Testimonianze di accoglienza (2004)

LETTERA PERIODICA
strumento di informazione delle famiglie per l’accoglienza
Anno XIII – numero 61 GIUGNO2004


Un’accoglienza non prevista

Paolo Arosio racconta della sua esperienza di medico e genitore di un figlio down e della compagnia tra famiglie orginata da questo fatto, dalla quale è nato il gruppo degli “Amici di
Giovanni”.
Sono neonatologo e lavoro presso l’ospedale di Monza, dove è nata mia figlia Agnese.Le ho fatto io la diagnosi di sindrome di Down.
Un’accoglienza non prevista. È proprio così, perché uno pensa che certe cose capitino agli altri, soprattutto i medici sono abituati a vederlo sugli altri e dicono: “A me non capiterà”.
La prima cosa che ti succede è uno stato di choc, anche se subito ti fai l’immagine di quello che può essere, il senso di colpa, la confusione, la depressione sono immediate. C’è quindi una prima fase di disperazione e poi c’è, come dire, una razionalizzazione e una accettazione di quello che ti capita. La prima cosa è, cioè, che la tua libertà è drammaticamente chiamata
in causa, per un’accoglienza che è un abbracciare tuo figlio.
In questi ultimi anni è molto cambiato l’approccio alla sindrome di Down, la possibilità di tenere questi bambini in famiglia, di seguirli a scuola e di metterli anche nel mondo del lavoro.
Dopo la fase di scompaginamento ho affrontato tutte le visite mediche che si potevano fare – per vedere e chiarire se vi era una cardiopatia, problemi di vista, cerebrali o di tiroide. Ho fatto anche una ricerca bibliografica, andando su Internet a vedere quello che fanno nel mondo… tutto questo ha un risvolto positivo, perché è come un prendere a cuore la situazione oltre che un’accoglierla, un’accettarla e anche un muoverti in modo da tentare di dare l’aiuto maggiore possibile. Mi ricordo che la prima cosa che ho fatto è stata di andare dalla prof.ssa
Minoli a Milano che si occupa di bambini down da oltre 30 anni per sentire cosa fare e come comportarsi, perché bisogna dare il meglio ai nostri figli. Mi è rimasto impresso il fatto che lei, quando mi ha visto, mi abbia abbracciato e mi abbia detto, prima di tutto, di non mettermi le mani nei capelli. Come a dire che c’è tutto un cammino da fare che è positivo È stata per me una grande accoglienza, una speranza! Poi c’è stato un lungo colloquio: l’altra cosa a cui mi aveva rimandato era quella di contattare subito l’associazione dei bimbi down in
modo da conoscere le famiglie che avevano avuto già dei bambini così e vedere come proseguire la cosa, ma questo mi aveva lasciato un po’ perplesso. Con queste famiglie non sapevo cosa fare, perché volevo stare con i miei amici, sapevo già quello che dovevo fare da un punto di vista medico, però quello che non volevo fare era cambiare la mia vita, volevo stare con chi fa questa strada con me.
Un altro aspetto che ho subito affrontato è quello della libertà che viene subito messa in gioco: doverlo dire agli altri bambini, benché piccoli, ai parenti … È la tua sicurezza e quello fai che gli altri vedono nei tuoi occhi, tanto è vero che poi mia madre ha avuto una grande accettazione di Agnese, anche maggiore di quella di altri miei parenti: la vedeva normale,
sottolineava gli aspetti positivi, (si muove, ha un bel carattere, mangia).
Gli altri miei figli erano piccoli (nove, sette e cinque anni): con loro è stato più facile. Luca diceva che Agnese aveva gli occhi da cinese e mi chiedeva se lei era nostra … e tu a spiegargli
che la sindrome di Down è così, che vanno aiutati, ma l’unica cosa che notava erano gli occhi “a cinese”.
Un’altra cosa che subito fai è mettere in discussione il rapporto di coppia, nel senso che vieni chiamato a guardarti in faccia e ti chiedi che senso ha quello che ti è capitato, perché proprio
a te, come mai ti è capitato questo. Credo che la risposta che uno tenta di darsi in modo teorico, si trovi vivendo il fatto e cercando di condividerlo; di fronte ad un evento così non
si può essere genitori da soli, il grande aiuto che ti viene da un’esperienza del genere è quello di approfondire quello che si è incontrato.
Per me e mia moglie ha voluto dire approfondire l’amicizia con il movimento di Comunione e Liberazione che da anni seguivamo e che da anni ci chiamava a una profondità nel vedere le cose che capitavano e, quindi, incontrare altre famiglie avevano avuto un figlio con una disabilità e quindi condividere con loro questa esperienza. È nata in questo modo l’amicizia
degli “amici di Giovanni”.
Giovanni è figlio di Tiziana e Claudio, un bimbo down che è nato nel mio ospedale. Incontrandoci abbiamo cominciato a frequentarci, da due famiglie poi siamo diventati di più: il motivo iniziale è stato quello di condivider l’esperienza che ci era capitata, cioè avere un figlio con dei problemi, ma poi abbiamo proseguito perché era nata un’amicizia profonda.
Questa amicizia è andata avanti attraverso fatti concreti, abbiamo cominciato a trovarci e a me come medico ponevano domande sulla malattia, così, guardando su internet o cercando cosa era stato detto all’ultimo congresso sulla sindrome di Down abbiamo visto che davano le multivitamine ai bambini. Giovanni aveva dei problemi di cataratta bilaterale così lo abbiamo fatto operare prima a Monza poi a Como; ha fatto delle visite al Riguarda poi è andato anche in America e quindi abbiamo messo questa esperienza in comune. Si sono aggregate via via altre famiglie. Il nostro trovarci, anche se il tema centrale era sempre un problema ben preciso, la sindrome di Down, richiamava sempre il perché si era insieme, perché ci era capitato questo, quindi andavamo al profondo dell’accettazione dei nostri figli, l’accoglienza dei nostri figli e questo era buono se era buono per noi; questo ci dava gioia e letizia.
Abbiamo affrontato il problema della scuola, anche perché si erano aggregate a noi famiglie con figli più grandi o in età scolare o con figli con problemi nell’inserimento nel mondo del lavoro: abbiamo invitato ai nostri incontri esperti nel campo ad esempio la dottoressa Aliberti, una neuropsichiatria infantile di Varese, fondatrice dell’Anaconda; con lei abbiamo iniziato un percorso di condivisione, di aiuto alle nostre famiglie, è anche una delle responsabili del corso che stiamo facendo a Bergamo quest’anno.
Un altro problema che abbiamo affrontato è stato quello della scuola: tre anni fa abbiamo incontrato l’eurodeputato Mario Mauro e a lui abbiamo posto delle domande concrete sull’accettazione dei nostri figli sia nella scuole statali che nelle scuole private.
L’altro punto che abbiamo affrontato è stato quello del mondo del lavoro, famiglie con ragazzi più grandi avevano questo problema di introdurre i propri figli nel mondo del lavoro; è nata così un’amicizia con Lorenzo Crosta; alcuni dei nostri figli vanno nella cooperativa di Crosta; a Bergamo è nata anche la Cooperativa Aldiva diversamente abili che aiuta all’introduzione nel mondo del lavoro i ragazzi con delle disabilità.
Tre anni fa aiutati da don Mauro Inzoli che ci ha seguiti in questo percorso, è nato il problema di come rendere più stabile questa amicizia che diventava via via più grande e di trovare un ambiente che aiutasse in questo cammino, siamo così entrati nella associazione Famiglie per l’Accoglienza come gruppo Amici di Giovanni e questo è stato un aiuto grande perché ha allargato il nostro orizzonte e ha dato stabilità alla nostra compagnia, tanto è vero che due anni fa abbiamo organizzato il primo corso sull’handicap e non è stato altro che raccontare, stimolati agli amici dell’associazione Famiglie per l’Accoglienza, tre anni di esperienza di cammino e di incontri con figure professionali e amici che ci hanno seguito in questo. L’aiuto più grande è venuto considerando questo nostro percorso dentro un’amicizia, un’amicizia che è legata alla passione per il proprio destino, per il destino di ognuno di noi e quindi il destino dei nostri figli. Chiarendo il nostro destino e lo sguardo che abbiamo su noi stessi, si chiarisce anche il destino dei nostri figli, cioè non si può lavorare o fare qualcosa per i nostri figli se non si ha chiaro quello che ci è capitato e il perché ci è capitato; questa non è una cosa teorica, ma è dentro un cammino preciso. Dentro una compagnia così è possibile vivere questa fatica.


