Il miracolo di Lepanto. L’intervento di Dio nella storia
I miracoli segnano la storia religiosa e politica dell’Europa…
La battaglia del 1571
Le ragioni storiche dello scontro
In Italia avevano invaso e saccheggiato tutte le coste del meridione. Tripoli era già stata tolta agli spagnoli, l’isola di Chio ai genovesi, Rodi ai cavalieri che la possedevano e la stessa isola di Malta, nuova sede dei cavalieri, sarebbe caduta nelle mani turche se Jean de La Valette, Gran Maestro dell’Ordine non l’avesse difesa e salvata con eroico valore.
Nel febbraio 1570 era giunto a Venezia un ambasciatore turco con un ultimatum della Sublime Porta: o la cessione al sultano dell’isola di Cipro o la guerra. Venezia aveva rifiutato con sdegno. Ma dopo undici mesi di assedio il 1 agosto 1571, nell’isola di Cipro era caduta la città di Famagosta. Il patto di resa garantiva la vita ai difensori superstiti, ma quando il comandante turco era penetrato a Famagosta aveva fatto scorticare vivo il comandante della piazza cristiana Marcantonio Bragadin. Il corpo era stato squartato, la pelle di Bragadin era stata quindi riempita di paglia, rivestita con la sua uniforme e trascinata per la città.
Il terrore regnava nel Mediterraneo, l’antico Mare nostrum. La sorte dei cristiani di Cipro era quella che l’Islam sembrava preparare ai cristiani di tutta Europa. Sulla cattedra di Pietro sedeva un teologo domenicano, Michele Ghislieri, salito al pontificato all’inizio del 1566 con il nome di Pio V. Egli valutò la gravità del pericolo e comprese che solo una guerra preventiva avrebbe salvato l’Occidente. Con parole gravi e commosse esortò le potenze cristiane ad unirsi contro gli aggressori e di questa difesa della cristianià fece l’asse del suo breve pontificato.
Non tutti, però, risposero all’appello. L’espansione dei turchi si sviluppava anche grazie alla complicità decisiva di paesi cristiani, come la Francia, che in nome della realpolitik, oggi diremmo dei suoi interessi geopolitici, incoraggiava e finanziava i turchi per indebolire il suo tradizionale nemico: la casa imperiale d’Austria. Tuttavia grazie alle preghiere e alle insistenze del pontefice, il 25 luglio del 1570, la Spagna, Venezia e il Papa conclusero l’alleanza contro i turchi. Subito dopo aderirono il duca di Savoia, la Repubblica di Genova e quella di Lucca, il granduca di Toscana, i duchi di Mantova, Parma, Urbino, Ferrara, l’Ordine sovrano di Malta. Si trattava di una prefigurazione dell’unità italiana su basi cristiane, la prima coalizione politica e militare italiana nella storia.
Alla testa della Lega Cristiana fu posto un giovane di 25 anni: don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e dunque fratellastro del re di Spagna Filippo II. La flotta pontificia, costituita grazie all’aiuto decisivo dei cavalieri di Santo Stefano, era comandata da Marcantonio Colonna, duca di Paliano, a cui il Papa affidò la bandiera della Chiesa. La Santa Lega fu ufficialmente proclamata a Roma nella basilica di San Pietro. Lasciata Messina, dove si era concentrata alla fine di agosto, dopo venti giorni di navigazione con rotta verso levante, la flotta cristiana attaccò il nemico alle undici di mattina di quella domenica 7 ottobre dell’anno 1571.
Lo svolgimento della battaglia
All’alba del 7 ottobre 1571 una gigantesca flotta ottomana, la più numerosa mai schierata nel Mediterraneo, avanzava lentamente, con il vento di scirocco in poppa. Circa 270 galee e una quantità indescrivibile di legni minori formavano un semicerchio, una enorme e minacciosa mezzaluna che occupava tutte le acque che dalle coste montagnose dell’Albania, a nord, arrivano alle secche della Morea, a sud. Al centro della mezzaluna che avanzava, sulla nave ammiraglia, chiamata la Sultana, sventolava uno stendardo verde, venuto dalla Mecca, che recava ricamato in oro per 28.900 volte il nome di Allah.
