Il laicismo francese che ripudia la religione è un modello superato
Mentre Marcello Pera a Rimini e il sociologo Gilles Kepel in Francia usano il termine un tempo politicamente corretto “multiculturalismo” come se fosse diventato una parolaccia, a Toronto lo stesso tema è discusso in un seminario all’Università cui partecipa – insieme ad altri, tra cui chi scrive – Ayaan Hirshi Ali, l’attivista e critica dell’islam, olandese di origine somala che ha realizzato con Theo Van Gogh il film Submission che è costato la vita allo sfortunato regista.
La Ali denuncia giustamente come una pericolosa fuga in avanti la legge dell’Ontario che consente ai coniugi musulmani di trasferire la giurisdizione su cause di diritto di famiglia a tribunali privati che giudicano secondo la legge islamica. Convince meno quando propone come alternativa un secolarismo laicista alla francese. E scatena polemiche quando definisce il multiculturalismo «un male da cui è urgente liberarsi».
La parola “multiculturalismo”, infatti, è nata in Canada negli anni 1960 come evoluzione di “biculturalismo”, espressione ottocentesca creata per sottolineare la possibilità offerta alla comunità di lingua francese di mantenere la sua lingua e le sue tradizioni. Nonostante il separatismo sempre vivo nel Québec, l’esperimento è riuscito perché ai canadesi divisi dalla lingua è stata offerta quella che il sociologo inglese Tariq Modood ha definito a Toronto una «narrativa comune», un insieme di simboli e di riferimenti alla patria canadese cementati dal comune impegno nelle guerre mondiali. Il successo del biculturalismo in Canada ha permesso nel XX secolo la sua trasformazione in “multiculturalismo”, accogliendo anzitutto tre grandi comunità – cinese, italiana e giamaicana – che hanno mantenuto, molto più che negli Stati Uniti, la loro lingua e cultura.
In Gran Bretagna il multiculturalismo è diventato una parola d’ordine della sinistra e dei cosiddetti «professionisti dell’anti-razzismo» dopo il 1968 e ha significato sussidi e ampia autonomia per i vari gruppi etnici nigeriani, caraibici, indiani, pakistani. Ma la diffidenza di quella sinistra per il patriottismo ha impedito che agli immigrati fosse trasmessa una «narrativa comune» alla canadese.
I problemi sono nati quando una rivendicazione di autonomia è stata avanzata dai musulmani che, a differenza degli italiani, dei cinesi e anche dei pakistani, non sono un gruppo etnico ma religioso, le cui domande vanno ben al di là della preservazione di una lingua, di una musica o di una cucina e investono la sfera fondamentale dei rapporti di famiglia e dei diritti umani.
Questo equivoco che confonde eticità e religione ha, per così dire, imbastardito il multiculturalismo, trasformandolo da rispetto per tradizioni culturali diverse che possono coesistere – all’interno, appunto, di una «narrativa comune» – in cedimento a pericolose pretese di musulmani di organizzarsi separatamente quanto al diritto di famiglia e alla gestione dei quartieri dove sono maggioranza.
L’alternativa, tuttavia, non è l’uniculturalismo alla francese, che sostituisce il modello multiculturale con un laicismo che abbandona ogni identità religiosa. Come ha ricordato il Papa a Colonia, è la faticosa costruzione di un equilibrio fra un’affermazione forte dell’identità e della storia della maggioranza – che in Europa, come in America del Nord, è cristiana – e una libertà religiosa offerta a chiunque rifiuti senza ambiguità la violenza e il terrorismo e accetti i valori fondamentali della società di cui entra a fare parte.
Massimo Introvigne
(C) il Giornale, 23 agosto 2005