 


Sulla neve con tanti amici


Sandro e Patrizia – una famiglia “normale” – hanno partecipato alla vacanza organizzata dagli Amici di Giovanni in Valle Brembana alla fine di marzo (circa 70 i partecipanti). Al ritorno, hanno scritto questa lettera al giornalino parrocchiale di Cervia raccontando la loro esperienza.
Doveva essere una semplice vacanza sulla neve, nelle aspettative niente di più. L’invito ci era stato fatto da dei nostri amici che, a dire il vero, andavano anche per un altro motivo.
Il loro terzo figlio, Enzo di 3 anni e mezzo, è affetto dalla sindrome di Down e così come loro, molte altre famiglie, con figli portatori di handicap, si sono date appuntamento a San Simone (BG) per una piccola vacanza e per mettere in comune i loro bisogni e le loro esperienze. Queste famiglie hanno costituito l’Associazione amici di Giovanni, che prende il nome appunto da un bambino appartenente ad una delle famiglie che hanno promosso questa realtà.
L’accoglienza e il calore di questa gente ci hanno coinvolto fin da subito, noi che all’inizio ci sentivamo un po’ come intrusi. Abbiamo potuto constatare un’umanità grande e un’apertura verso gli altri straordinaria, le loro storie ci hanno toccato. Io non sono sicuramente in grado di esprimere con queste righe quanto di bello i miei occhi hanno visto, come questi genitori siano desiderosi per questi loro figli di vederli trattare come tutte le altre persone e non, anche se caritatevolmente, come esseri di seconda categoria; come la nascita di un figlio down possa essere definita un fatto positivo per la propria vita e come quella nascita abbia cambiato in meglio la propria umanità ed abbia permesso di guardare anche gli altri partendo dal desiderio comune di felicità.
La straordinaria capacità di accoglienza di queste persone (tra l’altro diverse coppie hanno figli adottivi) ha fatto dire a mia moglie: “Siete così bravi che sembra quasi sia stati scelti per questo compito”.
La loro testimonianza di come l’incontro con Cristo faccia guardare positivamente la
realtà, anche nei suoi risvolti più spiacevoli, e come le fatiche della vita non siano obiezioni alla felicità, ci ha arricchito in modo inaspettato. Abbiamo vissuto questi quattro giorni in una straordinaria normalità, godendo del sole e della neve, dei balli e delle feste. Al ritorno, meditando su questa esperienza, mi era evidente che l’handicap più grave è quello di chi non ha la gioia del cuore, lasciavamo questi amici normali per ritornare nel nostro mondo di handicappati.
Sandro


