come hanno reagito alla notizia dell’elezione di D’Elia? «Mi hanno telefonato tantissime persone, esprimendomi solidarietà» . Come associazione cosa intendete fare? «In questo momento non me la sento di coinvolgere l’associazione in una questione personale » . Ma cosa si attende che facciano gli altri parlamentari? Che facciano decadere D’Elia dalla carica, o magari che prenda lui stesso l’iniziativa di dimettersi? «Non lo so. Io credo nelle istituzioni, che devono trovare la soluzione al loro interno. Oggi si celebra l’istituzione di una democrazia con una Costituzione, no? E mio marito ci credeva talmente che è stato ucciso per difenderle. Per questo ho molto apprezzato l’iniziativa di solidarietà dei ragazzi della polizia, che hanno detto che avrebbero preso servizio con la fascia nera al braccio. Questo mi ha proprio commosso. Mi sembra il modo migliore per ricordare Fausto». Anche loro fanno parte delle istituzioni, in fondo, come i parlamentari… «Sì, ma rischiano la vita tutti i giorni per la strada per permettere a tutti gli italiani di poter vivere in legalità, libertà e democrazia».
di Andrea Morigi
LIBERO 3 giugno 2006


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Dalle bombe al Parlamento “via Pannella”


Da martedì scorso l’ex terrorista Sergio D’Elia è Segretario alla Presidenza della Camera. Nato il 5 gennaio 1952 a Pontecorvo, provincia di Frosinone, Sergio D’Elia studia Scienze Politiche all’Università di Firenze, dove si distingue come leader nel movimento del ’77. Ma già nel 1976 aderisce a Prima Linea (Pl): organizzazione che gli storici del terrorismo tendono a distinguere dalle più importanti Brigate Rosse per una serie di caratteristiche non solo ideologiche e genealogiche, ma addirittura antropologiche. Le Br, infatti, vengono essenzialmente da quel retroterra di estremismo all’interno del Pci che ha nostalgia delle “Volanti Rosse” del dopoguerra, nel mito della Resistenza Tradita. Pl, invece, nasce dai movimenti studenteschi degli anni ’70, ed è composta essenzialmente da rampolli della buona borghesia: primo fra tutti Marco Donat Cattin, figlio del leader e ministro democristiano.
I RIBELLI ” PIELLINI”
Autore di un recente libro su Pl (Mucchio Selvaggio Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima Linea, Castelvecchi, pp. 280, Euro 18) Giuliano Boraso per spiegare la contrapposizione tra brigatisti e piellini evoca addirittura il conflitto tra comunisti e anarchici durante la Guerra Civile Spagnola e scrive: «Motivazione politica e ideologica da un lato, scelta di pelle dall’altro. Prospettive e strategie da una parte, rabbia, odio, desiderio di rovesciare il tavolo e buttare tutto all’aria dall’altra. Unione Sovietica e Cina contro Sudamerica. Lenin e i soporiferi trattati di economia politica per i primi, la Rivoluzione Messicana, García Márquez, Jim Morrison per i secondi. Ai piellini piace un sacco andare al cinema, soprattutto vedere i film western e immedesimarsi con quei personaggi per metà rivoluzionari e per metà banditi, con un debole per i botti, la dinamite, l’esplosivo. Ma anche per le donne e il buon whisky» . Maniaci di letture terzomondiste e film western, ai piellini piacciono molto le azioni appunto cinematografiche, stile attacchi a carceri e a treni. Il 20 gennaio del 1978 è appunto nel corso di un attacco al carcere fiorentino delle Murate nel tentativo di liberare quattro “compagni” detenuti che avviene il fattaccio ricordato nel comunicato del Sap: l’omicidio dell’agente di polizia Fauso Dionisi. D’Elia è membro del Comando Nazionale dell’organizzazione, che quell’azione ha progettato. Parrtecipa inoltre al disarmo di un poliziotto alla Stazione di Ciampino, al tentativo di ferimento del direttore del carcere di Bergamo, a un commando che progetta l’uccisione degli uomini di scorta al procuratore di Milano Mauro Gresti. Ma nel maggio 1979 alcune intercettazioni telefoniche permettono alla polizia di individuare due valige zeppe di documenti, e D’Elia è tra i piellini che finiscono dentro. Pocessato prima a Bergamo e poi a Firenze, all’inizio fa il duro. «Sono prigioniero di guerra e in guerra gli avvocati non servono a nulla», grida ad esempio a Bergamo nel rifiutare il legale d’ufficio che gli è stato assegnato. E si agita anche per ottenere il “diritto di movimento” dei detenuti da una gabbia all’altra, mentre a Firenze rifiuterà di rispondere e protesterà contro gli orari delle visite. A Bergamo il 5 agosto 1982 gli danno dunque 15 anni, per il tentativo di ferimento del direttore del carcere. E a Firenze il 24 aprile 1983 altri trent’anni, considerandolo colpevole di concorso nell’omicidio di Dionisi, e inoltre di tutte le azioni di Pl in Toscana, appunto in quanto membro del Comando.
LA SVOLTA IN CARCERE
Ma in quell’anno 1983 i leader di Prima Linea in carcere prendono una clamorosa decisione collettiva di “dissociazione dalla lotta armata”. La scelta è in qualche modo premiata in sede di appello, dove gli riconoscono le attenuanti generiche e gli riducono dunque la pena a 25 anni. Nel 1986 D’Elia e altri leader di Pl decidono di iscriversi al Partito Radicale, e questa scelta per D’Elia si approfondisce ulteriormente. Nel Partito Radicale conosce infatti la dirigente e ex- deputato Maria Teresa Di Lascia, che diventa la sua compagna, e che morirà quarantenne nel 1994 poco prima che esca un suo romanzo destinato a vincere l’anno successivo il Premio Strega: “Passaggio in ombra“. Nel 1987 approfitta di un convegno del Partito Radicale cui sono stati invitati i tre noti dissidenti sovietici Vladimir Bukovskij, Vladimir Maksimov e Leonid Pljusc per incontrarsi con loro a Rebibbia, inchinandosi alle «vittime del terrore e del comunismo». Appena ottiene la semi-libertà inizia poi a lavorare nella sede del Partito Radicale stesso, fondando con la Di Lascio l’associazione contro la pena di morte “Nessuno tocchi Caino“. Infine quando nel 1991 per è infine liberato, si dedica a tempo pieno alla carriera politica, fino a essere eletto alle ultime elezioni deputato in Campania. Prima di finire nel mirino del Sap era stato duramente contestato a sinistra nel 2004 per alcune sue dichiarazioni in cui, pur condannando torture nelle carceri in Iraq, aveva rilevato come «è solo grazie alla libertà di stampa americana che noi abbiamo potuto sapere, con foto e resoconti particolareggiati, delle violenze subite da detenuti iracheni. Dei torturati in regimi dittatoriali, autoritari, illiberali, non è dato sapere nulla, semplicemente perchè lì non c’è libertà di stampa, quindi di inchiesta e prova indipendenti».
di Maurizio Stefanini
LIBERO 3 giugno 2006


