Zapateri nostrani

Incostituzionali “di fatto”
Povera Costituzione. Provincia di Milano, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche ne combinano più di Bertoldo. Chi fermerà gli Zapateri de noantri?
 

Milano, Firenze, Perugia, Ancona, Bologna. Sono tante le capitali d’Italia dove piccoli Zapateri crescono. Pace, immigrati extracomunitari, orientamento sessuale a 360 gradi, radici-cristiane-?-no-grazie, sono i temi favoriti di amministrazioni comunali, provinciali e regionali che, più o meno apertamente, si ispirano al grande timoniere di Madrid. Cominciamo il nostro viaggio con le imprese dell’ultima arrivata della compagnia: la progressistissima giunta della Provincia di Milano.
Premio al Leoncavallo perché ci piace okkupare
La decisione zapaterista del neo-presidente della Provincia di Milano Filippo Penati (Ds) di tributare il prestigioso premio Isimbardi ai campioni di illegalità del Centro sociale Leoncavallo ha sollevato una bufera niente male, ma suona meno surreale quando la si contestualizza con altri “primi passi” del nuovo governo provinciale. Perché attribuire a un gruppo famoso – oltre che per l’elevato consumo di “canne” e i muri e le vetrine imbrattate durante i suoi cortei – soprattutto per l’occupazione abusiva di edifici (a partire da quello della loro sede storica) un premio istituito cinquant’anni fa come Giornata della Riconoscenza nei confronti di coloro che hanno dato lustro alla provincia di Milano in Italia e nel mondo? Ma perché dal 4 novembre u.s. la Provincia di Milano sponsorizza ufficialmente occupazioni abusive di case in tutta Italia. In quella data, infatti, la maggioranza consiliare ha approvato la delibera di adesione alla Rete del Nuovo Municipio, un’associazione di enti locali italiani che aderisce alla Carta del Nuovo Municipio stesa in occasione del Forum sociale mondiale di Porto Alegre del 2002. La Carta di Porto Alegre è stata adattata alla situazione italiana in un incontro a Empoli nel novembre 2003. Al paragrafo “Azioni territoriali e sociali” la nuova Carta di intenti definisce i seguenti obiettivi del Nuovo Municipio: “Contrastare la condizione di perifericità ed emarginazione, ricostruendo lo spazio pubblico attraverso la “gestione creativa dei conflitti” negli spazi contesi della città (spazi sociali, strade e piazze, ecc.), attivando attraverso la partecipazione luoghi di costruzione di un nuovo rapporto tra istituzioni, movimenti e società, realizzando un rapporto positivo con le forme di resistenza, dissenso e conflitto sociale; attivare strategie positive nei confronti dei processi di riappropriazione della città (auto-recupero, auto-costruzione, consolidamento dei luoghi alternativi di socialità e auto-organizzazione e occupazioni)”.
La Provincia di Milano spesera’ i pacifisti
Le proteste dell’opposizione (soprattutto Forza Italia) contro l’adesione alla Rete del Nuovo Municipio e di mezza città (particolarmente scamiciate le iniziative di Alleanza Nazionale) contro il premio al Leonka hanno spinto Penati ad una mezza marcia indietro, che però molti hanno definito come una toppa peggiore del buco: a essere omaggiato non sarà il Centro, ma l’associazione Mamme del Leoncavallo. Per il merito di aver messo al mondo e allevato quei bravi ragazzi? Le altre mamme milanesi hanno da questo momento il diritto di tirare la barba a Penati. Ma il presidente ha già pronta una giustificazione: anche lui si sente un po’ mamma; la sua carica di presidente cumula infatti anche le deleghe a “rapporti istituzionali e comunicazione, diritti dei bambini e delle bambine, senato della terza età, riforma amministrativa, edilizia varia”. Il sito Internet della Provincia provvede poi a ristabilire il politically correct, autodefinendosi “la Provincia per i diritti delle bambine e dei bambini” (si noti l’ordine corretto).