Testimonianze


 “La ferita che ci fa più vicini al Mistero”


Tramite G., affetto da disturbo autistico, genitori, insegnanti e terapeuti sono stati trascinati in un’esperienza che continuamente educa. Un’esperienza di accoglienza talmente umana e concreta, che può essere valida per tutti, quindi proponibile a tutti.
Essere i genitori di G., un bambino di otto anni affetto da un disturbo generalizzato dello sviluppo di tipo autistico, significa accettare ogni giorno di vivere quello che qualcun altro ha deciso essere il meglio per noi. Quando la sua malattia si è palesata, sei anni fa, abbiamo consapevolmente scelto di affrontare la sua e la nostra fatica con speranza e fiducia, respingendo la tentazione di considerare quest’esperienza come un di meno, come uno scherzo del destino. Ci siamo vicendevolmente richiamati a  non finire in una spirale di domande, fatta di sterili perché. La memoria di quello che avevamo vissuto in anni di esperienza cristiana, ci ha aiutato a comprendere che quella realtà preparata per noi era ed è la nostra unica concreta possibilità di essere felici. Tramite G. il Signore ci ha trascinato, come sposi e come genitori, in un’esperienza che continuamente ci educa e ci cambia. In particolare, la patologia del nostro bambino, che si esprime come una chiusura alla relazione e alla realtà, ci ha chiesto di essere una presenza serena, ma vera, che possa provocare in lui il desiderio di aderire alla vita.
Ma come si può spingere un bambino chiuso ad aprirsi alla realtà, ci chiedevamo, se non comunicandogli che la vita è bella, che è degna di fiducia, che è parte di un disegno di bene?
Tentando una lettura, forse semplicistica, della storia di G., ci pare che  accompagnarlo all’approccio con la realtà abbia fatto scaturire i desideri e i bisogni del suo cuore e la voglia di comunicarli.
Se siamo riusciti ad aiutarlo è perché anche noi da lì siamo partiti, dallo scoprire e custodire i bisogni del suo cuore, dall’assecondare i suoi interessi, le sue affezioni, dall’amarlo nella sua unicità, dal valorizzare la sua presenza, dal riconoscere in lui la nostra stessa nostalgia di un abbraccio più grande. E, nel farlo, abbiamo imparato che non c’è altro modo di accogliere chi ci è affidato: nostra moglie, nostro marito, i nostri altri figli, i nostri amici. Insomma, fare tutto questo per lui, ci ha aiutato a scoprirlo vero anche per noi.
G. non è un normale bambino di 8 anni, se per normale s’intende un bambino che padroneggi tutte le abilità richieste ai suoi coetanei. Ma la sua umanità è piena, completa, normale, se crediamo alle parole del Papa, quando dice che quello che definisce radicalmente questi figli è ciò che tutti noi condividiamo, e cioè il bisogno di essere salvati. Nostro figlio, con la sua ferita, il suo limite, è tra le realtà della nostra storia, quella più vicina all’origine stessa della vita, al mistero. Lo è per noi, quando ci affidiamo, quando non facciamo resistenza e la smettiamo di voler  decidere e controllare tutto, quando guardiamo l’altro con la libertà di riconoscerlo
come appartenente a qualcuno più grande di noi. Lo è per le sue maestre, per i suoi compagni, per i terapisti che lo seguono, quando riescono a rinunciare ai loro progetti, ai loro pregiudizi, alle loro idee su ciò che definisce l’uomo.
Da ciascuna di queste persone G. ha ricevuto molto: non solo tempo e dedizione, ma anche stima. Sono loro che tutti i giorni lo fanno sentire apprezzato, che lo incitano all’impegno e alle responsabilità, che, con la loro fiducia in lui, lo rendono sempre più autonomo, sempre più protagonista della sua vita. Tra noi genitori, a cui è chiesta una simile accoglienza, è nato il desiderio di aiutarci, di farci compagnia, per essere una presenza di bene e di speranza per i nostri bambini. Vogliamo essere semplici, vogliamo lasciarci educare, consapevoli che questo non ci toglierà la fatica e il dolore, ma darà loro significato. L’incontro con Famiglie per l’Accoglienza e con gli Amici di Giovanni ci testimonia un modo soddisfacente e possibile di rispondere alla vocazione che è già presente nella nostra realtà, un’esperienza talmente umana e concreta che può essere valida per tutti, quindi proponibile a tutti.
Ennio



“La ferita che ci fa più vicini al mistero”


Davanti all’accoglienza o anche solo all’ipotesi di fare un’accoglienza la prima domanda che sorge è: “Ma i miei figli?”. E, d’altra parte, qual è il senso, il valore dell’esperienza che facciamo per i nostri figli, che sono chiamati ad accogliere insieme a noi quelli a cui apriamo la porta della nostra famiglia?
In queste pagine, brani di un intervento della dott.ssa Luisa Bassani e alcune lettere e testimonianze compongono una sorta di dialogo su queste domande.
Luisa Bassani
“Come tener conto dei figli nel dire sì o no ad un’accoglienza? Come stare davanti al loro egoismo, davanti al loro no? Cosa rende buono questo percorso di accoglienza? Non è che sto togliendo loro qualcosa?”


