Rassegna della legislazione europea
prof. José Ignacio Alonso Pérez, Università di Macerata
© Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 2 – anno XI, Agosto 2003, ed. il Mulino Bologna
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1. Premessa
L’indiscutibile importanza sociale che ha assunto la convivenza stabile non matrimoniale in tutta Europa (1), insieme alla sua effettiva regolamentazione nella maggior parte dei paesi occidentali, ci spinge ad esaminare le norme legislative d’oltralpe al di là degli interessi della stretta comparazione (2), per tentare di stabilire come viene effettuato il riconoscimento giuridico delle unioni civili (3). Allo stesso modo che la rivoluzione copernicana, permettendo di calcolare in modo certo le dei pianeti, comportò mutamenti concettuali nel campo della cosmologia, della fisica, della filosofia, delle tecniche di navigazione ed anche della religione (4), la mutazione del concetto di “unione” produce oggi trasformazioni concettuali nel campo del diritto di famiglia (filiazione, eredità. etc.), del diritto costituzionale, del diritto amministrativo ed anche del diritto ecclesiastico (rapporti con le confessione religiose, rivalutazione della forma canonica).
Per l’ecclesiasticista non è irrilevante che questa mutazione avvenga proprio in un momento di crisi delle religioni tradizionali in Europa (5).
La convivenza affettiva fuori del matrimonio non si può dire una situazione nuova e neanche allena agli interessi del giurista, sia che ci si occupi di diritto moderno6 che antico (7). Diversa è la situazione se si parla del riconoscimento giuridico di queste convivente in un istituto che è nuovo: l’unione civile. Effettivamente finora si poteva parlare della convivenza dentro il matrimonio e, relativamente alle coppie di fatto, nel concubinato. Ma dal momento che l’ordinamento giuridico riconosce e regolamenta alcuni modelli di convivenza fuori del matrimonio si crea una triplice partizione della convivenza affettivo-sessuale: da una parte il matrimonio, dall’altra alcuni modelli di convivenza extra-matrimoniale riconosciuti dal diritto – le unioni civili o convivenze registrate – e finalmente, oltre i margini istituzionali dell’ordinamento, le coppie o unioni di fatto, che per alcuni rimangono al riparo di un cono d’ombra del “non-diritto” (8). Ma non solo: oltre la convivenza a base affettiva, si trova un altro tipo di unione ove l’elemento affettivo-sessuale non è fondante, ma piuttosto irrilevante, giacché può osservi o meno: sono le unioni assistenziali o solidaristiche (9). In più, come succede In tanti altri ambiti (10), non abbiamo un modello di qualificazione comune per tutti i paesi membri dell’Unione Europea, nemmeno nella denominazione di questo tipo di unioni (11).
Di particolare interesse, anche se oggetto di ampia discussione, è stato il riconoscimento delle “unioni civili” formate da due persone dello stesso sesso. Indipendentemente da qualunque valutazione si osserva che, una volta riconosciute le unioni civili, il riconoscimento di quelle costituite da omosessuali e un passaggio scontato in tutti gli ordinamenti, lasciando da parte le forti considerazioni di coloro che riconoscono la famiglia soltanto all’interno del matrimonio. Infatti i paesi che si sono dotati da recente di una disciplina sulle c.d. “famiglie di fatto” applicano lo stesso regime o uno molto simile ad ambedue i modelli di coppie (12). I motivi di queste scelte – al momento di procedere alla loro regolamentazione – non scaturiscono necessariamente dalla presa d’atto che è mutato il concetto stesso di famiglia basata sul matrimonio, ma dalla necessità di tutelare gli interessi dei singoli che hanno dato vita a queste unioni, in modo particolare i figli avuti in comune e il sostentamento del convivente, considerato che comunque la convivenza ha avuto un rilievo economico (15). Sotto questo profilo non è possibile trovare differenze tra le unioni costituite tra uomo e donna e quelle tra persone dello stesso sesso, giacché non è la famiglia ne tanto meno il matrimonio a porsi a fondamento di tale protezione, ma la necessità di tutelare le condizioni economiche di ognuno dei componenti di queste unioni.
L’interesse dell’ecclesiasticista per questo particolare settore del diritto di famiglia ci sembra più che giustificato. Le confessioni religiose e, in genere, i credi religiosi offrono una visione cosmologica totale della vita degli individui, nel mondo presente e nell’aldilà. Nell’ordine temporale non vi sono realtà che possano sfuggire alle valutazioni, giudizi o illuminazioni dal sacro, giacché fede e ragione – almeno dalla prospettiva confessionale (14) – non sono poste in contrapposizione, ma piuttosto costituiscono due profili che si completano a vicenda, in modo tale che si fa un invito a tutti Ì fedeli a “esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio” (15). Infatti non sono
mancate le illuminazioni ne i moniti rivolti verso i fedeli, ma anche verso i legislatori, sul fenomeno del quale ci si occupa (16).
