Caccia all’uomo

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 Quei posseduti
dal mostro dell’odio

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L’odio è quella grande e paurosa forza che rimane sepolta nell\’inconscio collettivo e che nutrita dalla cultura degli insulti e della calunnia, viene risvegliata e poi esplode improvvisamente insanguinando le guerre civili, le faide fratricide. La vicenda dell’attentato a Berlusconi non può essere liquidata come l’esplosione di un caso singolo di follia politica e con un generico e buonista invito a cessare la campagna di odio. Perché di ciò che è avvenuto vi sono responsabilità politiche ben precise. I veri responsabili nascondono la mano. Sono tutti coloro che sospingono tenacemente la “massa di manovra” (quella formata dai vari Tartaglia e dalla massa anonima dei “tristi” che non vogliono sorridere) sulla via dell’odio, facendo nel corso degli anni di Silvio Berlusconi il “mostro” che distrugge la società, la causa di tutti i mali d’Italia. In realtà questi “seminatori di odio” vogliono solo la sovversione radicale, quella che solo distrugge. Loro sono i posseduti dal mostro dell’odio, sono i figli della rivoluzione permanente, quella che ha le sue radici profonde…nell’inferno.

 

Quei posseduti dal mostro del rancore

di Claudio Risè
Il mostro è stato svegliato, e non sarà semplice farlo riaddormentare. Quale mostro? Non certo Massimo Tartaglia, che con ogni probabilità è stato solo il braccio, guidato da una mente confusa, labile, e dunque manipolabile come cera molle dal mostro vero. Che altro non è che l’odio addormentato nel cuore e nella mente di molti, e risvegliato e nutrito dalla cultura degli insulti, dei cartelli di minacce appesi al collo dei bambini, dei sogni omicidi pubblicizzati via Facebook e legalizzati da professori, politici, giornalisti, signore diventate sanguinarie (forse per noia). È insomma quella grande forza, che rimane a lungo sepolta nell’inconscio collettivo, e poi, liberatasi, improvvisamente insanguina le guerre civili, le faide fratricide, la rottura dei patti, l’ubriacatura del credersi onnipotenti, non più sottoposti a nessuna regola. La follia che a quel punto irrompe, nella sua versione antisociale, spesso nascosta proprio dietro la socialità, e umanitari principi.
Chi era in piazza Duomo domenica, l’ha sentita e l’ha vista, quella follia, ben prima che Tartaglia lanciasse il suo duomo di ferro in faccia al presidente sorridente, che mandava baci. I gruppi di autonomi assiepati sotto i portici, coi loro insulti scanditi, i loro fischi incessanti, le facce stravolte dall’odio, annunciavano ciò che sarebbe poi accaduto. (Ma come mai sono stati lasciati lì, micidiale, evidente strumento di esaltazione di ogni mente confusa, oltre che pesanti disturbatori di un certamente pacifico incontro pubblico?) E Berlusconi li ha ben smascherati, tracciando velocemente il ritratto della sua lotta con la follia antipopolare, e dicendo tra l’altro (cito a memoria, con qualche imprecisione): «Voi siete cupi e arrabbiati, noi gioiosi e allegri, voi vorreste che tutti la pensassero come voi, noi che ognuno pensi con la sua testa, voi siete ossessionati dal negativo, noi lottiamo per il positivo».
La lotta tra Silvio (meno male che Silvio c’è), e il mostro formato dalle paranoie che giacciono nell’inconscio collettivo degli italiani, è qui ben descritta, in poche parole semplici. Che rassicurano e piacciono al popolo che lavora, come il mio anziano vicino, che beato diceva alla moglie: «Varda me l’è bel» (guarda come è bello). Ma rodono come un tarlo la mente di chi non vuole studiare, non vuole lavorare e, in fondo (supremo peccato e fonte di ogni malattia), non vuole godere.
Certo loro, gli «autonomi» con la testa in fumo, per quanto impressionanti nella loro cupezza e nel loro astio, come produttori di follia collettiva contano poco più che il lanciatore finale, Tartaglia. Sono solo la massa di manovra di chi ha fatto (nel corso degli anni) di Silvio Berlusconi il necessario capro espiatorio, che (nei riti vittimari studiati da René Girard), viene cacciato dalla comunità, di solito perché tutto rimanga come prima, e nulla cambi. Del resto non potevano trovare un bersaglio più adatto a tutte le paranoie e i vissuti di impotenza generati in 50 anni di politica statica, conservatrice, immobilista e codina. Anche qui, la dialettica tra Silvio e il coro di insulti (erroneamente definiti «contestatori»: non contestavano nulla, insultavano, e cercavano di non farlo parlare, come avevano fatto due giorni prima con Moratti e Formigoni, in piazza Fontana), la dice più lunga di un trattato di psicopatologia sociale.
Ogni volta che Silvio diceva una battuta, facendo ridere (come quando ha dato del vecchietto a Formigoni, mentre lui era in giacchetta «e senza canottiera»), dal coro dark si alzava severo: «Buffone-buffone». Insulto rivelatore. Perché nel teatro il buffone è colui che fa ridere (smascherando così trame cupe e velenose). E loro, i posseduti dal mostro dell’odio e della follia, non vogliono ridere. Perché non vogliono sapere chi e perché davvero manovra e limita le loro vite. Non vogliono conoscere. Non vogliono godere. Sono molto pericolosi.

