CASSAZIONE Le coppie di fatto sono come una vera e propria famiglia…

Cassazione choc: sposi e conviventi realtà «analoghe»


La Cassazione avvicina le coppie di fatto alla famiglia fondata sul matrimonio.
Il discutibile verdetto si riferisce a un detenuto che si è visto negare il patrocinio gratuito in quanto «il reddito è costituito dalla somma dei redditi di ogni membro» anche nelle coppie di fatto..

1) Un superfluo sproloquio ideologico sulla «significativa evoluzione sociale» per cui si debbono riconoscere alle coppie di fatto istanze analoghe a quelle della famiglia. Così la Corte di Cassazione ha corredato una sentenza con cui ha negato il diritto al gratuito patrocinio per un detenuto che in regime di libertà conviveva con una donna.
Nella fattispecie il tribunale di Milano aveva negato a Natalino C. la richiesta di ammissione al patrocinio gratuito, perché «in caso di convivenza il reddito è costituito dalla somma dei redditi di ogni componente del nucleo stabilmente convivente». Il detenuto ha avanzato ricorso alla Corte di Cassazione, ma la quarta sezione penale lo ha respinto, perché «il rapporto di convivenza, ai fini del calcolo reddituale per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato non si interrompe con lo stato detentivo».
I giudici, comunque, hanno voluto aggiungere che, dovendo confrontarsi con le mutate concezioni sociali, «la giurisprudenza, in materia di rapporti interpersonali, ha considerato la “famiglia di fatto” quale realtà sociale che, pur essendo al di fuori dello schema legale cui si riferisce, esprime comunque caratteri ed istanze analoghe a quelle della famiglia “stricto sensu” intesa».


«Si tratta di affermazioni gratuite – osserva Ciro Intino, vicepresidente del Forum delle Associazioni familiari – rispetto alle esigenze poste dalla decisione sul caso concreto. Per di più in stridente contrasto con il consolidato orientamento della Suprema Corte, che ha sempre affermato la non equiparabilità tra le unioni di fatto e la famiglia fondata sul matrimonio».


Il vicepresidente del Forum individua, perciò, «una chiara intenzione ideologica surrettiziamente introdotta nella sentenza in questione». Per Intino è «comunque un ulteriore segnale di allarme a riguardo di una prassi normativa ed amministrativa equivoca e contraddittoria in materia di famiglia anagrafica». Secondo l’esponente del “cartello” delle famiglie dunque «è tempo che si torni ad un corretto e rigoroso rispetto del dato normativo anche di rilievo costituzionale, tenendo conto di una cultura diffusa nel nostro Paese, che la sentenza invece sembra voler ignorare».


Riccardo Pedrizzi, responsabile di An per le politiche della famiglia, vuole fare chiarezza e sgombrare il campo dagli equivoci, e perciò ricorda che «in una serie di sentenze la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale hanno ribadito in maniera univoca l’impossibilità, ai sensi del nostro ordinamento legislativo ordinario e costituzionale, di parificare o anche solamente assimilare dal punto di vista giuridico la famiglia naturale fondata sul matrimonio e la convivenza di fatto». Per il presidente nazionale della consulta etico-religiosa del partito della destra poi «quelle che sono le diverse opinioni sociologiche personali dei vari giudici, lasciano il tempo che trovano».
Francesco Giro, responsabile di Forza Italia, per i rapporti con il mondo cattolico, sottolinea infine che la Corte di Cassazione parla di «significativa evoluzione sociale» e non di «equiparazione giuridica» tra coppia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio.


di Pier Luigi Fornari
Avvenire 6 gennaio 06



2) La schiuma entra in Cassazione


C’è un evidente paradosso nella sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha sentito il bisogno di definire, quasi en passant, la famiglia di fatto come frutto di «una significativa evoluzione sociale», tale da meritare un trattamento analogo a quello della famiglia legale. Il paradosso nasce dal merito del “caso” che i giudici della suprema istanza giudiziale stavano esaminando: quello di un detenuto che chiedeva di poter accedere al gratuito patrocinio per motivi di reddito, ma che si è visto negare questo diritto perché convivente con una donna le cui entrate, cumulate alle sue, gli facevano oltrepassare la soglia di reddito oltre la quale l’avvocato difensore bisogna pagarselo.


Nel pieno di un’offensiva ideologica che non risparmia argomentazioni le più stravaganti, per sostenere la tesi di una “par condicio” costituzionalmente improponibile, ci pare già di sentire i fautori della equiparazione: «Visto? Non è vero che con i pacs o assimilati si esigono soltanto diritti e non si accettano i doveri connessi. Quando occorre, siamo pronti anche a pagare…». In realtà, da questo punto di vista l’innovazione è relativa, perché già oggi, sulla base della legislazione vigente in materia di anagrafe, la convivenza tra persone legate da vincoli affettivi dichiarati implica la sommatoria dei singoli redditi, al fine di conseguire certi sgravi o benefici previsti dalla legislazione sul welfare.
Ma aldilà dei paradossi, l’aspetto che qui ci preme segnalare, con tutto il disagio che provoca, è l’ennesimo strappo culturale proveniente da un’istanza deputata, per definizione, a giudicare se i processi di primo e secondo grado siano stati condotti secondo i codici (il cosiddetto giudizio di legittimità). Non quindi ad entrare nel concreto delle vicende che stanno all’origine del procedimento. Tanto meno a valutarne la latitudine in termini di accettabilità sociale.


Intendiamoci, non è la prima volta che le “toghe di ermellino” si prendono la libertà di allargare o restringere le maglie delle norme vigenti (basti ricordare la sentenza del 2004, che mise in discussione l’esonero dal pagamento dell’Ici per alcune tipologie di edifici destinati a finalità di assistenza, istruzione e simili). Ed è vero: quando non decide “a sezioni unite”, la Cassazione ha già mostrato in più occasioni di saper cambiare idea, talora invertendo anche di 180 gradi certe sue precedenti rotte interpretative. Qualcuno ricorda i recenti opposti pronunciamenti in materia di violenza sessuale, con tutto il corredo di valutazioni sull’uso dei jeans da parte delle vittime?
Resta tuttavia lo sconcerto per un approccio dal chiaro sapore di forzatura. Basti scorrere le righe della sentenza in cui si parla apertamente di «famiglia di fatto», giudicandola «realtà sociale» che resta sì estranea allo «schema legale», ma che nonostante ciò «esprime comunque caratteri ed istanze analoghe a quelle della famiglia “stricto sensu” intesa». Non si riesce davvero a capire in base a quale logica un organismo, cui spetta delibare sempre e comunque entro “schemi legali”, possa ricorrere invece a categorie di natura extragiuridica, per impancarsi a giudice di presunte evoluzioni, frutto di “schiume” o derive sociologiche.


La moda dello sconfinamento in punto di diritto, insomma, miete sempre nuove vittime. Finora, erano soprattutto i tribunali amministrativi regionali (i Tar) a gareggiare in fantasia “creativa”. In questo caso siamo di fronte a magistrati dell’area penale che invadono il territorio del diritto di famiglia. Attendiamo con curiosità, ma anche con una qualche apprensione, di registrare i futuri sviluppi.


di Gianfranco Marcelli
Avvenire 6 gennaio 06