La tendenza alla stabilità è una caratteristica propria dei diritti delle confessioni religiose poiché esse basano i loro insegnamenti su diritti di carattere divino che, quando sono trasposti nell’ambito giuridico civile, si convertono in modelli dottrinari dogmatici che escludono gli altri modelli (17), mostrandosi poco sensibili alle trasformazioni storiche, sociali ed economiche (18).
Sembra inutile, in questa sede, dedicare molta attenzione alla rilevanza civile del matrimonio religioso, poiché dalla copiosa bibliografia esistente e dai lavori precedenti alla firma dell’Accordo di modificazioni del 18 febbraio 1984 la sua importanza risulta di notoria evidenza. Ma proprio a causa di questa rilevanza non si può non prestare attenzione al fenomeno del progressivo abbandono dell’unione matrimoniale a favore di altre unioni, inclusa quella more uxorio, al punto da potersi ipotizzare dépassée et contraignante il matrimonio religioso con effetti civili, uno dei filoni più consistenti e classici del diritto ecclesiastico.
Da altra parte, come si è già dimostrato (19), il diritto canonico è interessato nello studio del concetto di coppia che soggiace a queste unioni allo scopo di verificare una sua eventuale compatibilità con il matrimonio canonico in relazione al recupero del negozio matrimoniale invalido attraverso la convalidazione o la sanatio in radice (20). Le confessioni religiose in generale e la Chiesa cattolica in particolare hanno sempre mostrato un grande interesse per la famiglia (21), che hanno sempre fondato esclusivamente sul matrimonio. Perciò non deve sorprendere l’importanza che ben presto si è dato nel diritto canonico allo studio di questi nuovi fenomeni (22).
2. I lineamenti europei
Negli ultimi decenni le basi del diritto familiare europeo sono state scosse da profonde modificazioni intervenute nella legislazione degli Stati membri. A questa evoluzione ha contribuito anche il mutato indirizzo degli organi centrali dell’Unione Europea (23), Di particolare importanza in questo processo è risultata la Risoluzione del Parlamento Europeo del 1994 sulla parità dei diritti degli omosessuali nella Comunità (Risoluzione del Parlamento Europeo dell’8 febbraio 1994 sulla parità dei diritti per gli omosessuali nella Comunità) che, sebbene mancante di forza obbligante per i paesi membri, si è stata assunta come punto di riferimento comune – esplicitamente nei preamboli o dichiarazione di intenzioni delle leggi – della maggior parte della legislazione in materia. Tale Risoluzione raccomanda di porre fine agli ostacoli frapposti al matrimonio di coppie omosessuali ovvero a istituti giuridici equivalenti e anche di togliere qualsiasi limitazione del diritto degli omosessuali ad adottare o avere in affidamento dei bambini (24). Successivamente vi sono state altre risoluzioni che sono servite di fatto a monitorare le norme di alcuni paesi membri in materia e a insistere sull’urgenza della applicazione della Risoluzione anzidetta (25).
3. Convivenza registrata: paesi del Nord d’Europa e Germania
I paesi del nord d’Europa – Danimarca (26), Islanda (27), Norvegia (28) e Finlandia (29) – sono stati i primi a regolamentare la convivenza non matrimoniale – la legge danese è del 1989 – e presentano grande omogeneità nelle regolamentazione del fenomeno. Sicuramente esse costituiscono “la prima ondata” di interventi che testimonia l’approccio giuridico diretto al fenomeno. La principale caratterista è la loro attenzione per le sole coppie formate da persone dello stesso sesso. I conviventi possono registrare la loro intenzione e sottomettersi cosi a una serie di diritti e obblighi che normalmente rimandano alla regolamentazione del matrimonio, Cosi i conviventi registrati hanno verso gli altri conviventi gli stessi obblighi previsti per il matrimonio, partecipano anche della stessa situazione patrimoniale e così via.
