ECCO COME LOTTA CONTINUA CHIEDEVA LA MORTE DI CALABRESI
C’è un grande assente, nel dibattito sulla grazia ad Adriano Sofri, un incredibile, macroscopico, omissis. Ed è davvero strano che in queste ore nessuno nemmeno ricordi il nome di Luigi Calabresi, nessuno senta il bisogno di chiudere i conti con la storia e con la sua storia. Non si tratta certo di un problema legale, di verità da Tribunale, scampoli di sentenza sfuggiti a qualche incartamento. Ma di conti che devono essere fatti prima di qualunque grazia, sul piano civile e morale. È curioso, per esempio, che anche il bel libro di Aldo Cazzullo sul Caso Sofri (Mondadori, 12 euro, appena uscito), offra una preziosa ricostruzione del contesto, del delitto, e delle memorie degli ex di Lotta Continua, che sia molto documentato sui fatti e sulle cose, ma che poi tratti con molta leggerezza la campagna di demolizione che precedette e determinò l’omicidio. Ma il nodo è tutto lì: perché la grazia ci possa essere qualcuno si deve assumere fino in fondo quella responsabilità. E il problema lo riassume in maniera asciutta Gemma Capra Calabresi, la moglie del commissario, nel suo bellissimo (e purtroppo esaurito) libro, Mio Marito (Edizioni Paoline, 1990): «Lotta continua ne auspicò, fin dal primo istante, una sola cosa: la morte». Ed è stata proprio la vedova del commissario la prima a raccogliere con puntiglioso esercizio dl memoria tutti i dettagli che in questi anni sono stati oscurati a dimenticati. I particolari di un processo sommario che si svolse sui giornali e di cui il quotidiano del movimento extraparlamentare fu amplificatore volontario e implacabile. Ad esempio quando, racconta Gemma Capra, «di loro volontà i redattori di Lotta Continua aggiungevano l’appartenenza di Gigi alla Cia, la sua formazione negli Stati Uniti, i servizi resi al generale Edwin A. Walker, uomo di Barry Goldwater». Notizie dettagliatissime. Peccato che Calabresi, come provava anche il suo passaporto, non andò mai in America. Oppure quando il giornale pubblicava la foto di Calabresi e di Gianmaria Volonté in Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, corredate dal titolo: Due commissari, uno ha già confessato. Oppure quando sotto il titolo Calabresi, sei tu l’accusato, dopo la querela del Commissario per diffamazione, si leggeva: «Le nostre armi sono altre: più difficili, più faticose, più pericolose, ma infinitamente più efficaci. È l’organizzazione della nostra forza e dell’autonomia del proletariato che farà giustizia di tutti suoi nemici. Dell’assassinio di Pinelli abbiamo detto a chiare lettere che il proletariato sa chi sono i responsabili e saprà fare vendetta della sua morte» (14 maggio 1970). Calabresi veniva definito «il marine dalla finestra facile» e avvisato da questo corsivo: «Gli siamo alle costole, ormai è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito. Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte». E più avanti, altro titolo: «Pinelli un rivoluzionario, Calabresi un assassino». Con altro commento oggi raggelante: «Siamo stati troppo teneri con il commissario di Ps Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di continuare a perseguitare i suoi compagni. Facendo questo, però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i compagni che hanno imparato ad odiarlo. La sua funzione di sicario – scriveva Lotta Continua – è stata denunciata alle masse che hanno cominciato a conoscere i propri nemici con nome, cognome e indirizzo. È chiaro a tutti, infatti, che sarà Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza. Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». Non basta? Certamente no: «Nessuno, tantomeno Calabresi, può credere che quanto diciamo siano facili e velleitarie minacce. Siamo riusciti a trascinarlo in Tribunale e questo è certamente il pericolo minore per lui, solo l’inizio. Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese, infatti, sono giustamente del tutto estranei alle nostre esperienze, alle nostre lotte, alle nostre idee, e non è certamente dalla legge dello Stato capitalista che ci attendiamo la punizione di un suo servo zelante». Non basta? No, non basta ancora: «Nelle strade e nelle piazze il proletariato emetterà il suo verdetto, lo comunicherà, e ancora là, nelle piazze e nelle strade lo renderà esecutivo». Ancora? Sì, certo: «I proletari di Trento hanno compiuto il primo processo, e la prima esecuzione. L’imputato e vittima è già da tempo designato: un commissario aggiunto di pubblica sicurezza, torturatore ed assassino. Luigi Calabresi». Poi, con una grottesca chiosa: «L’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma questa è sicuramente una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo stato assassino» (6 giugno 1970). E solo un anno dopo, sotto il titolo L’assassino alle corde: «Calabresi, assassino, stia attento. Il suo nome è tra i primi della lista» (6 maggio 1971). Certo: la storia, la distanza, «il Contesto», come direbbe Leonardo Sciascia. Ma le parole sono pietre. E chiunque voglia pronunciare la parola grazia dovrà prima sollevare questi macigni, riempire l’Omissis che ancora oggi offusca la memoria di Luigi Calabresi, e a ben vedere continua a rendere impervia la via della grazia a Sofri.
di Luca Telese
IL GIORNALE 10 aprile 2004