Intervista a Suor Grazia Loparco
ROMA, martedì, 18 gennaio 2005 (ZENIT.org).- Nessuno sa esattamente quanti Ebrei furono nascosti e salvati in Europa dalla Chiesa cattolica. Secondo lo storico ebreo Emilio Pinchas Lapide, già console generale a Milano “la Santa Sede, i Nunzi e la Chiesa cattolica hanno salvato da morte certa tra i 740.00 e gli 850.000 Ebrei” (cfr. E.P. Lapide, “Three Popes and the jews”, Londra, 1967).
Si calcola che in Italia più dell’80% degli Ebrei scampò al genocidio nazista. Solo a Roma la Comunità ebraica ha attestato che la Chiesa ha salvato dalla Shoah 4.447 Ebrei.
Per ricostruire le vicende e documentare una pagina di storia che nel giro di pochi anni andrebbe perduta, a causa della carenza di documentazione scritta e della rapida scomparsa dei protagonisti, l’associazione culturale “Coordinamento Storici Religiosi” (www.storicireligiosi.it), sta conducendo una ricerca sugli Ebrei ospitati nelle case religiose di Roma tra l’autunno 1943 e il 4 giugno 1944.
Intervistata da ZENIT, Suor Grazia Loparco, fma, docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà “Auxilium”, e vicepresidente dell’associazione, ha spiegato che tale ricerca “costituisce un punto di partenza, in vista di una ricostruzione più ampia, che abbraccia lo stesso fenomeno nel centro-nord Italia, dove l’emergenza assunse connotazioni proprie e più prolungate, e al tempo stesso interessò numeri localmente più contenuti rispetto alla grande comunità romana”.
Quanti Ebrei furono salvati dalla Chiesa cattolica a Roma? E chi li salvò in particolare?
Suor Grazia: La comunità ebraica nel 1943 era costituita da 10.000 – 12.000 Ebrei. Secondo gli studiosi è difficile precisare il numero, tanto più che durante il conflitto altri Ebrei raggiunsero la capitale da altri stati europei, sperando di trovare maggiore sicurezza.
La ricerca avviata nel 2002-2003 consente di accertare un numero minimo di 4.300 Ebrei circa, ospitati nelle case religiose. Sicuramente si tratta di una cifra per difetto, sulla base della prima ricognizione pubblicata da De Felice nel 1961, che riprendeva un articolo della Civiltà Cattolica dello stesso anno, firmato da padre Robert Leiber.
Nella tabella che è stata pubblicata, in caso d’incertezza, ho tenuto il numero più basso. Non sarà possibile arrivare ai numeri precisi, sia perché non tutti i testimoni sapevano distinguere tra gli ospiti chi fosse ebreo e chi no (e il più delle volte furono compresenti anche renitenti alla leva o perseguitati politici), sia perché mancano elenchi nominativi, con rarissime eccezioni. Si aggiunga che talora gli Ebrei non rivelavano la propria identità, o era nota solo ai superiori.
Un ulteriore motivo di imprecisione è dovuta al fatto che la nostra ricerca concerne le case religiose e le parrocchie affidate a religiosi, non le parrocchie affidate al clero diocesano.
Si può supporre con fondamento che almeno la metà degli Ebrei romani trovarono rifugio presso istituzioni ecclesiali. Poco più di mille furono arrestati la mattina del 16 ottobre 1943 e alcune altre centinaia in seguito, soprattutto a causa delle delazioni, poiché per ogni Ebreo segnalato e arrestato si guadagnavano 5.000 Lire, mentre per le donne e i bambini 3.000 Lire.
Gli Ebrei in estremo pericolo, a causa del 16 ottobre 1943, trovarono immediato rifugio presso conoscenti, amici, a volte personale di servizio o commercianti cattolici; case religiose maschili e femminili, fino ai monasteri di clausura che non avrebbero potuto accoglierli senza una dispensa; parrocchie, seminari.
Non sempre però rimasero nello stesso luogo. Diventava molto difficile restare nascosti presso le famiglie private, perciò in molti casi cercarono rifugio nelle case religiose. E anche lì talora si spostarono.
Dopo il nascondimento immediato nei luoghi più centrali della città, vari cercarono di spostarsi verso zone più periferiche, potenzialmente più tranquille. Non di rado religiose e religiosi nascosero gli Ebrei sotto gli occhi dei nazisti, vicinissimi a edifici requisiti.
In che modo era organizzata la rete di assistenza ai perseguitati, e in quale misura il Pontefice Pio XII intervenne per sostenerla?
Suor Grazia: Vari testimoni ricordano le direttive provenienti oralmente da ecclesiastici vaticani circa l’opportunità di aprire conventi e istituti poiché era “l’ora della carità”. E la maggioranza lo fece, nella consapevolezza di non far altro che il proprio dovere, essendo in gioco la vita di persone ingiustamente perseguitate.