Diversa è stata l’evoluzione legislativa in Svezia (30). La legge 232/1987 (31) regolava la convivenza tra persone di sesso diverso, ma soltanto relativamente alla casa in comune e ai beni familiari. Non si trattava quindi di una legge che creava le “unioni civili”, ma soltanto riconosceva alcuni effetti giuridici alle “unioni di fatto” tra un uomo ed una donna (32). Il contenuto della legge 232/1987 fu esteso anche agli omosessuali con la legge 814/1987, ma non si istituzionalizzarono ancora le “unioni civili”. Questa legge non è basata sulla convivenza affettivo-sessuale, ma su qualunque convivenza domestica, al punto di poter dire che si tratta ancora di una semplice “unione assistenziale”. La disciplina svedese sulla convivenza domestica – anche quella norvegese – gode di un’applicazione automatica, indipendentemente dalla volontà dei conviventi, allo scopo di proteggere il convivente più debole (33). Bisognerà aspettare il 23 giugno 1994, data di approvazione di una nuova legge sulla Convivenza registrata (34), per trovare una vera istituzionalizzazione o regolamentazione completa delle unioni civili. Ma questa è diretta soltanto alle coppie di persone dello stesso sesso che vogliono registrare la loro unione, in modo tale che in Svezia le “unioni civili” esistono soltanto per gli omosessuali, non per la convivenza tra un uomo ed una donna, che sarà giuridicamente regolamentata mediante il matrimonio o mediante una “unione assistenziale” di convivenza domestica.
Queste leggi sono nate per dare una soluzione ai problemi delle persone che non possono contrarre matrimonio, vale a dire solo per le coppie omosessuali. Di fatto però esse creano un modello di matrimonio “inferiore”, giacché riconoscono a queste coppie gli stessi effetti del matrimonio (35), tranne alcuni effetti esplicitamente segnalati. Ma va fortemente rilevata la totale equiparazione che c’è tra le convivenze non matrimoniali tra uomo e donna e quelle tra persone dello stesso sesso, se
si escludono il diritto di adozione e il diritto ad usufruire delle leggi sull’inseminazione artificiale. Nessuna delle leggi prevedeva il diritto di adozione per queste coppie. Solo la Danimarca ha riformato la sua legge nel 1999 per riconoscere al convivente la possibilità di adottare il figlio del suo convivente, sempre che il bambino sia danese (36).
Più tardi la Germania ha approvato una legge simile nel febbraio 2001 (37) che si è dimostrata debitrice dalle leggi scandinave nei suoi contenuti e poco innovativa (38). La Legge tedesca crea un modello di convivenza registrata riservata a persone dello stesso sesso che, senza rimandare alla legislazione matrimoniale, ne riproduce uno per uno i suoi elementi: uso dei cognomi, successioni, divisione delle spese comuni, diritto degli alimenti al scioglimento, ecc.
Il fatto che tutte le leggi di “convivenza registrata” riservano l’accesso a tale istituto ai soli omosessuali fa emergere due dati di alto interesse giuridico. Da una parte si accetta totalmente l’unione degli omosessuali e, dall’altro, si fa sì che il modello ufficializzato di tale convivenze divenga il modello veramente alternativo al matrimonio, per quanto si riconosca la loro diversità intrinseca basata nella differenziazione sessuale. In conclusione si può dire che tali convivenze sono tagliate sul modello matrimoniale al quale somigliano in tutto tranne nei limiti anzidetti, il che fa sì che in ultima analisi esse ripropongono il modello di fondo del matrimonio, rafforzando l’istituto.
4. Unioni assistenziali: Francia e Belgio
L’approvazione della legge francese del 15 novembre 1999 sul Pacte civil de solidarité (Pacs) (39) ha contribuito a rinnovare in tutta Europa l’interesse per la convivenza non matrimoniale registrata (40), magari a causa più dell’importanza e prestigio che il diritto gallico ha sempre avuto nei Continente che dello scarso valore che ha nell’evoluzione del concetto giuridico della convivenza. In questa ottica va letta la decisione 99-149 del 9 novembre 1999 del Conseil Constituionnel (41), che riteneva che la conclusione di un Pacs non incide sullo stato civile, giacché il legame che sorge da esso non è né di parentela né di coniugio.
Recita l’articolo 515-1 del codice civile francese che “Un pacte civil de solidarité est un contrat condii par deux personnes physiques majeures, de scxe différent ou de méme sexe, pour organiser leur vie communc”. Effettivamente si tratta di un contratto che nasconde la mancanza di un regime totale per regolamentare i rapporti scaturenti della convivenza e che si allontana così dal regime sullo status, anche se in una materia così delicata quale la vita comune (42). Si configura così un
regime che ben possiamo dire eclettico, nel senso che non prende forma come un vero contratto rette dal principio dell’autonomia contrattuale su tutti gli aspetti dei rapporti tra le parti, ma neanche costituisce un modello di status, sebbene attribuisca automaticamente molti effetti tipici di quello matrimoniale (43).
Questo Patto di solidarietà non altera lo status giuridico delle persone, ma costituisce un patto di aiuto mutuo e materiale (art. 515-4) e perciò non è registrato nel Registro civile, ma nel Tribunale (art. 515-3). Il patto si può sciogliere unilateralmente con la dichiarazione di volontà, che si presume, ad esempio, esistente nel contratto di nuove nozze (art. 515-7), per quanto si intende che un tale patto di aiuto non è compatibile con il matrimonio, ma è da esso distinto.