Di fronte, in formazione a croce, era schierata la flotta cristiana, sulla cui ammiraglia, comandata da don Giovanni d’Austria, garriva un enorme stendardo blu con la raffigurazione del Cristo in Croce. La battaglia durò cinque ore e si decise al centro dello schieramento, dove le navi ammiraglie si speronarono l’un l’altra formando un campo di battaglia galleggiante in cui si susseguirono attacchi e contrattacchi finchè il reggimento scelto degli archibugieri di Sardegna riuscì a sferrare l’attacco decisivo. Alì Pascià fu colpito a morte e sulla Sultana fu ammainata la Mezzaluna e issato il vessillo cristiano.
Si coprirono di valore tra gli altri i Colonna e gli Orsini, sette della stessa famiglia, il conte Francesco di Savoia che cadde in battaglia, il ventitreenne Alessandro Farnese, destinato a divenire uno dei maggiori condottieri del secolo, Giulio Carafa che, preso prigioniero si liberò e si impadronì del brigantino nemico, ed i veneziani tutti che pagarono il maggior tributo di sangue.
Il provveditore veneziano Agostino Barbarigo che comandava l’ala sinistra dello schieramento cristiano, si batté, fino a che non gli mancarono le forze, con una freccia infitta nell’occhio sinistro. Sulla sua ammiraglia, Sebastiano Venier, combatté a capo scoperto e in pantofole perché, risponde a chi gliene chiede il motivo, fanno migliore presa sulla coperta. Ha settantacinque anni e imbraccia la balestra, aiutato da un marinaio per il caricamento dell’arma, un’operazione che era ormai superiore alle sue forze. Sopraffatto dal numero viene soccorso dalle galee di Giovanni Loredan e Caterino Malipiero, che trovano la morte nella lotta.
Al termine della battaglia la Lega aveva perso più di 7.000 uomini, di cui 4.800 veneziani, 2.000 spagnoli, 800 pontifici, e circa 20.000 feriti; i turchi, contarono più di 25.000 perdite e 3.000 prigionieri. Il nome di Lepanto era entrato nella storia. Per la prima volta dopo un secolo il Mediterraneo tornò libero. A partire da questo giorno iniziò il declino dell’impero ottomano.
Nel pomeriggio del 7 ottobre, Pio V che aveva moltiplicato le preghiere a Colei che sempre aveva soccorso i cristiani nelle ore drammatiche della cristianità, stava esaminando i conti con alcuni prelati. D’improvviso fu visto levarsi, avvicinarsi alla finestra fissando lo sguardo come estatico e poi, ritornando verso i prelati esclamare: “Non occupiamoci più di affari, ma andiamo a ringraziare Iddio. La flotta cristiana ha ottenuto vittoria“.
Il Pontefice attribuì il trionfo di Lepanto all’intercessione della Vergine e volle che nelle Litanie lauretane si aggiungesse l’invocazione Auxilium christianorum. Anche il Senato Veneziano che non era composto da donnicciole, ma da uomini fieri e rotti a sfidare i più gravi pericoli in mare e in terra, volle attribuire alla Santissima Vergine il merito principale della vittoria e sul quadro fatto dipingere nella sala delle sue adunanze fece scrivere queste parole: “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit” (non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori).
tratto da Centro Culturale Lepanto (www.lepanto.org).
Cristiani: 30.000 soldati e 80.000 tra marinai e rematori, tutti imbarcati su 208 galere rispettivamente: spagnole (comandante Don Giovanni d’Austria), veneziane (comandante Sebastiano Venier, duca di Candia), pontificie (comandante Marcantonio Colonna), genovesi (comandante Giannandrea Doria), sabaude e Maltesi, oltreché, sei galeazze venete (comandante Agostino Barbarigo) e 78 tra galeoni e brigantini.
