Da Imperia a Foligno: la verità sui preti uccisi dai comunisti

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PRETI UCCISI DAI PARTIGIANI, NUOVE VERITÀ


di Roberto Beretta

IMPERIA
Altro che ammazzato armi in pugno perché fascista…
Don Padoan fu ucciso a freddo da un commando che aveva le chiavi di casa sua


Ricapitolando: era «fascistissimo», figlio di un colonnello della milizia; predicava odio e vendetta dal pulpito e – quando i partigiani andarono a cercarlo di notte – lui si presentò armato di pistola e addirittura bomba a mano, ma rimase ucciso nella sparatoria successiva.
Fino ad oggi è questa la storia che si racconta su don Antonio Padoan, parroco a Castelvittorio nell’imperiese, assassinato l’8 maggio 1944 da un gruppo della Resistenza a causa della predica di Pasqua, quando dal pulpito il giovane sacerdote avrebbe additato come traditori i giovani renitenti alla leva di Salò. E invece la fine di don Antonio è tutta da riscrivere, anche per restituire al sacerdote «fascista» l’onore sinora negato.
Lo spunto viene dal fratello minore della vittima, Franco Camillo Padoan, oggi ottantunenne. Proprio il signor Padoan, imbattendosi nel volume Preti uccisi dai partigiani (Piemme) in cui è raccolta anche la vicenda del congiunto, ha scoperto che sul sacerdote circola una versione dei fatti assolutamente non collimante con la sua. Per questo, e pur senza «voler fare alcuna polemica», si è deciso a «puntualizzare alcune “inesattezze”» per «difendere la memoria di don Antonio e non perché sia mio fratello, ma perché penso sia onesto dire la verità anche se può dare fastidio».
Eccola dunque, la cortesissima verità di Padoan. Anzitutto sul padre: altro che «colonnello fascista», come pur scrive Francesco Biga nella sua autorevole Storia della resistenza imperiese; il figlio Franco allega alla sua testimonianza il foglio matricolare che attesta come Padoan Giulio Cesare sia stato addirittura riformato per «debole costituzione» e la sua professione (anziché militare di carriera) fosse quella ben più pacifica di maestro elementare. Certo, con 8 figli a carico, «si iscrisse al partito fascista», però «solo nel 1929» e prima «da buon cattolico, si consigliò col suo direttore spirituale». Non solo: nel 1933 venne «deferito alla corte di disciplina perché “era troppo assiduo in parrocchia”» e «si prodigò per salvare un collega comunista», il quale poi a guerra finita «si presentò spontaneamente davanti alla commissione di epurazione difendendolo».
Ma il punto centrale della smentita di Franco Padoan riguarda il fratello prete. «Sfido chiunque – scrive – a provare che il mio don Antonio facesse propaganda per i nazifascismi in chiesa. Io allora ero presso il seminario di Ventimiglia e spesso ero a Castelvittorio ed, ovviamente, assistevo a tutte le celebrazioni… Ho sentito parlare di patria e di auspicio alla sua resurrezione dopo il Venerdì santo che stava passando il Paese, ma non ho mai sentito apostrofare i giovani quali traditori». La notizia della predica filofascista proviene peraltro da un confratello di don Padoan, il sacerdote e storico locale Nino Allaria Olivieri; il quale, pur rimarcando in vari volumi le «elette qualità morali» e lo «spiccato portamento civico» di don Antonio, asserisce che egli fece «riecheggiare dal pulpito parole di odio».
Franco Padoan replica ad personam: «All’epoca Allaria Olivieri era mio compagno di scuola, aveva 18 anni e del fatto non poteva essere certo testimone…». Anche lo storico, dunque, sarebbe stato vittima di una vulgata ideologicamente interessata. La stessa che ha capovolto la ricostruzione dell’assassinio: altro che prete fascista e armato fino ai denti, ucciso quasi per legittima difesa «durante una colluttazione reciproca con spari da ambo le parti» da partigiani che – scrive Biga – volevano «indurlo a desistere dai suoi propositi e abbandonare Castelvittorio»! In realtà si trattò di un omicidio a sangue freddo, due colpi sparati da un sicario mentre i complici tenevano ferma la vittima.
Il signor Padoan cita una testimonianza precisa. Nel 1949, quando già la sua famiglia abitava a Montalto di Castro (Vt), «mio padre fu convocato alla Pretura di Civitavecchia, dall’allora dottor Curcio» e lì «si vide presentare un ragazzo sui 35 anni il quale gli mostrò una corona del Rosario che mio padre riconobbe subito»: era quella che lui stesso aveva regalato al fratello prete. Il giovane – che era stato arrestato per altri delitti e aveva confessato di aver partecipato anche all’uccisione di don Padoan – raccontò allora che i partigiani «avevano avute le chiavi della canonica da uno del luogo e che, dopo aver narcotizzata mia sorella col buttare dalla finestra aperta dell’ovatta imbevuta di etere, si diressero verso la camera da letto dove don Antonio dormiva serenamente. Accesa la luce lo presero (erano in tre) e lo buttarono giù dal letto e mentre in due lo tenevano fermo uno di loro esplose un colpo di pistola in bocca e dopo avergli alzata la camicia da notte gli esplosero un altro colpo al cuore freddandolo». Giulio Cesare Padoan all’epoca rinunciò a fare denuncia, anzi perdonò il reo confesso, regalandogli anche il rosario della vittima; il figlio Franco precisa che il padre conosceva il nome dell’assassino, ma «non volle mai farcelo conoscere per evitare qualsiasi nostra rivalsa».
Questa dunque sarebbe la verità, poi occultata dai responsabili dietro accuse di «fascismo» alla vittima. Vero è che – dopo l’omicidio – sia il giornale Regime Fascista, sia le autorità strumentalizzarono la morte di don Padoan, organizzando funerali di Stato e intitolando al suo nome una Brigata nera. Però potrebbe trattarsi di appropriazione indebita, dovuta anche al fatto che una volta il sacerdote aveva accettato – chiamato comunque «dal comandante e dal parroco» anziano – di celebrare la messa pasquale per la Guardia Nazionale di stanza nella vicina Pigna: ma «si doveva forse rifiutare – riflette oggi il fratello – un ministro di Dio dal compiere il proprio dovere?». Del resto, una settimana prima della morte, il prete aveva assistito pure due partigiani condannati alla fucilazione, di nuovo sostituendo un confratello; e forse fu quell’atto, interpretato come adesione al regime, a decretare la sua barbara fine.
Infine, nella testimonianza odierna c’è un indizio per scoprire i colpevoli dell’omicidio: don Padoan aveva commissionato alcuni lavoretti in canonica a «un abitante di Castelvittorio, non comunque del luogo ma, se non vado errato, un emiliano» e quella potrebbe essere stata l’occasione per «fare un’impronta delle chiavi» (il commando partigiano, infatti, non scassinò la porta). «Stranamente» proprio quell’uomo fu «il primo ad accorrere alle richieste di aiuto» della perpetua – la sorella del morto – dopo la scoperta del cadavere; e qualche giorno più tardi anche il suo corpo fu rinvenuto «crivellato di colpi di mitra tra i boschi nelle vicine montagne». Giustizia partigiana?
Avvenire 1 febbraio 07