Il Pacs non si presenta quindi come una soluzione per coloro che non possono accedere al matrimonio, ma come un’unione assistenziale sulla quale non incide la caratterizzazione sessuale perché essa non è posta a base del rapporto; lo stesso avviene con la convivenza, che non è neanche richiesta. Nonostante non stia alla base di tale negozio l’intenzione di dare una regolamentazione alle coppie omosessuali che non possono accedere al matrimonio – giacché il Pacs e aperto anche a coloro che possono contrarre matrimonio – e benché questo contratto non sia omologato al matrimonio, esso sembra tuttavia costituire un modello matrimoniale alleggerito nella tutela dell’ordinamento verso i contraenti. Si giunge a tale conclusione a causa dell’incertezza di elementi che nel matrimonio sono inderogabili (successioni, regime patrimoniale,
compensazione allo scioglimento…), benché riecheggi sempre il modello matrimoniale; cosi, ad esempio, il divieto di costituzione del Patto tra parenti o affini fino il terzo grado, nonché tra persone che siano già legate da un altro Pacs. Questa limitazione si spiega, a somiglianza del matrimonio, tenendo conto del contenuto sessuale del Pacs, che lo differenzia quindi da altri tipi di unioni assistenziali come quella belga.
Questa indefinibilità materiale della natura del Pacs, che colloca tale istituto tra il matrimonio e l’unione assistenziale, non è sicuramente encomiabile. Più importante e degna di nota ci pare, invece, la chiarezza terminologica del Legislatore francese che distingue chiaramente il supposto del matrimonio e dei Pacs dal “concubinato”, definito come “une union de fait, caractériséc par une vie commune presentant un caractère de stabilité et de continuité, entre deux personnes, de sexe différent ou de mème sexe, qui vivent en couple” (art. 515-8).
Differente dal patto civile di solidarietà del diritto francese, anche se con effetti molto simili, è la “cohabitation legale” prevista dal diritto belga, istituita dalla legge del 23 novembre 1994 (44), che introduce gli artt. 1475-1479 nel Codice civile. L’articolo 1475 § 1 definisce la “coabitazione legale” come “la situation de vie commune de deux personnes ayant fait une déclaration au sens de l’article 1476”. Questa vita comune non altera a nulla lo stato civile della persona e può comprendere persone legate da qualunque legame diverso dal matrimonio e altra coabitazione (art. 1475 § 2. 1); in altre parole, i legami di parentela sono indifferenti. I coabitanti possono essere di sesso differente o dello stesso sesso, ma, a differenza del Pacs del diritto francese, la cohabitation legale del diritto belga non ha una connotazione sessuale. E per questo che nella legislazione belga non troviamo il divieto di instaurazione relativo alle persone legate da parentela o affinità in linea retta o collaterale.
La legge esige soltanto che le parti non siano legate da altra coabitazione legale. Gli effetti riconosciuti dal diritto sono veramente molto ristretti, limitati appena alla responsabilità solidale per le obbligazioni assunte da ogni convivente e all’obbligo di condividere le spese comuni, lasciando da parte ogni previsione sugli effetti economici successivi alla fine, in vita o mortis causa, della coabitazione. Possiamo quindi concludere che la “coabitazione legale” belga è una semplice unione assistenziale che fornisce una protezione minima ai conviventi (45).
Queste leggi si allontanano sicuramente dal centro della discussione sociale sul valore della tradizionale configurazione del matrimonio e, in genere, della convivenza affettivo-sessuale per addentrarsi nella convivenza non affettiva attraverso la creazione dell’istituto della “unione assistenziale”, detta anche “di mutuo aiuto” o “solidaristica”. La marcata fuga dai problemi della caratterizzazione sessuale, che sono invece alla base del malessere di settori della società, e la sua indefinizione e, magari, inadeguatezza sembrerebbero prospettare modifiche nei rispettivi ordinamenti in un lasso di tempo breve.
5. Matrimonio: Olanda
Radicalmente differente è il modello presente in Olanda. Nel 1997 venne approvata una legge che riconosceva a tutte le coppie, anche omosessuali, la possibilità di registrare la loro convivenza e di avere gli stessi effetti del matrimonio, esclusi i rapporti con i figli (46). Possiamo dire che questa legge si inseriva nel filone delle leggi del nord Europa sulla convivenza e in un certo senso ne perfezionava gli effetti. Infatti questa regolamentazione ha efficacia, per la prima volta, per tutte le
convivenze, indipendentemente dal sesso e anche dalla nazionalità dei membri della coppia, ai quali non è più richiesto – come avviene per le leggi nordiche – la nazionalità olandese, ma soltanto il possesso della residenza e la legittimità della loro presenza nel paese.