Turchi: schierarono circa 270 tra galere e galeotte complete d’equipaggio che poteva annoverare dai 180 ai 250 rematori (tutti schiavi cristiani) e soldati (giannizzeri) sino a 400 per imbarcazione: il loro comandante Al’ Mehemet Pascià era considerato imbattibile perché in possesso di un prezioso amuleto che altro non era che un dente canino destro di Maometto). La battaglia di Lepanto è l’ultimo scontro in mare che vedrà impiegate navi a remi. In tal frangente morirono circa 8.000 cristiani e oltre 25.000 musulmani, ma furono liberati 12.000 schiavi cristiani incatenati al remo.
Il Comandante Venier, titolato “capitan generale da mar”, sebbene d’anni 75, era responsabile della flotta veneziana e non disdegnò di prendere parte attiva alla battaglia esponendosi a dardi e ogni altro pericolo dell’arrembaggio. Tra i feriti spagnoli, ci fu un certo Miguel de Cervantes che immobilizzato per sempre in un braccio lasciò la carriera delle armi per scrivere il capolavoro Don Chisciotte della Mancia. Dopo la battaglia di Lepanto l’influenza turca nel Mediterraneo diminuì notevolmente, ma i “pirati saraceni” continuarono ad esistere sino alla fine del 1800, quando la flotta inglese predominò incontrastata nel “mare nostrun”.
Michele Ghislieri, di povera famiglia, fu domenicano e Inquisitore Generale. Appoggiato da San Carlo Borromeo, fu eletto Papa col nome di Pio V nel 1566. Il denaro dei festeggiamenti per l’elezione lo fece dare ai poveri; lui continuò a vestire il rozzo saio e a dormire su un pagliericcio, mangiando solo legumi. Cominciò con l’eliminare dai palazzi vaticani e dall’amministrazione romana tutte le “bocche inutili”, poi diede mano severamente al riordino della Chiesa, vietando i favori ai “nipoti” e la concessione di cariche ai minorenni. Due volte alla settimana per dieci ore di seguito dava personalmente udienza al popolo, ascoltandone le lagnanze. Aveva un parente nelle milizie pontificie: lo fece cacciare appena seppe che frequentava prostitute.
Ma soprattutto rese effettiva la riforma del Concilio di Trento che stentava a decollare, introducendo il Catechismo per i parroci e la famosa Messa in latino (rimasta in vigore fino al Concilio Vaticano II), unica per tutta la Cristianità, potente simbolo di unità e di sentire comune.
Altrettanto severo fu contro l’ingiustizia, non deflettendo nemmeno di fronte ai potenti: Elisabetta d’Inghilterra venne scomunicata per aver fatto uccidere la sorella, Maria la Cattolica. Introdusse i Monti di Pietà per sottrarre i meno abbienti all’usura praticata dai banchieri ebrei (questi ultimi, poi, li protesse dalla furia popolare – di quando in quando insorgente – assegnando loro leggi e quartieri appositi).
Frattanto i Turchi assediavano l’Europa. Cipro era caduta e Marco Antonio Bragadin, comandante della fortezza di Famagosta, era stato scuoiato vivo. Pio V si adoperò in tutti i modi per unire i cristiani in una Lega. Così l’imperatore, il granduca di Toscana, Venezia, l’Ordine di Malta e parecchi principi italiani armarono una flotta che sconfisse (per la prima volta dopo tanto tempo) i Turchi nella battaglia di Lepanto, il 7 ottobre 1571, fermando per sempre i musulmani sul mare.
Il Papa, che aveva ordinato la recita del Rosario in tutta la Cristianità, “vide” soprannaturalmente la vittoria e istituì in ricordo la festa della Madonna del Rosario, Maria SS. della Vittoria. L’imperatore fu avvertito da un messaggero trafelato mentre assisteva alla Messa. Ma non volle che la funzione fosse interrotta. Solo alla fine, con le lacrime agli occhi, fece intonare il solenne Te Deum.
