Marina Corradi , Avvenire 24 maggio 2005 – Circola un certo malumore fra gli abrogazionisti: il quorum dei votanti si sarebbe, sì, alzato dal 35 al 41 % (trattandosi comunque di intenzioni di voto, attenzione), ma stenterebbe tuttavia a decollare, la gente non si fa coinvolgere, e insomma, ha spiegato sull’Unità di domenica un sondaggista dell’istituto Swg, «se non si alzano i toni di questa campagna referendaria, il quorum non si raggiungerà mai». Bisogna dunque scaldare l’atmosfera, creare il ring. Più piazza, più tv. «Più drammatizzazione e parlare più chiaro», suggerisce ancora l’esperto. Traduce il titolo dell’Unità: «Parlare meno di embrioni e più di salute». Beh, finalmente questo è parlare schietto. Non lo avevano ancora letto così onesto, nero su bianco, come in questo ordine di scuderia pubblico. Meno embrioni e più salute.
Meno embrioni e più salute. Perché quando si parla di embrioni, di vita nascente – anche dopo tanti anni di legge 194, che però riguardava la scelta privata delle donne – una esitazione, una perplessità, una sorta di istintivo tirarsi indietro dal metter mano in quel principio sorge anche in molti laici: compagni, ex compagni, come li si voglia chiamare, e soprattutto di una certa età, tendenzialmente inclini a lasciare l’embrione dov’è, a diventare quel che deve. E dunque, parlare di embrioni strategicamente non rende. Come Capezzone sa bene. E infatti parla d’altro. Della salute, per esempio, che è un diritto, certo – malgrado, potrebbe obiettare uno sciocco, tutti ci ammaliamo, e nonostante questo diritto moriamo perfino. Ma, ci diranno in questi giorni nelle piazze, arringandoci con toni imbonitori per scaldare questo tiepido maggio, ora si può, appunto con la ricerca e la clonazione, avanzare in una meravigliosa medicina che finalmente ci libererà da tutti i nostri peggiori mali. Ci metteremo al di fuori delle direttive dell’Europa e dell’Onu, e pazienza, e su linee di ricerca che sono molto lontane dall’avere una qualsiasi applicazione terapeutica. Ma soprattutto potremo dire d’essere stati fra i primi, assieme alla Corea e al Regno Unito, a usare embrioni umani come serbatoi di materiale di ricambio per curare noi, i nati, gli eletti. Non potendo però usare la parola “embrioni”, che suscita qualche inquietudine, come dire tutto questo? Semplice: la legge 40 vieta la ricerca che potrebbe guarirci da terribili mali. E basta. Così è efficacissimo. E la salute? Soprattutto quella delle donne, che, non si sa perché, pare sia più importante di quella degli uomini, non parliamo di quella degli embrioni. È noto che la legge 40 è una legge “crudele” con le donne, perché in diversi punti, con limiti e divieti, e con l’affermazione dei diritti del concepito, non ammette l’assolutezza di quel “diritto a un figlio” teorizzata da un certo pensiero femminile. “Legge crudele!”, ci diranno dunque nelle piazze. Dimenticando che la maggior parte delle sterilità sono dovute alla elevata età delle madri. Spinte e spesso costrette a lavorare, a far carriera perché questa è ormai l’unica modalità culturalmente ammessa per “realizzarsi”, molte donne cercano un figlio tardi, e allora ricorrono alla provetta, con dolori e fallimenti di cui si dice pochissimo. Ma il femminismo – o ciò che ne resta – tace su questa cultura, più oppressiva della legge 40. E a ognuno la sua parte: più piazza, più tv, alzare i toni, creare il match. Parlare di salute, di ricerca, del nostro radioso futuro. Oppure: tacere. Non nominare gli embrioni. È imbarazzante come già a poche settimane, rannicchiati nel buio, somiglino a uomini.
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