La regolamentazione della convivenza registrata olandese è quasi identica a quella matrimoniale, differenziandosi dal matrimonio – oltre a quanto sopra detto – nel modo di scioglimento. La costituzione di tale convivenza registrata crea dei legami giuridici tra i conviventi uguali a quelli matrimoniali (47): fedeltà, obbligo della convivenza, comunione dei beni (a richiesta), responsabilità solidale per debiti, diritto di successione… Il suo scioglimento è molto agevolato quando è di comune accordo, giacché basta un documento pubblico che si trasmette al registro dello stato civile, ovviando così le procedure matrimoniali del divorzio.
La Legge del 1997 sarebbe stata di per sé sufficiente per captare l’attenzione dei comparatisti di tutto il mondo, ma nel 2000 è avvenuta una riforma del codice civile olandese che ha trasformato totalmente il quadro della normativa finora presente in Europa e nel mondo. Con la legge 9/2000 si riforma il Codice civile nel senso di allargare il matrimonio alle coppie omosessuali (48). Per prima volta nella storia la legislazione civile di uno Stato prescinde della caratterizzazione sessuale per dare vita a un matrimonio; si rompe cosi il sostiate etico-sociale comune di tutta Europa che riconosce nel matrimonio l’unione tra un uomo e una donna, allo stesso modo dei diritti confessionali, soprattutto di quello cristiano-cattolico (49). Inoltre, la legge 10/2000 consente l’adozione non già a una persona da sola, ma anche a due persone insieme, indipendentemente dal loro sesso (50). Con queste riforme, a nostro avviso, epocali si introduce non solo un istituto nuovo accanto al matrimonio per regolamentare la convivenza delle persone, ma si trasforma il concetto di matrimonio, non più conforme al nostro diritto tradizionale e al matrimonio canonico.
6. Unioni di fatto e c. d. unioni di fatto: Portogallo e Spagna
Il fenomeno della convivenza affettiva non matrimoniale non è tanto diffuso nei paesi mediterranei come in quelli del Nord e Centro di Europa, Non ci occuperemo in questa sede delle cause sociali e giuridiche, anche se alcune di esse – trattandosi di paesi concordatari – sono oggetto del nostro interesse. Ciò premesso, anche questi Paesi hanno intrapreso, seppur attraverso un percorso non sempre lineare, il processo di regolamentazione di tali convivenze. A causa dei punti in comune con il nostro ordinamento e del loro influsso su alcune delle proposte di legge che sono state presentate in Italia, ci soffermeremo più lungamente su alcuni particolari relativi alla Spagna e al Portogallo.
Il Portogallo ha legiferato due volte in brevissimo tempo sulle “unioni di fatto”. In nessuna di queste leggi si offre una definizione della “uniao de facto” (51). La prima volta che troviamo un riferimento normativo a queste unioni è nel 1977, quando l’articolo 2020 del Codice Civile usò questa espressione per riferirsi alla situazione di persone che non essendo sposate convivevano come se lo fossero. In questo modo si sostituì la precedente circonlocuzione dello stesso articolo che parlava di “comunhào duradoura de vida em condicoes analogas às dos cónjuges”. Già allora si considerava questo tipo di convivenza come qualcosa di diverso dal semplice concubinato (52), per quanto questo ultimo non comporta il vivere come se si fosse sposati, ma soltanto una comunione di letto.
In particolare è stato oggetto di discussione in Portogallo se le unioni di fatto erano tutelate o meno dalla Costituzione ed, eventualmente, alla luce di quale principio costituzionale: se nella dimensione o profilo negativo del diritto a contrarre matrimonio tutelato dall’art, 36. 1° della Cost. o se dall’art. 26. 1 che assicura il diritto allo sviluppo della personalità (53). Inoltre, alcuni autori non accettano che l’unione di fatto costituisca una relazione familiare, una relazione familiare tout court, ma piuttosto riconoscono ad essa soltanto alcuni effetti tipici della famiglia (54).