Del resto tutta la giunta provinciale è fatta di assessori (e “assessore”) con titoli lunghi e immaginifici come quelli del Don Chisciotte di Cervantes (uno spagnolo sì, ma che non avrebbe votato Zapatero). C’è Daniela Benelli (Ds), che sfida il principio di non contraddizione e cinquant’anni di dibattiti filosofico-antropologici con la sua carica di “assessora alla cultura, culture e integrazione”; c’è Pietro Mezzi (Verdi) “assessore alla politica del territorio e parchi, Agenda 21, mobilità ciclabile, diritti degli animali”; c’è Irma Domenica Dioli “assessora alla partecipazione, pace, cooperazione internazionale, Idroscalo, sport e tempo libero, politiche giovanili”. In questa esuberanza di titoli spagnoleschi si danno, come ha fatto notare l’opposizione, un po’ di accavallamenti: l’assessore alla viabilità, mobilità e trasporti è Paolo Matteucci (Ds), che potrebbe mettere il bastone fra le ruote (non solo in modo figurato) alla “mobilità ciclabile” di Pietro Mezzi; la delega ai “diritti dei cittadini” permette a Francesca Corso (Comunisti italiani), “assessora” agli affari generali, di interferire coi bambini e le bambine (pardon: le bambine e i bambini) di Penati; di problemi internazionali non si occupa solo la Dioli (“pace, cooperazione internazionale”), ma pure il vicepresidente Alberto Mattioli (Margherita), con la sua delega ai “rapporti con le istituzioni europee e ai rapporti internazionali”. La giunta provinciale ama dal profondo dell’anima la pace, ma rischia a ogni piè sospinto conflitti.
Borse di studio su base razziale
Nel nome della pace la maggioranza provinciale ha dichiarato la Provincia di Milano “Provincia per la pace” e approvato l’adesione della medesima al Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace e i diritti umani. Ma non si è limitata a questo: ha ufficialmente costituito una struttura pubblica, la “Casa della Pace“, “con compiti di raccordo fra gli enti locali e le associazioni pacifiste sul territorio provinciale”. D’ora in poi, insomma, i pacifisti avranno accesso a fondi pubblici e ad una sede pagata col denaro pubblico per le loro campagne antiamericane e antioccidentali. È un caso unico: a Milano esiste già una “Casa della pace”, ma si tratta di un ente del privato sociale che paga l’affitto in locali messi a disposizione dal Comune e si finanzia da sé le sue attività. Con Penati si passa al pacifismo di Stato (pardon: di Provincia) sul modello sovietico.
L’ossessione intorno alla questione della guerra e della pace è probabilmente il motivo per il quale la prima dichiarazione dell’assessore all’Istruzione Giansandro Barzaghi (Rifondazione comunista) subito dopo l’allagamento del liceo Parini è stata: “È chiaro che in questo modo si è voluto colpire pesantemente la scuola pubblica”. Poi si è scoperto che i nemici della scuola pubblica, autori dell’aggressione squadrista, altri non erano che studenti dello stesso liceo allergici ai compiti in classe; resta il fondato sospetto che si tratti di agenti al servizio delle scuole private clerico-fasciste.
Sempre nel nome della pace la Provincia ha pensato bene di istituire borse di studio su base razziale: per vedersi assegnare una delle 360 borse di studio da 500 euro del “Contributo provinciale alla studio straordinario a favore dell’integrazione scolastica” non è necessario dimostrare di essere meritevoli e bisognosi; il rendimento scolastico conta zero, bisogna piuttosto avere la fortuna di essere nati (come pure i propri genitori) “in una delle seguenti aree geografiche: est Europa, America latina, Africa e Asia”. Magari gli studenti poveri italiani o Ue si incazzeranno, ma quelli compresi nel bando rinunceranno ad emulare gli attentatori dell’11 settembre.
Radici cristiane, non vi conosco
Ma è dalla culla del comunismo alle vongole che è partito l’assedio zapaterista alla Costituzione italiana. Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e Marche, armate degli articoli dei rispettivi statuti regionali e nascondendosi dietro a sospette velleità federaliste, stanno infatti tentando la demolizione di alcuni pilastri della società italiana così come la conosciamo. Non per niente il governo ha deciso di impugnare davanti alla Corte costituzionale gli statuti delle prime tre, mentre lo statuto delle Marche, approvato in prima lettura il 4 ottobre e in attesa della seconda, ha già sollevato parecchi interrogativi da parte della società civile e dei cattolici in particolare. Tutti e quattro i testi comunque riportano ben riconoscibili elementi di alta scuola zapatera. Elementi passati grazie a maggioranze bulgare che, nel caso di Umbria e Toscana, hanno goduto anche dell’appoggio dei partiti di minoranza, ammansiti dalla prospettiva dell’aumento delle poltrone a disposizione dei politici locali: il numero dei consiglieri regionali passa da 50 a 65 in Toscana, dove votano a favore dello statuto Ds, Margherita, Sdi, Verdi, An e Fi (42 sì, 2 no e 2 astenuti); in Umbria nasce la figura del consigliere “supplente” che, ripescato tra i non eletti, prende il posto di quello della sua lista che viene promosso assessore, e si oppongono all’approvazione dello statuto il Prc, Idv, un diessino e Carlo Ripa di Meana.