Dato che questa accoglienza è ciò che compie te ed che insieme con vostro marito avete guardato questa strada come una strada per compimento vostro, lo stesso motivo che rende ragione a voi è il motivo che rende ragione per i figli; non rende ragione alla loro capacità di capirlo. È da lì che nasce tutto il problema perché noi come adulti partiamo da un incontro avvenuto per noi che ci rende chiara la ragione, i nostri figli no. Quello che ci rende ragione dell’accoglienza che andiamo a fare è un incontro nella nostra vita che ha reso ragione a noi; ma ai nostri figli non possiamo dirlo prima e pretendere che seguano un percorso differente.
Faranno lo stesso percorso che abbiamo fatto noi, ma attraverso l’incontro che noi ci assumeremo il rischio di far fare a loro. È questa la questione che ci mette tanto in difficoltà: perché noi ci rendiamo conto che i nostri figli queste ragioni non le hanno per niente chiare e da lì nasce tutta la fatica dei loro no, delle loro resistenze. E’ allora palese a tutti che non possiamo chiedere ai nostri figli se vogliono o no che noi facciamo affido: è una responsabilità che è tutta dei genitori, tutta delle persone che costituiscono la coppia, dove il tutto comprende anche l’adeguatezza, il realismo, la sensibilità e l’attenzione che abbiamo verso i nostri figli. Non possiamo ributtare sulle loro spalle la responsabilità di dirci un sì o un no – però noi genitori abbiamo anche la responsabilità di scegliere tenendo conto di che figli abbiamo.
Nel momento in cui la decisione parte ci vuole realismo. Ma il realismo non sta nel sondare la volontà dei figli, sta nel tener conto dei figli in base alla tua sensibilità, nella forza del tuo percorso, non nel loro, perché dopo, quando gli avete fatto dire di sì, spesso viene poi da dire:
“Te l’avevo chiesto, adesso non rompere”, soprattutto se hanno dai dodici ai diciassette anni.
Noi vorremmo che in questa esperienza loro potessero già gustare il frutto di quello che invece è solo un seme piantato, perché attraverso l’accoglienza che noi  mettiamo in atto, ai nostri figli non diamo il frutto, noi piantiamo in loro un seme che nel tempo darà frutto, se Dio vorrà. La coscienza nostra è questa: affidiamo un seme sul riconoscimento di un bene accaduto per noi, di un frutto che noi cominciamo a gustare e di cui seminiamo nei nostri figli . Quindi è molto difficile che vediamo un frutto pieno in loro, in loro vediamo la fatica di questo seme che si affossa, vediamo solo la terra dura, che nel tempo genererà, sperando in Dio, la pianta che dà il frutto di cui noi in qualche modo abbiamo intuito il gusto e che ci permettiamo quindi di consegnare ai nostri figli. La questione è quindi di come tener conto dei nostri figli in questa scelta. Con realismo, cioè non ricattati dalla loro ipotetica fatica;
con realismo su di noi, su quelle che sono le nostre possibilità, le nostre forze, ma insieme coscienti che portiamo una cosa più grande di quello che le nostre forze ci permettono di portare, portiamo una cosa più grande perché l’abbiamo già sperimentata. (…) I ragazzi hanno questa idea: “Ma certo, fatelo venire, poi tanto a me cosa me ne frega, lo prendono loro, poi io ho i miei amici, vado a scuola, alla fine di cosa si tratterà, di un compagno di giochi se è piccolo o di uno a cui dare una pacca sulle spalle se è un po’ più grandino…” Questo, ovviamente, salta dopo due-tre giorni perché di tale diversità non si può non tener conto. Ci si rende conto che si inserisce in modo “invadente”, non sta al suo posto, magari anche se non fa proprio niente, non sta al suo posto di estraneo. Poi dopo un po’ quello che arriva fa anche delle cose un po’ strane, diverse, non necessariamente perché si comporta male o è handicappato o ha delle difficoltà; fa delle cose che possono irritare o addirittura spaventare perché assolutamente nuove rispetto a quello a cui siamo abituati (…) mette in moto dei comportamenti che nei ragazzini possono realmente irritare sempre, spaventare a volte.
Perché? Perché fanno risuonare bisogni, istinti, pulsioni che non si sono mai permessi di mettere in moto.
Si muove spesso nei nostri figli una molla di difesa dei genitori. Quindi alzano una specie di barriera difensiva intorno alla coppia genitoriale.(…) Come tutelare i nostri
figli? Ciò che tutela è la certezza del rapporto.
Quello che realmente tutela dal sentirsi espropriati come figli dall’amore genitoriale è il rapporto che con questi figli si ha. Per questo va tutelato, per questo aspetto di andare fino in fondo a questa nostra genitorialità naturale per consentire che questa cosa diventi fonte anche di possibile accoglienza per il figlio che arriva in casa attraverso l’affido – forma di generare diversa da quella che abbiamo avuto per i nostri figli e che non significa che bisogna dare a tutti uguale, che devo stare attenta a non far differenze. Questi discorsi li fate tante volte verso i fratelli, ma quello che rende ragione e permette e consente che ciascuno sia amato secondo le caratteristiche e il bisogno che ha, è che io sia certo dell’amore che ricevo io; quindi questa è la strada che tutela: lo stare fino in fondo al rapporto per quello che esso è.
Un altro aspetto è la tenuta nel tempo. I nostri figli partono positivi e poi magari non tengono. La vera domanda è quando bisogna smettere … A volte capita, a volte bisogna dire che sta succedendo troppo casino e non si hanno le forze. D’altra parte leggo nel libro di Don Giussani, del problema fondamentale dell’esistenza umana che è il limite – questo ci diceva Cesana in apertura alla presentazione de “Il miracolo dell’ospitalità”.
Dentro l’esistenza umana quotidianamente si riscontra una soglia oltre la quale non si può andare. Il limite è quel livello oltre il quale da solo non posso andare ma ho bisogno dell’intervento di qualcun altro. Nessun rapporto è senza limite, neanche quello coi figli naturali, quindi non è un problema dell’affido, ci sono dei punti in cui di fronte al figlio che ho generato mi devo fermare – e guardate che comincia presto, non è solo per gli adolescenti che mi devo fermare. Il limite è un fatto che può essere tranquillamente presente anche dentro un’esperienza di affido. (…) Ci sono tante linee di fragilità o di difficoltà dentro ogni rapporto di coppia e di famiglia e queste linee di fragilità possono diventare linee di spaccatura. Su queste cose bisogna lavorare, starci e non da soli. Questo è il motivo per cui ho ripreso quel punto del libro, sia perché il limite c’è, ma soprattutto perché ho bisogno dell’intervento di qualcun altro.
 L’affido da soli è un controsenso perché è un’esperienza che è fatta con un altro. È dentro il rapporto con un altro che in qualche modo tu lo verifichi e ci sono dei momenti in cui bisogna dire: quel che dovevo dare evidentemente ho già dato e rimango aperto ad altre forme, perché questa è la cosa che l’uomo fa fatica a capire. Noi ci incaponiamo sulla forma, la forma di averlo lì come avevamo pensato fin dal principio, cioè capaci di accoglierlo dalla mattina alla sera per 365 giorni col cuore spalancato. Certo che questo è il desiderio e poi dopo troviamo la forma e a volte questa forma può cambiare ed è più utile proporne un’altra a questo ragazzo o ragazza o bambino, per preservare quello che fino a quel momento si è dato. La sofferenza dei nostri figli è una delle cose di cui tener conto dentro questa valutazione della forma perché il rapporto di affido non finisce mica quando il ragazzino esce di casa; i rapporti, una volta che si sono impiantati, restano e mutano a volte nella forma in cui si esprimono.
(…)
“Nel cuore trafitto l’eterno e l’infinito diventano così visibili nella gratuità dell’amore di Dio. L’uomo non è capace di comprendere l’eternità e l’infinito ma può farne l’esperienza nell’impatto con la gratuità” (Padre Mauro Repoli abate cistercense, Svizzera). Vi leggo questo per dire che la questione non è come educare nella gratuità, come educare nell’accoglienza, è l’accoglienza che educa, così come genera l’accoglienza educa, tira fuori da noi quello che neanche sapevamo di avere ma che è quello per cui siamo fatti. Non è come educhiamo i nostri figli, a cosa li educhiamo, non è che noi attraverso l’accoglienza li educhiamo a qualcosa perché diventano più generosi, più buoni – conseguenze così possono esserci o non esserci affatto – ma noi attraverso questa esperienza dell’accoglienza li portiamo a riconoscere ciò per cui sono fatti anche se questo riconoscimento è la ferita, di cui parla qui il Padre, una ferita da cui sgorga misericordia, perdono, l’amore di cui abbiamo bisogno. Quindi l’accoglienza non è un escamotage educativo, per cui noi facciamo un uomo migliore attraverso l’accoglienza – è anche vero – ma ne facciamo un uomo migliore in quanto ne facciamo un uomo più compiuto perché l’uomo è fatto per questo.
Ciò che compie e dà la felicità, è amare ed essere amati, è il bisogno stabile del  cuore dell’uomo.
(trascrizione non rivista dall’autrice)