Prova della mancanza di questa volontà istituzionalizzante è, a nostro avviso, l’incertezza presente al momento della costituzione dell’unione di fatto, che non viene registrata ne nel registro civile ne in nessun altro tipo di registro amministrativo. In questo modo solo la prova testimoniale può fare fede del momento della sua nascita al senso di iniziare
a conteggiare i due anni richiesti dalla legge per meritarne la tutela. Nei paesi ove si sono istituzionalizzate le unioni di fatto in forma di “convivenze registrate” o “unioni civili” si è lasciate le vere “unioni di fatto” – cioè, quelle che rimangono al margine di qualunque formalità – prive di una legge che raccolga tutte le norme relative ad esse; in Portogallo, invece, non si è voluto trasformare le “unioni di fatto” in “unioni registrate” e perciò si riportano soltanto le norme che già le tutelavano. Così non è possibile parlare nel Portogallo di una vera “unione registrata”, ma piuttosto di una semplice “unione di fatto”.
La legge del 2001 abroga completamente la precedente del 1999 (55), ma non suppone nessuna rottura con essa, giacché si limita a raccogliere un elenco delle misure protettive che già erano presenti, in modo caotico, nella legislazione precedente (56). Infatti questa legge non pretende di istituzionalizzare le unioni di fatto, ma, come dice nel proprio titolo, adottare misure per la protezione delle unioni di fatto.
La principale differenza tra le due leggi si trova nell’individuazione delle coppie a cui e diretta: nell’ari. 1 della legge del 1999 si tutelavano solo i rapporti tra persone di differente sesso, anche se per la verità questo non escludeva che le coppie di persone dello stesso sesso godessero degli effetti di altre leggi (57); la legge del 2001 si applica (art. 1), invece, anche alle persone dello stesso sesso in tutto, tranne l’adozione (art. 7). Solamente nella legge del 2001 si riconoscono effetti legali a
queste unioni, a condizione che durino da almeno due anni. Non possono formare unioni di fatto le persone con impedimento dirimente; non potendo sposarsi, sarebbe contraddittorio che il diritto ne tutelasse le unioni di fatto. Nulla si dice sulla validità delle stipulo di contratto tra i conviventi per regolamentare gli effetti patrimoniali del loro rapporto. Coerentemente con l’assenza di formalità nell’instaurazione del rapporto è possibile effettuare la rottura senza nessuna formalità e liberamente.
In Spagna (58) spicca con forza la presenza di diverse leggi a carattere regionale sulla materia, al punto da poter parlare di un fenomeno di plurilegislazione sulle unioni di fatto. Nonostante siano state presentate numerose proposte di legge al Parlamento nazionale, non si dispone ancora di una legge dello Stato per le unioni di fatto. Questo non vuol dire che il settore resti privo di normazione, bensì che sono state approvate un largo numero di leggi regionali, che va sempre aumentando. Questa situazione si può comprendere e spiegare e può avere un fondamento giuridico solo se si tiene conto della coesistenza dentro lo stesso sistema civile di più diritti civili regionali (59) e della configurazione territoriale dello Stato (60). Al momento si dispone di leggi regionali in Catalogna (61), Aragona (62), Navarra (63), Valencia (64), Isole Baleari (65). Madrid (66), Asturie (67) e Andalusia (68), mentre in molte delle altre Comunità autonome sono state già presentate diverse proposte di legge.
Tutte queste leggi sono applicabili alle coppie indipendentemente dal loro sesso, fatta eccezione della Legge catalana, che prevede al suo interno due regolamentazioni leggermente diverse per le coppie eterosessuali e per le coppie omosessuali (69). Da questo punto di vista queste normative hanno già superato la prima tendenza delle leggi scandinave applicabili solo alle unioni omosessuali.
Il regime matrimoniale è caratterizzato dalla presenza di un regime patrimoniale anche in assenza di accordi prematrimoniali (artt. 1318 ss. Cod. Civ. Spag.) e questi ultimi, ove ve ne fossero, non possono essere contrari ai contenuti minimi fissati dalla legge, né al buon costume, né possono limitare l’eguaglianza di diritti che aspetta a ogni coniuge (art. 1328 Cod. Civ, Spag.). La situazione patrimoniale delle convenzioni contrattuali tra i conviventi è limitata ugualmente (art. 5. 1 Legge
aragonese, art, 4. 1 Legge valencìana, art. 4.1 Legge balear, articolo5. 1 Legge navarra, art. 4. 4 Legge matritense). Oltre questi limiti dell’ordinamento le leggi regionali si muovono tra due vettori:
1) il forte richiamo al principio di libertà dei patti presente in alcune leggi (art, 10 Legge Andalusa, art. 5. 1 Legge asturiana), anche se nel caso asturiano, valenciano e di Madrid si dice solennemente che tali patti non sono opponibili a terzi e che hanno effetto solo tra i contraenti;
2) la tendenza a creare una serie di principi applicabili nel caso della mancanza di patto o accordo prematrimoniale tra le parti – così nella Legge catalana (artt. 3. 2 e 22. 2), la Legge navarra (art, 5- 3), la Legge aragonese (art. 5. 3), Legge valenciana (art. 4. 2) e la Legge matritense (art. 4. 3).