I pilastri della società, dicevamo. Apre le danze la Toscana, con il suo statuto approvato in seconda (e ultima) lettura il 19 luglio. Articolo 1: “La Regione Toscana rappresenta la comunità regionale ed esercita e valorizza la propria autonomia costituzionale nell’unità e indivisibilità della Repubblica italiana, sorta dalla Resistenza, e nel quadro dei princìpi di adesione e sostegno all’Unione Europea”. Fine. Del resto la storia della Toscana prima della Resistenza è cosa trascurabile. Stesso discorso per l’Umbria, il cui Consiglio regionale in data 29 luglio ha approvato in via definitiva il nuovo statuto: l’Umbria è “parte costitutiva della Repubblica italiana una ed indivisibile nata dalla Resistenza”, “riconosce il valore dell’unità nazionale espresso dal Risorgimento” e “opera, nel rispetto della laicità delle istituzioni, per la piena attuazione dei princìpi della Costituzione e della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, riconoscendosi in particolare nei valori di libertà, democrazia, uguaglianza, solidarietà e dell’identità nazionale”. Do you remember san Benedetto? E san Francesco? Beh, ad Assisi già se li stanno dimenticando. Così come a Loreto si devono essere dimenticati della Santa Casa se il Consiglio regionale delle Marche ha potuto approvare uno statuto che nel preambolo ricorda, nell’ordine: il patrimonio storico del Risorgimento, la Repubblica nata dalla Resistenza, l’Assemblea costituente con le sue forze laiche e cattoliche regionaliste, la tradizione laica e la matrice religiosa che hanno segnato la storia della Regione. Sperando forse con quest’ultima “matrice religiosa” di tener buoni i vescovi marchigiani, che nei mesi precedenti il voto avevano continuato a chiedere a gran voce l’inclusione della tradizione “cristiana” e “cattolica” tra i fondamenti dell’identità regionale. Ma i vescovi non hanno gradito.
Famiglia o non famiglia, l’importante E’ convivere
A proposito di pilastri sociali abbattuti e di articoli della Costituzione snobbati, però, l’apice dello zapaterismo Umbria, Marche e Toscana lo hanno raggiunto guardacaso in materia di matrimonio, famiglia e coppie di fatto. Sì, perché in barba alla Costituzione della stessa Repubblica italiana nata dalla Resistenza di cui sopra, la quale recita che la famiglia è una “società naturale fondata sul matrimonio”, gli statuti regionali delle Regioni in questione confondono, quando non stravolgono, i termini della distinzione tra coppie di sposi, coppie di fatto, triangoli e altri poligoni.
Lo statuto della Toscana, all’articolo 4, comma 1, prevede “la tutela e la valorizzazione della famiglia fondata sul matrimonio” (lettera g), nonché “il riconoscimento delle altre forme di convivenza” (lettera h). Da notare la sottile distinzione fra “tutela” della famiglia e “riconoscimento” delle altre forme di convivenza. È più o meno la stessa sottile distinzione che si trova nello statuto dell’Umbria all’articolo 9 (“Famiglia. Forme di convivenza”): “La Regione riconosce i diritti della famiglia e adotta ogni misura idonea a favorire l’adempimento dei compiti che la Costituzione le affida”. Punto e a capo: “Tutela altresì forme di convivenza”.
Insomma, se perlomeno nelle Marche i legislatori si sono solo dimenticati di fondare la famiglia sul matrimonio (art. 4, comma 5), in Umbria e in Toscana invece potranno ottenere riconoscimento tutte, ma proprio tutte le forme di convivenza possibili e immaginabili. Compresa la poligamia.