LETTERE AL PAPÀ E ALLA MAMMA CITATE A CORREDO DEL PRECEDENTE ARTICOLO


Carissimo Papà,
ho scritto questa lettera perché ti voglio dire che ti voglio bene. Anche quando non ci sei, ti penso tanto e mi chiedo se ci fossi tu, in questo momento o in questa circostanza cosa avresti fatto.Un giorno che mi ricordo e mi ricorderò sempre, è quando avete portato a casa i due bambini che adesso sono affidati alla nostra famiglia.
Quel giorno ti ho visto molto felice. Io non ero troppo contento, perché non ero abituato ad avere due fratellini più piccoli.
All’inizio non mi avvicinavo a loro, ma tu mi hai dato coraggio e a poco a poco sono riuscito anche a giocare con loro, grazie a te. Ma certe volte mi rompevano i giochi o mi disturbavano. Allora, io li sgridavo e la maggior parte delle volte anche davo loro qualche botta. Ma tu, come sempre, mi insegnavi quanto fosse importante avere due fratellini a cui si possa dare il buon esempio e cercare di non arrabbiarsi troppo con loro. Però io non riuscivo in ogni caso ad accettarli come miei fratelli e non ci riesco neanche adesso. So che tu cerchi in tutti i modi di farmi accogliere i due bambini come miei fratellini, ma non ce la faccio. In quei giorni mi sono chiesto cosa avrei fatto o detto ai miei fratellini se non ci fossi stato tu lì ad aiutarmi.
Con affetto
Tommy