Se il richiamo alla libertà contrattuale configurerebbe alcune di queste leggi come simili ai Patti civili di solidarietà francesi, i principi applicabili in mancanza di accordo prematrimoniale rendono sempre più somigliante la situazione economica della unione civile al regime statico del matrimonio (70), allo stesso modo di quanto avviene nei paesi scandinavi – soprattutto le leggi della Catalogna, Aragona e Navarra. In ogni caso, non possiamo parlare di uniformità legislativa nella regolamentazione delle situazioni patrimoniali delle unioni civile nelle diverse regioni, poiché la situazione della convivenza costituita in unioni civili gode di effetti economici diversi da quelli scaturiti del regime economico matrimoniale. Nel caso del matrimonio, perfino quando si è optato per il regime di separazione di beni, i coniugi hanno un particolare ruolo di tutela dell’altro coniuge quando questo si trovasse in situazione di disagio. Nonostante la tendenza a fissare una serie di effetti economici non soggetti all’autonomia delle parti nelle unioni civili, esse continuano ad essere più convenienti sotto questo profilo per quanto, a differenza del matrimonio, non sono sempre inserite in un vero “regime” caratterizzato dalla staticità e danno grande spazio all’autonomia contrattuale, al di là delle procedure per la sua instaurazione o per la separazione (71).
In alcune di queste leggi si ammette l’adozione per le coppie eterosessuali, ma solo la Legge Navarra permette alle coppie formate da persone dello stesso sesso di adottare come coppia con gli stessi diritti delle coppie matrimoniali (art. 8).
Alcune di queste leggi portano nel titolo il nome delle “unioni di fatto” e poi ne definiscono e istituzionalizzano la struttura giuridica; ne viene che, anche se i legislatori si ostinano a nominarle formalmente “unioni di fatto”, tale denominazione è impropria; corrisponderebbe alla realtà altra del tipo di “unione civile” o “convivenza registrata”, secondo i casi. Tale istituzionalizzazione ha fatto sicuramente perdere l’attenzione sulla circostanza che le vere “unioni di fatto” – quelle formate da coppie che non intendono formalizzare in nessun modo la loro convivenza ~. non sono tutelate in modo diretto dall’ordinamento.
Questa autonomia, mitigata nella configurazione dei rapporti patrimoniali tra i membri dell’unione, sembrerebbe situare queste normative non troppo lontano dai contratti di convivenza – anche se in modo relativamente eclettico – e dalle leggi nordiche sulla convivenza registrata. Perciò sembrerebbe utile e non più rinviabile l’intervento dello Stato in questa materia attraverso l’emanazione di una legge statale che definisca unitariamente la natura di queste unioni, sia che le rimandi all’interno delle unioni assistenziali e quindi eviti ogni parallelismo con il matrimonio, sia che le omologhi al matrimonio, basandosi sul contenuto affettivo-sessuale di esse.
7. Il caso italiano
L’Italia è uno dei pochi Stati membri dell’Unione Europea che non si è dotato di una norma generale che regoli globalmente la materia delle convivenze tra persone fuori del matrimonio. Questo non vuol dire indifferenza da parte del legislatore italiano verso questo fenomeno, giacché sono stati presentati alcuni progetti di legge (72), ma sicuramente rispecchia incertezze e remore circa l’opportunità di regolamentare, e in quale modo, una siffatta relazione. L’approvazione in Europa di diverse leggi sulle unioni civili e le profonde innovazioni della legislazione in materia matrimoniale hanno contribuito a rinnovare e a risvegliare il bisogno dell’ordinamento italiano di dotarsi di una legge che consenta di passare dall’attuale situazione nella quale queste unioni riguardano soprattutto l’ambito dell’autonomia privata – potendo giustamente parlarsi dei contratti di convivenza – a un nuovo assetto giuridico nel quale queste unioni, o almeno una parte di esse, non restino estranee alla tutela giuridica, pur mantenendo un’ampia possibilità di regolamentazione che può oscillare tra un’ampia autonomia delle pani nella configurazione della propria unione (73) e altri modelli di unioni ove prevalga l’interesse pubblico e la certezza dei rapporti giuridici (74).
Al momento non possiamo riferirci alle “unioni civili”, cioè alle unioni di convivenza non matrimoniale previste dal Legislatore dalla loro nascita alla loro fine, ma soltanto alle unioni di fatto e alle famiglie di fatto. Sulle unioni di fatto abbiamo un insieme frammentario di norme soprattutto a carattere regionale che riconoscono qualche effetto a queste situazioni. Così la normativa regionale sull’assegnazione di edilizia pubblica (75), le norme sull’indennità per i consiglieri regionali (76), la legislazione antimafia (77) ed altre (78), ma si tratta di norme eterogenee e spesso tra di loro contraddittorie.