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«Mi sono pentito e ho pagato. Questo è il senso della giustizia»
Pubblichiamo di seguito alcuni stralci della lettera di Sergio D’Elia al Presidente e ai parlamentari della Camera dei Deputati
 
Signor Presidente della Camera, colleghe e colleghi deputati, a seguito delle dichiarazioni rese il 1° giugno 2006 dall’onorevole Giovanardi su di me e sulla mia storia personale e politica, desidero offrire questo mio contributo di conoscenza, che ritengo utile anche al fine di un più generale dibattito sulla giustizia, la civiltà del diritto e il senso della pena nel nostro ordinamento. Sono stato uno di Prima Linea, 30 anni fa. Accetto che si dica ancora oggi di me: un “terrorista di Prima Linea”, mi rifiuto però di credere che qualcuno pensi davvero che sia il termine giusto, vero o esatto per dire, non solo quello che sono io oggi, ma anche quello che sono stato ieri. La mia identità politica e la mia lotta degli anni Settanta possono forse essere approssimate alle idee ” libertarie” (il che non vuol dire: non violente) di un anarchico dell’Ottocento, non certo assimilate al terrorista suicida e omicida degli anni Duemila. Insieme ai miei compagni, ero cresciuto con l’idea che fosse possibile cambiare il mondo, tutto e subito. […] Ritenemmo la lotta armata come mezzo necessario per accelerarne l’avvento o, comunque, verificarne la probabilità. Una sorta di “demone della verifica” ci ha spinto all’azione estrema e irreparabile. Il fine che giustifica i mezzi a cui molti aderivano culturalmente e filosoficamente, per noi è stata linea di condotta coerente e pratica. Che fosse vero il contrario, cioè che i mezzi prefigurano i fini, per me c’è voluta l’esperienza della lotta armata e del carcere e poi […] l’incontro con Marco Pannella. […] I 2 anni di lotta armata mi avevano ampiamente dimostrato che la nostra lotta era vana rispetto agli obiettivi che ci eravamo dati e che le ragioni e le speranze di quella lotta erano andate distrutte dai mezzi usati per affermarle. […] aspettavo il momento dell’arresto come un epilogo necessario. Giunse in una bella giornata di maggio del ’78, e fu una liberazione. Personalmente non ho mai sparato a nessuno, anche se è stato solo un caso. Sarebbe potuto accadere a me, esattamente, come è successo a molti miei compagni, con cui ho condiviso tutto, di uccidere e/o essere uccisi. In quegli anni, solo una serie di – posso dire col senno di poi – fortunate circostanze mi hanno impedito di diventare un assassino. Sono stato condannato in base a uno dei postulati della dottrina emergenzialista dell’epoca, per cui il responsabile di un’organizzazione terroristica andava considerato responsabile dei crimini commessi nel territorio in cui operava. Agli occhi dei giudici non valeva il principio costituzionale della responsabilità penale personale ma quello ben più politico del concorso morale. È agli atti del processo che ero lontano da Firenze al momento del fatto, che non ero stato tra gli ideatori e gli esecutori materiali della tentata evasione dal carcere delle Murate. Ciò nonostante, ero da considerare a tutti gli effetti responsabile dell’omicidio; per l’esattezza, di essere stato a conoscenza del piano di evasione e di non aver fatto nulla per impedirla, l’evasione evidentemente, non l’omicidio, che non era certo l’obiettivo di quell’azione, ma l’esito tragico di un fatto imprevisto. Una logica perversa che in futuro non sarebbe più stata applicata. […] Sono uscito dopo aver scontato 12 anni di carcere e, nel 2000, sono stato completamente riabilitato con sentenza del Tribunale di Roma […]. Se qualcuno, ancora oggi, dopo 30 anni, vuole cristallizzare la mia vita nell’atto criminale di allora […] e non tener conto della semplice verità che l’uomo della pena può divenire un uomo diverso da quello del delitto, rischia di non cogliere il senso profondo della giustizia, del carcere e della pena descritto dalla nostra Costituzione. […] Ora, sono disposto ad accettare anche il giudizio inappellabile di quel severissimo tribunale della storia che è l’opinione pubblica. Quel che non accetto è di rimanere ostaggio perpetuo della memoria, del mio passato e di ciò che ho fatto trenta anni fa.
di Sergio D’Elia
Deputato della Rosa nel Pugno

LIBERO 3 giugno 2006