Il Giornale martedì 15 dicembre 2009

 

Dietro i fatti di Milano ci sono responsabilità politiche precise

di Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello
Dopo i fatti di Milano, si profila una mistificazione che respingiamo con forza. Secondo l\’interpretazione che si cerca di imporre, ci si troverebbe di fronte a un generalizzato clima di odio che tutti, vittime e carnefici senza distinzione, dovrebbero impegnarsi a superare.
Le cose non stanno così. Il centrodestra non ha criminalizzato alcun avversario. In questi mesi di polemiche durissime, invece, il gruppo dirigente del PdL ha dovuto difendere il proprio partito, e soprattutto il proprio leader, da un attacco concentrico, dissennato e barbaro. Un attacco a lungo alimentato dalla fabbrica di fango che ha girato a pieni motori alla vigilia delle elezioni europee e amministrative dello scorso giugno, e che nelle ultime settimane, come in troppi fingono di non vedere, ha fatto registrare un salto di qualità. In particolare, e non a caso, dopo la bocciatura del lodo Alfano.
Il pronunciamento della Corte costituzionale ha infatti rimesso in moto vecchi processi, con relativa grancassa mediatica, e ha determinato la possibilità di un contrasto tra una eventuale sentenza di primo grado e l\’espressione della sovranità del popolo.
Allo stesso tempo, con straordinaria sincronia, attraverso una sentenza civile si è sferrato un attacco micidiale al patrimonio imprenditoriale della famiglia Berlusconi, fissando un risarcimento che non ha precedenti nella storia della finanza italiana a vantaggio dell\’editore capofila della campagna di delegittimazione contro il presidente del Consiglio.
Infine, dopo un lungo rullare di tamburi, sono state introdotte in un pubblico dibattimento le accuse incontrollate di un sedicente pentito, preparate da un\’intensa campagna mediatica di accreditamento per assicurare i riflettori del mondo sull\’attesa deflagrazione di una bomba atomica che al dunque si è rivelata un petardo, e una settimana dopo si è trasformata in un boomerang. Senza però che gli effetti sull\’immagine internazionale del nostro Paese e del capo del governo, accusato addirittura di essere corresponsabile della strategia stragistico-terroristica messa in campo dalla mafia nei primi anni Novanta, fossero meno rovinosi.
La consecutio degli eventi è sotto gli occhi di tutti. E laddove persistessero dubbi sulla non casualità di tante straordinarie coincidenze, per fugarli basterà rievocare lo scadenzario delle manifestazioni contra personam che hanno accompagnato i passaggi salienti di questa aggressione concentrica. La "tripletta" della bocciatura del lodo Alfano, della sentenza civile sul lodo Mondadori e della manifestazione per la libertà di stampa, ad esempio. O ancora il "No-B Day" programmato per il "day after" dello Spatuzza-show.
Il giudizio sulla sentenza della Corte costituzionale, dunque, è e resta gravissimo, perché essa si è assunta la responsabilità di riaprire in Italia il conflitto sulla legittimità del potere che ha già segnato fasi drammatiche della nostra storia. E anche perché la Consulta, contraddicendo il suo pronunciamento precedente, ha consapevolmente infranto il principio di leale collaborazione fra le istituzioni, sviando l\’attività legislativa del Parlamento e traendo in inganno lo stesso Capo dello Stato.
Inoltre, la bocciatura del lodo ha riaperto la strada al rischio che la sacrosanta autonomia del potere giudiziario possa tramutarsi in sopraffazione da parte di frange di toghe militanti. E in questo quadro non può non preoccupare per la tenuta degli equilibri costituzionali l\’allarmante e spesso improprio protagonismo degli organismi sindacali e istituzionali della magistratura: dall\’Anm con i suoi proclami politici, al Csm con il suo continuo e strumentale ricorso alle cosiddette "pratiche a tutela" e ai pareri non richiesti sulle leggi in discussione in Parlamento.
A testimonianza ulteriore dell’esistenza di una pericolosa asimmetria, quando il Premier ha legittimamente posto nel dibattito il tema di una grande riforma costituzionale (compresa la modifica della composizione della Consulta, ritenuta oggi di parte) – valutazione evidentemente suscettibile di divergenti giudizi politici – essa è stata demonizzata anche da fonti autorevoli, che però non hanno aperto bocca quando il presidente del Consiglio è stato indegnamente attaccato sul fronte della mafia e del terrorismo.
Al contrario: Di Pietro si è prodotto in un attacco frontale chiamando, evocando e sollecitando un’esplosione di violenza. Una trasmissione della tv di Stato, col mirino fisso contro Berlusconi, lo ha accusato di mafiosità e di corresponsabilità nelle stragi. Lo stesso dicasi per la catena editoriale ispirata da Eugenio Scalfari. Altrettanto insinuano o affermano esplicitamente alcuni magistrati inquirenti, magari titolari di indagine proprio sul delicato terreno del rapporto mafia-politica.
Il cosiddetto disturbato mentale Tartaglia, le decine di migliaia che inneggiano alla sua impresa, sono i nipotini di questi cattivi maestri. Un Paese in cui sia possibile tutto ciò rinuncia innanzi tutto alla propria legittimità democratica. E allora aspettiamo ora di vedere se il Pd proseguirà nel suo abbraccio mortale con l\’Idv, e se Casini continuerà a proporgli una sorta di CLN che a sua volta presupporrebbe l’esistenza di un regime totalitario da combattere con tutti i mezzi.
La vicenda non può essere liquidata come l’esplosione di un caso singolo di follia politica e con un generico ed ecumenico invito a cessare la campagna di odio. Perché la realtà è ben diversa e le responsabilità politiche di ciò che è avvenuto sono molto precise, anche se graduate nella loro manifestazione e pericolosità.

Libero-l\’Occidentale 15 Dicembre 2009