8. Considerazioni conclusive
Le diverse leggi approvate negli Stati d’Europa mettono in dubbio che il matrimonio abbia le proprie fondamenta nel diritto naturale e trasformano il disegno di un diritto privato europeo e quello dei singoli Stati a proposito dell’istituto matrimoniale e della convivenza sul quale si è sviluppato l’Occidente per secoli (79). Viene rimessa in discussione una delle classiche formazioni sociali che era stata la base fondante di molti ordinamenti. Le mutazioni radicali dei modelli di convivenza che sono ancora in corso In Europa avvengono ad ondate o fasi successive che approfondiscono le distanze con il modello di matrimonio canonico in modo quasi sistematico, seppur non articolato. Questo processo di decadenza di tradizionali istituti giuridici portai insita la spontanea creazione di un insieme, ancora non articolato, di preoccupazioni sociali e giuridiche che danno i lineamenti del nuovo diritto di famiglia europeo e l’individuazione delle nuove cellule sociali, non più basate sulla tradizione dei modelli confessionali, ma fortemente influenzate da una nuova etica laica.
Molti dei modelli proposti – quelli più tradizionali – altro non sono che lo specchio del modello matrimoniale applicato però a un caso non previsto, alle coppie omosessuali. Altre unioni si staccano veramente da tale modello per basarsi sull’aiuto e assistenza mutua, al di là di altre considerazioni affettive che possono sorgere all’interno della coppia. E ancora presto per capire quale sia la solidità di questi nuovi istituti che pretendono di concorrere, quando non di sostituire, il matrimonio conosciuto da secoli.
Queste leggi mettono sicuramente in luce le ripercussioni della convivenza non matrimoniale su diversi settori dell’ordinamento, indipendentemente dalla loro configurazione giuridica. Oggi nessuno discute più su tale rilievo, ma soltanto sulle modalità di codesto riconoscimento. Dall’insieme delle leggi sulla convivenza non matrimoniale si evince con forza la mancanza di un modello comune in Europa. Tutte le leggi nazionali sono accomunate da attribuire rilievo alla convivenza indipendentemente dai legami giuridici che ne sono alla base.
Oggi si parla giustamente di crisi del matrimonio. Non sono, però, sicuramente queste leggi sulla convivenza non matrimoniale a mettere in crisi il concetto di matrimonio nella nostra società, bensì il progressivo svuotamento istituzionale che ha subito negli ordinamenti secolari durante il Novecento, insieme alla crisi etica che trapassa la società e la crisi delle religioni in Europa, Le nuove normative sulla convivenza non matrimoniale aprono spazi giuridici a coloro che non possono o vogliono rientrare nella legislazione matrimoniale, sottoponendoli alla luce del diritto, sia quando si offre loro la quasi omologazione al matrimonio sia quando si riconosce loro solo alcuni effetti minimali scaturenti dal rilievo della loro convivenza.
Relativamente alle coppie di conviventi costituite da persone dello stesso sesso si può continuare a considerale sostanzialmente diverse dal matrimonio, creando quindi un modello di unione civile riservato agli omosessuali e omologabile al matrimonio per salvare la differenza concettuale tra i due istituti – come nella convivenza registrata dei modelli scandinavi – o si può, nella direzione di alcune regioni spagnole. configurare le nuove “unioni civili” indipendentemente dal sesso dei
componenti e omologarle al matrimonio, mettendo questo in crisi. L’altro modello è quello dell’ordinamento olandese, che, oltre a offrire una gamma differenziata di opzioni possibili per stabilire relazioni di vita comune, ha deciso di dirompere con la tradizione giuridica precedente creando un nuovo modello di matrimonio. Meno convincenti risultano gli approfondimenti dei rapporti di convivenza sotto il profilo privatistico, come si è fatto in Francia o in Portogallo.
Alcuni parlano della necessità del ritorno al matrimonio (80) come soluzione alle incertezze che concernono lo status delle persone e il regime giuridico applicabile. Ma non c’è dubbio che la crisi dei modelli sociali solidaristici, dei servizi pubblici e dello stato sociale fanno emergere due esigenze parallele, anche se differenti: il bisogno della tutela solidaristica all’interno di rapporti interpersonali e la tutela, indipendentemente dalla differenza di genere, dei rapporti di vita comune che risponde ad esigenze di affermazione e di realizzazione individuale. Fino a quando questi bisogni continueranno a crescere, non potrà che aumentare la richiesta di differenziazione dei regimi giuridici di convivenza.