Mamma e papà carissimi,
mi chiedete di parlare di Beppe, ma se penso a lui, a questi anni vissuti insieme, penso innanzitutto a voi. Sì, perché in fondo a me non è stato chiesto nulla se non di volergli bene (come quella famosa volta in Tribunale). Volergli bene, che ha voluto dire accoglierlo per quello che è, con tutto quello che è lui e con tutto quello che sono io. Niente di più. Certo, non è stato semplice e immediato; mi vengono in mente tanti episodi in cui ho cercato di imporgli quello che volevo io (cioè che fosse trattato come persona normale). Ma forse il bene è tutto lì. È stato, ed è, una sfida, un modo attraverso cui il Signore mi diceva di “non sedermi sulle cose”; perché in una sfida uno non deve mai abbassare la guardia, nonpuò mai dire “sono arrivato”. E nel rapporto con lui io sono cambiata, sto cambiando tutta me stessa.
E questo lo devo innanzitutto a voi. È nel vedere la tenera tenacia, l’amore con cui non lasciate cadere nulla, che ho sperimentato il modo più vero di stare in un rapporto: la gratuità, l’amore gratuito.
Vi ringrazio per questo, perché lo vedo nei rapporti di tutti i giorni e desidero impararlo anch’io. E ringrazio il Signore per il dono di Beppe. Io non so quale sia il suo disegno buono su di lui, ma so che c’è, e se posso farvi parte, io ci sono.
Con affetto.
Maddalena



Carissimi mamma e papà,
cos’è stata e cos’è per me l’accoglienza di Beppe? Nel tentare di rispondere a questa domanda, mi vengono in mente due cose:
1. Innanzitutto quella di accogliere Giuseppe non è stata una scelta mia, ma una circostanza decisa da voi, a cui ho semplicemente dovuto dire sì: in modo semplice ed ingenuo ho aderito a questa scelta e Beppe, un bambino un po’ particolare, è diventato quasi subito “mio fratello”. Il mio primo sì consapevole ed insieme un po’ impaurito è stato quello davanti al giudice del tribunale per i minorenni al momento dell’adozione di Beppe. Mi accorgo che dire sì ad
una circostanza scelta da altri è stata, come altre volte nella mia vita, più utile e più importante per me di altre cose scelte direttamente da me.
2. Sono contenta che mi abbiate resa partecipe di questa scelta e vi sono grata per questo. Proprio a partire da quanto ho vissuto insieme a voi, adesso che mi sono sposata desidero che questa eredità prosegua anche nella mia nuova famiglia. È per questo motivo, e per continuare ad imparare questa accoglienza, che invito Giuseppe a cena da noi tutte le settimane. Desidero, infatti, che la mia nuova famiglia abbia la stessa capacità di accoglienza,
anche se secondo modalità diverse, ponendo l’attenzione a ciò che ci verrà chiesto e di cui saremo capaci.
Elisa



“Quanti fratelli hai?”. Quando mi viene posta questa domanda io rispondo sicura: “Quattro; in tutto siamo in sette in famiglia!”. Alla mia risposta, ovviamente, la maggior parte delle persone rimane perplessa e spesso stupita, perché sembra strano che ci siano ancora famiglie così numerose. Inizio poi a raccontare un po’ di ognuno dei miei fratelli, spiegando che le due sorelle più grandi sono già sposate, che il fratellino piccolo mi fa spesso disperare e che quello
più grande è tra noi il più speciale. E allora la gente, incuriosita, mi chiede com’è e cosa fa; io entusiasta inizio a raccontare di lui e delle sue stranezze. Mi piace molto parlare di Beppe, elencare tutte le sue manìe, soffermarmi sui suoi atteggiamenti non sempre comprensibili, e cercare di spiegare il rapporto che ho con lui, che di certo non è sempre facile!
Da quanto mi racconta mia mamma, io con lui ho sempre avuto, fin da piccola, un rapporto molto duro e contrastato, fatto di dispetti e scherzi poco carini. Però mi sono anche difesa bene: se lui mi rovesciava dalla carrozzella, io qualche anno dopo gli tiravo con violenza i capelli, finchè me ne ritrovavo alcune ciocche nei pugni. Insomma, il nostro è stato un rapporto poco tranquillo, ma senza dubbio affascinante… e continua ad esserlo tuttora!
Lui mi prende in giro con sulla faccia un ghigno che mi irrita incredibilmente; a volte non risponde quando lo chiamo, costringendomi a cercarlo per tutta la casa, finchè mi accorgo che è comodamente seduto in poltrona e semplicemente non ha voglia di rispondere; quando gli chiedo di fare una cosa, non sempre mi ascolta, forse perché a me non attribuisce la stessa autorevolezza riconosciuta ai nostri genitori. Tuttavia, quando arrivo a casa è il primo ad
accogliermi, venendomi incontro sulle scale e domandando “posso appenderti la giacca?”; poi mi accompagna in casa e mi chiede “Cecilia, come è andata oggi? Cosa hai fatto?”. È interessato e attento a me, ovviamente a modo suo, e cerca spesso di capire se la sera esco, se sono a casa con lui, o se invito qualche amico a vedere un film. A volte mi piace saltargli in braccio, abbracciarlo stringendolo forte e dargli baci sulle guance, ma lui si irrigidisce subito e mi respinge… Non è fatto per questo tipo di smancerie!
A volte quando lo guardo mi chiedo cosa stia pensando, se sia triste o felice, se si renda conto della sua diversità… Sono curiosa di sapere come mi giudica, se mi vuole bene o se non mi sopporta. Ma in fondo sapere questo non cambierebbe niente, lui rimarrebbe sempre il Beppe, il mio fratellone un po’ speciale del quale vado fiera.
Cecilia