FOLIGNO
Il reverendo col fez & il parroco trucidati dal comunista slavo
Don Merlini e don Merli furono colpiti dagli stessi sicari a un’ora di distanza, il 21 febbraio 1944, approfittando dell’assenza del capo (cattolico) dei ribelli. Persino dal Messico altre testimonianze dopo l’inchiesta di «Avvenire» sui delitti rossi



Piero Donati vive a Città del Messico. Folignate classe 1916, partigiano, medaglia al valor militare, ha letto l’inchiesta sui preti uccisi dai partigiani che Avvenire pubblicò nel 2004 e interviene perché conosceva don Ferdinando Merli, professore al liceo classico di Foligno, infatuato del fascismo dalla prim’ora, ucciso la notte del 21 febbraio 1944 dallo stesso commando (pare diretto dal partigiano slavo Marion Tomsic) che un’ora più tardi fulminò don Angelo Merlini, parroco della vicina Fiamenga. «All’epoca dell’uccisione di don Merli – scrive ora Paola Donati, raccogliendo gli ottimi ricordi del marito – Piero era nella Brigata Garibaldi umbra, comandata dal cattolico Antero Cantarelli; ne fu anzi Commissario politico e ne compilò lo statuto. Conosceva perfettamente il professor Merli e si sente di affermare che mai lo ha conosciuto come “prete col fez” (si diceva che il sacerdote lo portasse alle feste fasciste, ndr.), appellativo che gli fu affibbiato invece da alcuni componenti della brigata di idee comuniste. Piero non sarebbe meravigliato anzi se tra i mandanti dell’assassinio di don Merli vi fosse anche quel gruppo di fanatici rossi». La Brigata Garibaldi aveva una caratteristica eccezionale nell’ambiente partigiano umbro: era in gran parte formata da cattolici, provenienti dal Circolo San Carlo di Foligno; lo stesso Cantarelli era presidente della Giac. La formazione ci teneva a sottolineare la propria diversità, per esempio i membri «si facevano chiamare tra loro patrioti e non partigiani» e la Brigata compì atti umanitari come il rilascio di «un alto gerarca di Salò, Gilberto Bernabei, allora sottosegretario alla Stampa e Propaganda». Però poi vennero assorbiti gruppi partigiani di Spello, dove la preminenza era rossa, e «slavi usciti dalla prigione di Spoleto che volevano comandare la Brigata per effettuare atti di guerra. Erano dei veri criminali». Pesava inoltre «la sete di vendetta da parte di alcuni componenti del partito comunista di Foligno», e non per nulla l’idea del delitto Merli (e Merlini) maturò mentre Cantarelli era assente per ferita. Tomsic, del resto, era un sicario sperimentato: anche il 20 febbraio uccise due persone; catturato poco dopo dai fascisti, venne giustiziato a Perugia il 10 giugno 1944.


Avvenire 1 febbraio 07


FABRIANO
Riabilitare don Gildo


Lo portarono via dalla sua parrocchia sul portabagagli di una bicicletta, il 14 luglio 1944, due partigiani armati; il corpo venne ritrovato oltre un mese dopo, sotto pochi centimetri di terra. Don Ermenegildo Vian, parroco di Bastia presso Fabriano, fu ucciso subito dopo la liberazione alleata della zona, forse per un sospetto di delazione. Oggi lo storico locale Aldo Crialesi ne riabilita la memoria raccogliendo, in un fascicolo stampato dal «Centro Studi Don Giuseppe Riganelli» di Fabriano, molte testimonianze che depongono per la sua innocenza. Tra le altre quelle del generale Wilson Cardona, che all’epoca dei fatti era comandante del Gruppo Tigre – famoso nella Resistenza marchigiana – e che una volta fu nascosto da don Gildo addirittura in chiesa, sotto l’altare.


Avvenire 1 febbraio 07