Purtroppo il successo non poté essere sfruttato per la defezione di Venezia, più interessata ai suoi commerci che ad altro. L’anno dopo il santo Papa morì.
Rino CAMMILLERI
tratto da I Santi militari, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 203s.
Famagosta è difesa da settemila uomini e da 500 bocche da fuoco. Le fortificazioni, opera del celebre architetto Sammicheli, sono frutto delle più avanzate concezioni belliche: la cinta rettangolare delle mura, lunga quasi quattro chilometri e rafforzata ai vertici da possenti baluardi, è intervallata da dieci torrioni e coronata da terrapieni larghi fino a trenta metri. Alle spalle le mura sono sovrastate da una decina di forti, detti “cavalieri”, che dominano il mare e tutta la campagna circostante, mentre all’esterno sono circondate da un profondo fossato. La principale direttrice d’attacco è difesa dall’imponente massiccio del forte Andruzzi, davanti al quale si protende, più basso il forte del Rivellino.
Per spaventare i difensori, Mustafà Pascià invia a Famagosta, racchiusa in una cesta, la testa del governatore di Nicosia, Niccolò Dandolo. Ma il Capitano Generale di Famagosta, Marcantonio Bragadin, di antico e nobile casato veneziano, non s’impressiona, respinge ogni intimidazione di resa e dà tutte le disposizioni necessarie per quella lunga ed eroica resistenza “che resterà sempre monumento di gloria negli annali militari”. Bragadin ed i suoi uomini sono convinti che Venezia non li lascerà in balia del turco e che, prima o dopo, arriveranno i sospirati e promessi soccorsi.
Il 22 settembre 1570 il blocco di Famagosta è completo, dopo che anche Creta è caduta in mano agli ottomani. Un esercito di 200 mila uomini l’assedia per via terra, una flotta di 150 navi per via mare. I turchi hanno completato l’accerchiamento della città fino ad un tiro di cannone. Sulle alture circostanti millecinquecento cannoni ed alcuni obici giganteschi tengono sotto il loro micidiale tiro sia la fortezza che i quartieri cittadini; invano i veneziani cercano di salvare i più importanti monumenti e le chiese, ricorrendo a “travate di sostegno e cumuli di sacchetti di sabbia”: tutto crolla o brucia irrimediabilmente e la popolazione, terrorizzata, si rifugia nella fortezza aggravando la già precaria situazione dei combattenti. Tra gravi privazioni e sofferenze – scarseggiano viveri e munizioni – passa così l’inverno 1570.
Nella primavera del 1571 Mustafà Pascià, che fino ad allora si è illuso di far cadere Famagosta per fame, decide di passare all’offensiva. Così all’alba del 19 maggio i millecinquecento cannoni turchi scatenano un bombardamento di potenza inaudita che si prolunga senza soste, notte e giorno, per millesettecentoventotto ore, sino alla fine della battaglia, con una tattica di demolizione sistematica delle postazioni difensive e di debilitazione psicofisica degli avversari che troverà riscontro solo durante l’ultima guerra mondiale con il martellamento italo-tedesco di Malta e con quello americano su Pantelleria. Ma poiché non bastano a piegare Famagosta, le 170 mila cannonate sparate durante la battaglia, Mustafà Pascià passa alla “guerra delle mine”, con un impiego di esplosivo talmente grande per quantità e potenza da risultare senza precedenti.
I turchi scavano nottetempo lunghissimi cunicoli sotto il fossato e raggiungono così le fondamenta dei forti, minandole con forti cariche di esplosivo. Vasti tratti di postazioni saltano improvvisamente per aria sotto i piedi dei veneziani, mentre i turchi attaccano selvaggiamente a più ondate. L’otto luglio cadono su Famagosta 5 mila cannonate: è il preludio ad un ennesimo attacco generale che l’indomani si scatena, più massiccio che mai, contro il forte del Rivellino. Per arrestare i turchi, Bragadin non esita a dar fuoco alle polveri ammassate nei sotterranei della piazzaforte, sacrificando trecento soldati veneziani ed il loro comandante, Roberto Malvezzi. Con loro sotto le macerie del forte rimangono sepolti migliaia di ottomani.