Il perdono della diversità
Come accogliere i genitori anziani



Questo era il tema dell’incontro organizzato a Milano il 30 gennaio scorso per le famiglie che stanno vivendo l’esperienza di accogliere i propri genitori anziani, spesso non più autosufficienti.
Ma il relatore invitato a parlarne, don Roberto Colombo, ha voluto che si partisse anzitutto dal racconto della vita concreta, per mettere meglio a fuoco la problematica che ne risulta. E così da una dozzina di interventi (erano presenti più di 60 persone) è emersa una ricchezza di osservazioni che sono state definite la verità e la bellezza del mistero che si manifesta nella vita e che possono essere riassunte in 4 questioni fondamentali: La prima questione sta nella concezione della vita: c’è un modo di concepire la vita come una parabola in ascesa fino ai 50/60 anni e poi in discesa verso un decadimento generale, prima fisico, poi psicologico ed intellettivo, per cui la vecchiaia è vista come un arrendersi alla debolezza e al limite, cosa che porta tristezza se non addirittura depressione. Questa cultura, che è attualmente dominante, si scontra con il desiderio di felicità e di compimento che ciascuno di noi ha in cuore; ed è più corrispondente a questo desiderio la concezione della vita come una salita verso la vetta: “la fatica della salita è condizione per arrivare alla cima, dove ti si aprirà davanti agli occhi un paesaggio molto più ampio e completo”.
Occorre aiutarsi, ed aiutare i nostri genitori anziani, ad avere questo sguardo sulla vita e sulla propria persona.
La seconda questione riguarda il perdono o il rapporto con la diversità considerata da due punti di vista: da una parte, l’essere diventato diverso ( malato o debole o non più autosufficiente) non è facilmente accettato dall’anziano, che spesso si lamenta di non valere più niente perché non riesce più a fare cose che ha sempre fatto prima o perché è diventato di peso per gli altri; ma anche il figlio che lo accudisce non riconosce più il proprio genitore che ha perso le sue caratteristiche di persona autonoma: “È come se i ruoli si fossero completamente invertiti, per cui la mamma sono diventata io; ma io non sono la mamma di mia mamma, io sono sua figlia”. A volte basta alzare lo sguardo dalla propria situazione particolare, sentire il racconto di altri che vivono condizioni di infermità più pesanti o condividere con gli amici i momenti più duri, per accettare il cambiamento, che – ci ha sottolineato don Roberto alla fine – “èla dinamica dell’io: Dio non ci ha creato perché fossimo immutabili”.
Il problema dei nuovi rapporti che si instaurano, sia con il genitore anziano, sia con i famigliari a lui interessati, è un’altra delle questioni che emergono con particolare evidenza:
e non solo perché possono ritornare a galla incomprensioni e difficoltà non risolte con i genitori o i fratelli, sopite negli anni, ma anche per degli aspetti positivi che possono emergere nei rapporti famigliari, tra moglie e marito o con i figli: ad esempio, le generazioni più giovani della famiglia hanno l’occasione di “toccare con mano” che cosa fonda la loro famiglia e come è naturale comportarsi con affetto e pazienza verso i nonni sofferenti. La persistenza nella famiglia delle diverse generazioni è senz’altro un valore da salvaguardare, perché permette una educazione ad accogliere i bisogni l’uno dell’altro e a vedere non solo i propri bisogni. “Cerco sempre di coinvolgere i nipoti nell’accudire l’anziano, perché la mia esperienza è che è stato utile per me, oltre che per i miei genitori a cui ho dato un bell’apporto nel sostenere il peso dell’assistenza”; ma soprattutto perché “l’esperienza non tollera di essere disgiunta, ma si può essere padri e madri solo se si accetta fino in fondo di essere figli…quando si sta di fronte al proprio padre e alla propria madre in ogni circostanza della vita”.
Una quarta questione, la più difficile da accettare, è “la fatica esagerata” con cui in certi casi si devono fare i conti: si vorrebbe capire perché, nonostante l’affetto e il desiderio di essere
attenti ai bisogni dei nostri cari, “a volte la mia stanchezza è più forte di me”, così forte che ci si sente schiacciati o ci si ribella di fronte alle “pretese” di chi ci vorrebbe a sua completa disposizione. Si fa fatica anche ad accettare il proprio limite, ci si sente in colpa se non si è in grado di accogliere in casa e si deve ricorrere ad una struttura, ma – ribadiva don Roberto – “il senso di colpa è l’espressione di una persona che vive senza Dio, perché è come se pensassi che tutto dipende da te”. Invece perché la fatica sia vissuta in modo più umano occorre sentirsi ed essere realmente liberi riconoscendo “che l’Onnipotente è Dio” e non noi.
Ma la questione cruciale è quella che investe ogni forma di accoglienza, che è l’amore alla libertà dell’altro: volere il bene dell’altro significa “ non imprigionarlo in una gabbia d’oro che noi gli possiamo costruire… I nostri anziani, i nostri genitori si rifiutano di vivere in una gabbia d’oro, anche se bellissima,” anche se li accogliamo in casa, cioè va rispettata la loro libertà, che è la libertà dei figli di Dio. Una testimonianza raccontava di come sia stato bello per uno dei nostri genitori partecipare per come poteva ai momenti di vacanza o di incontro che i figli vivevano con altre famiglie, entrando a far parte di un’amicizia più larga
che l’aveva potuto aiutare a vivere serenamente gli ultimi anni. Ma il bene, il destino di ognuno non siamo noi a stabilirlo.
Come corollario, ma non per questo meno importante, è stato sottolineato che la sofferenza, causata dall’accorgersi di dover dipendere l’uno dall’altro, diventa pedagogia: “non c’è umiliazione più grande che accettare di dover dipendere, ma è attraverso l’accettazione di una dipendenza che si scopre la domanda di infinito che ciascun uomo ha in sé”.
Questo non vale solo per i nostri genitori, ma anche per noi, che dipendiamo da loro perché non possiamo più fare tutto quello che vorremmo (alla sera dobbiamo essere lì, la notte ci dobbiamo alzare e la mattina se si va a lavorare non si riesce a farlo con la stessa freschezza e tranquillità, si è limitati nella nostra vita): ma – concludeva don Roberto – “non bisogna pensare di smenarci, ma di guadagnarci, perché l’uomo guadagna attraverso l’accettazione di unadipendenza”.