Comunque, per restare in tema, si sprecano gli esempi di iniziative un po’ così, un po’ liberal, in favore delle minoranze omo nelle Regioni del golpe zapaterista e benedette dalle locali istituzioni. Basta citare la proposta di legge numero 266 della Regione Toscana approvata il 10 novembre dal Consiglio regionale, “Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”. La proposta di legge, come denuncia un appello alla Corte Costituzionale firmato da un gruppo di giuristi e professionisti (ripreso e rilanciato da Radio Maria il 28 novembre), “dà per scontato che ogni persona debba nella propria vita operare una “scelta dell’orientamento sessuale o della identità di genere””. E lascia intendere che “per la Regione, ogni scelta sessuale avrebbe lo stesso valore e sarebbe degna di una positiva promozione. Tutto questo contro il comune buon senso ed il retto uso della ragione che ci conferma come il maschile ed il femminile sono dati appartenenti ontologicamente alla natura umana”. Oppure, un po’ meno zapatera ma molto chic lo stesso, la proposta di legge numero 382, “Norme di organizzazione degli interventi sull’uso problematico di sostanze psicoattive e sulle dipendenze patologiche nel servizio sanitario regionale”, cioé sull’uso di droghe, contro il quale la Regione dovrebbe per esempio garantire “l’offerta gratuita di analisi delle sostanze per i consumatori” e “la predisposizione di luoghi igienicamente idonei presso i quali è possibile l’assunzione di sostanze”.
Statuto dell’Emilia-Romagna: cancellati 18 secoli di storia
Dopo la Toscana, quello dell’Emilia-Romagna è lo statuto che ha collezionato il maggior numero di obiezioni da parte del governo: ben dieci, tutte portate davanti alla Consulta della Corte costituzionale dall’avvocato dello Stato; riguardano materie prettamente politiche ed amministrative come il diritto di voto agli stranieri, le attività di rilievo internazionale della Regione, Bologna città metropolitana, ecc. Ma le obiezioni culturalmente più forti sono quelle portate al preambolo dello statuto dai vescovi emiliano-romagnoli. Nel loro comunicato del 3 luglio scorso eccepivano che “il preambolo misconosce il ruolo avuto dalla fede in Cristo nella formazione dell’identità regionale. Proclamare che la Regione Emilia-Romagna si fonda sui valori del Risorgimento e della Resistenza al nazismo e al fascismo, senza identificare nelle vicende della Regione alcun altro valore fondativo, significa censurare diciotto secoli di storia. La menzione generica dell’esistenza di un “patrimonio religioso”, non inserito peraltro fra i valori fondativi, sembra riferirsi ad un patrimonio giacente e infruttifero, più che a una radice ancora viva e vitale, quali in realtà sono state e sono tuttora in questa Regione le comunità cristiane nate dalla fede in Cristo”. La famiglia è degradata a “una delle tante formazioni sociali intermedie attraverso le quali si realizza il principio della sussidiarietà orizzontale”. Principio lodevolmente affermato dallo statuto, ma “in termini riduttivi, come forma di integrazione subordinata o di mera supplenza dell’intervento pubblico”. In Consiglio regionale l’opposizione aveva cercato di migliorare il testo, ma invano. Marco Lombardi (Forza Italia) ha proposto un emendamento volto a sancire il diritto alla vita di ogni individuo: respinto nonostante il voto favorevole della Margherita; Vincenzo Tassi (An) ne ha proposto un altro che suonava come condanna di tutti i totalitarismi: respinto. Sempre Lombardi ha proposto un emendamento, cui era favorevole anche la Margherita, che riconosceva esplicitamente il valore delle radici cristiane: respinto. Mauro Bosi della Margherita ha presentato un emendamento che riconosceva e sosteneva i diritti della famiglia intesa, in base alla Costituzione, come società naturale fondata sul matrimonio: l’opposizione ha votato a favore, la maggioranza contro, e l’emendamento è stato respinto.
Se sono molto scontente, le opposizioni emiliano-romagnole e la Margherita potrebbero prendere esempio dalla Provincia di Milano, che si dice pronta a istituire contro-istituzioni se quelle esistenti dovessero continuare a mostrarsi sorde. Nella Carta di intenti della Rete del Nuovo Municipio troviamo scritto: “Qualora il contesto politico-istituzionale del governo locale non attivi e non favorisca le pratiche e i princìpi del Nuovo Municipio, diviene diretto referente della Rete quel tessuto di iniziative dal basso, di cantieri sociali di trasformazione esistente in molti territori. In questi casi è quindi una sorta di Contro Municipio organizzato dal basso che viene messo all’opera da parte di associazioni, soggetti sociali, comitati, comunità di base”. A Milano la Provincia promuoverà il Contro Municipio contro l’odiato Albertini, in Emilia-Romagna potrebbero attivare una Contro Regione. Nel nome della pace, naturalmente.

di Rodolfo Casadei e Pietro Piccinini

Tempi Numero: 49 – 2 Dicembre 2004