A difendere Famagosta sono rimasti ormai solo duemila uomini, in gran parte feriti, debilitati dalla fame e dalle fatiche. Da tempo, esaurite le vettovaglie, militari e civili ricevono come razione giornaliera un po’ di pane malfermo ed acqua torbida con qualche goccia di aceto. La situazione è disperata, anche se finalmente la Santa Lega contro il turco è stata sottoscritta, il 20 maggio, da tutti gli Stati interessati. Ma la flotta spagnola arriverà a Messina, dove già si sono date appuntamento le altre navi alleate, solo alla fine di agosto, quando ormai Famagosta è costretta a capitolare.
Il 29 luglio i difensori respingono un’altra terribile offensiva del nemico: decine di migliaia di turchi si alternano all’attacco che continua ininterrotto per oltre 48 ore, fino alla sera del 31. Per la prima volta, dopo 72 giorni, i cannoni ottomani finalmente tacciono; centinaia e centinaia di turchi giacciono sul campo di battaglia e sotto le mura della fortezza. Tra gli altri, lo stesso figlio primogenito di Mustafà Pascià. Questi, ignorando le misere condizioni degli assediati e preoccupato per le gravi perdite subite, offre ai veneziani patti insolitamente generosi ed onorevoli: se si arrendono, tutti avranno salvi vita ed averi, la popolazione sarà rispettata, chi lo chiederà sarà trasportato in paese neutrale, onori militari per i vinti.
Marcantonio Bragadin non vuole nemmeno ricevere il messaggero turco e, presagendo quanto sarebbe accaduto in caso di resa, respinge sdegnosamente l’offerta. Ma la maggior parte degli ufficiali, dei soldati, la stessa popolazione invocano la fine di una battaglia troppo impari. Famagosta, abbandonata dalla madrepatria, non ha più alcuna speranza di salvezza: bisogna almeno salvare la vita ai superstiti e salvaguardare la popolazione civile. I rappresentanti dei cittadini, il Vescovo, i magistrati, appositamente convocati, optano tutti per la resa. Tanto più che al primo agosto rimangono solo munizioni per una giornata di fuoco, mentre i difensori ancora validi sono ridotti a settecento (in media uno ogni 50-60 metri del perimetro difensivo).
Così il 4 agosto, dopo dieci mesi di assedio, i turchi possono entrare a Famagosta. Come Bragadin, che non volle firmare l’atto di resa, aveva previsto, i turchi non rispettano i patti. Mustafà Pascià, esasperato per la morte del figlio e dalla mancata espugnazione di Famagosta, soprattutto dopo aver accertato l’esiguità numerica dei veneziani, fa massacrare a tradimento tutti gli ufficiali e deportare come schiavi i soldati. Il colonnello Martinengo, l’unico che aveva avuto il coraggio di accorrere il 24 gennaio 1571 in soccorso di Famagosta a capo di un piccolo manipolo di soldati, è impiccato per tre volte. Marcantonio Bragadin è scuoiato vivo dopo tredici giorni di atroci torture: “… e lentamente staccarono dal suo corpo vivo la pelle, spogliandola in un sol pezzo, a cominciare dalla nuca e dalla schiena, e poi il volto, le braccia, il torace e tutto il resto …”. La pelle riempita di paglia è esposta a guisa di trofeo sull’antenna più alta della nave di Mustafà Pascià.
I turchi lasciarono sotto le mura di Famagosta ben 80 mila uomini, quanti all’inizio avevano destinato alla conquista dell’intera Cipro; i veneziani circa seimila.