Un’indicazione per aiutarci a riflettere su come vivere il rapporto coi propri genitori è la lettura di alcune pagine di E. Mounier (Lettere sul dolore, pagg. 93-96):


pag. 94: Occorre ritornare alla vera natura dell’affetto; essa non consiste nell’essere
felici insieme, ma nell’essere più insieme. Si tratta della legge del più della crescita spirituale e della verità che fa male, del sacrificio che fa male, della lotta che fa male. “Il mio regno non è di questo mondo” significa che l’armonia non è di questo mondo; l’affetto troppo armonioso, l’accordo troppo stabile, la dolcezza troppo sistematica, l’ottimismo troppo conciliante sono
parzialmente frutto della menzogna.


Pag.95: Apparentemente, sono molto lontano dalla vecchiaia. Invece mi sento molto vicino a te, perché l’orizzonte, che mi apri sulla tua esperienza di vecchiaia, non vale in sé, ma in quanto illumina un essere amato nelle sue vere difficoltà al di là delle illusioni della vita.


Pag.95-96: “Onorerai il padre e la madre” ha per me…il senso di un’esperienza molto precisa. “Li vedrai invecchiare”, vivrai una vita forzatamente separata da loro…le possibilità di comunicare tra voi diminuiranno non soltanto per la lontananza, ma anche per le divergenze delle vostre vite… Costruiamo invece ora una realtà ben più forte, ben più bella, l’affetto di un uomo adulto,
di una donna adulta per un uomo adulto, nato dalla loro opera e che ritorna a loro con la  propria. “Onorerai i tuoi genitori”, cioè li aiuterai in questa trasfigurazione… li aiuterai con la tua giovinezza a superare la vecchiaia; non li lascerai sprofondare dietro la barriera della loro decadenza fisica; demolirai costantemente questo muro che si erge davanti a loro, nella misura in cui ciò dipende dalle tue forze. (a suo padre)



Fecondità e adozione


Volevo testimoniare con la mia storia, che è una storia di molti, come la fecondità non deriva esclusivamente da un fatto biologico, ma può nascere in altra maniera, che non è un di meno: mi riferisco all’adozione.
Adottare, per me e per mio marito, è prima sorto come un impeto naturale, poi è venuta l’intuizione, vivendo il cammino di un esperienza cristiane e di una amicizia fraterna, che l’accoglienza di un figlio adottivo potesse, non solo sostituire la mancanza di un figlio naturale, ma dare anche più pienezza alla nostra famiglia. E così è stato, anzi nel tempo ha incrementato la nostra umanità ed h aperto la nostra famiglia, educata e sostenuta da una compagnia, verso la possibilità di altri tipi di accoglienza anche meno gratificanti.
Si può pensare dall’esterno ad una genitorialità un po’ monca. Certo un pezzo manca, il fatto della procreazione, circostanza che non si può eludere e che la vita porta sempre a galla.
In un genitore adottivo, però, si impone con maggiore consapevolezza che “genitore è chi si fa carico personalmente, stabilmente e per sempre delle esigenze di un bambino, della sue necessità di essere aiutato a crescere”.
Emerge con prepotenza il compito fondamentale del genitore (anche se il figlio non è procreato) che è quello di accompagnarlo per la sua strada e verso il suo Destino.
L’adozione è un’avventura molto coinvolgente sotto il profilo emotivo, ma non è una cosa sentimentale, né un gesto di altruismo “buonista”, come molti sono portati a credere. Si tratta di un impegno concreto, spesso difficile e per tutta la vita. la coscienza che il bambino non è stato procreato e che è diverso da te  completamente (non ha i tuoi geni) può essere dolorosa, ma aiuta il genitore adottivo a liberarsi da quel desiderio di possesso che istintivamente si ha verso un figlio, ti rammenta costantemente che non è una cosa tua, perché tu hai sempre davanti agli occhi un mistero, che non è solo il mistero in senso etico di ogni persona, ma proprio in senso materiale, fisico, di una persona in parte sconosciuta.
Questa è stata la nostra scelta e ve la propongo come ulteriore possibilità di  completezza familiare.
Adriana Famà,
Taranto


(intervento preordinato al convegno “Fecondazione assistita: maternità,libertà, diritti del nascituro” organizzato nel marzo scorso a Taranto dall’Associazione Medici Cattolici
Italiani e Convegni di Cultura MariaCristina)