C’era la Delasem, un’organizzazione che prestò aiuti economici agli Ebrei in difficoltà, e c’era il mitico padre cappuccino, p. Benoit, che insieme ad altri lavorò nei pressi della Stazione Termini per fornire carte d’identità false e altri documenti, con la collaborazione di religiosi e religiose, oltre che di dipendenti comunali, di giovani di Azione Cattolica. Anche presso le Catacombe di Priscilla ci fu un altro nodo della rete di documenti falsi.
Alcune case religiose ricordano di aver ricevuto viveri dal Vaticano per alimentare gli Ebrei, che non di rado ingrossavano a decine il numero dei membri delle comunità. Ma molte altre volte, soprattutto le testimonianze delle religiose parlano dei grossi sacrifici per condividere il poco che avevano, razionato dalle tessere; il ricorso alla questua e al mercato nero per poter acquisire il necessario.
A volte gli Ebrei potevano pagare una pensione o provvedere direttamente al vitto, e molte volte no. Quasi mai, su migliaia di persone, vennero mandati via per non aver avuto di che pagare per mantenersi. Si aggiunga che l’ospitalità avveniva in modalità differenti secondo la tipologia delle opere: a volte si potevano ospitare interi nuclei familiari, altre volte solo donne e bambini, o uomini e ragazzi, o solo bambini senza adulti. Era importante poter camuffare le presenze tra gli abituali ospiti delle case.
In vari casi tuttavia gli Ebrei furono nascosti in cantine, rifugi sotterranei, stanze occultate, solai, sottoscala, trampetti… potendo uscire per sgranchirsi le gambe e prendere aria solo dopo l’orario scolastico. Trattandosi di ospedali e cliniche erano invece mimetizzati coi degenti.
Per alcune città come Firenze è certo che il cardinal Elia Dalla Costa fornì un elenco delle case religiose a cui gli Ebrei avrebbero potuto rivolgersi. A Roma sembrerebbe che la prontezza degli interventi fosse dettata dall’immediatezza dell’emergenza, a cui fece riscontro anche una rete capillare di collaborazione. Ad esempio il Sacro Cuore dei Salesiani, nei pressi della stazione Termini, divenne un centro di smistamento di gente da collocare, e non fu l’unico.
Dalla documentazione e dalle testimonianze emerge il pieno appoggio, e anzi l’invito di Pio XII, che, seppur solo orale, all’epoca era letto come un ordine autorevolissimo. Molti fatti concreti lo provano, come l’apertura di monasteri di clausura e conventi; il fatto che molti Ebrei venissero ospitati per diretto interessamento del Vaticano; alimenti e altre attività assistenziali fornite dallo stesso.
Non potrei dire di più, poiché è precluso l’accesso sia all’Archivio storico del vicariato di Roma per quel periodo, sia l’Archivio Segreto Vaticano, dove certamente si trova documentazione a riguardo, come lasciano trasparire alcuni indizi reperiti negli archivi degli istituti religiosi.
Nelle scorse settimane ci sono state molte polemiche intorno alla questione dei bambini ebrei strappati dalla Chiesa cattolica alla furia nazista, e poi in alcuni casi battezzati. Può dirci quali erano le direttive Vaticane in merito e quale fu l’incidenza di questo fenomeno a Roma?
Suor Grazia: Nella città di Roma si verificarono dei casi di richiesta di battesimo da parte di adulti e talora di giovani. Rarissimi casi (un solo istituto su centinaia) parlano di battesimi a bambini.
Un esempio può essere indice della mentalità del tempo: una suora racconta che portava con sé la bottiglia dell’acqua quando suonava l’allarme e dovevano nascondersi nei rifugi, perché, in caso di estremo pericolo, avrebbe battezzato i piccoli orfani che le erano affidati. Era la mentalità dell’ extra Ecclesia nulla salus.
Non ci fu bisogno. Invece ci sono testimonianze di Ebrei, all’epoca giovani o ragazzini, che sentirono il pieno rispetto della loro fede; la facilitazione e l’incoraggiamento a pregare secondo i propri usi; talora la condivisione della preghiera di qualche salmo con le religiose, nei casi di pericolo e di paura.
Altre volte si è accennato a una certa insistenza affinché gli ospiti si interessassero alla fede cattolica, al dispiacere che non potessero accedere alla salvezza, alla speranza di una conversione futura. Ma chi difendeva le proprie convinzioni veniva rispettato e non di rado ammirato per la coerenza.
Qualche volta si dissuase qualcuno che chiedeva il battesimo più nella speranza di cavarsela, che per vera convinzione. E rimasero ospiti di case religiose anche alcuni ragazzi che non sapevano dove andare al termine della guerra, fino al completamento della formazione professionale. Ovviamente senza passare per il battesimo.
È certo che il contatto diretto sciolse i pregiudizi residui, reciproci, in molti casi: religiose e religiosi erano pronti a riconoscere qualità umane e morali degli Ebrei che ospitavano. Lunghe amicizie conservate negli anni provano che la stima e la condivisione reale delle ragioni della vita non furono condizionate dall’appartenenza religiosa.
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