TERRASANTA INSANGUINATA: Fermiamo l’esodo dei cristiani

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Il nunzio a Gerusalemme: rilanciare i pellegrinaggi per aiutarli a restare
«Non ci sarà pace finché ognuna delle parti in causa si attribuisce tutte le ragioni e riversa tutti i torti sull’altra». «Se diminuisce la presenza dei cristiani, è una perdita secca per la possibilità di convivenza nella regione»


Dal Nostro Inviato A Gerusalemme Giorgio Paolucci

«Qui non ci sarà pace finché ognuna delle parti in causa si attribuisce tutte le ragioni e riversa tutti i torti sull’altra. La pace comincia quando si diventa veri, cioè quando si riconosce che c’è qualcosa di più grande del proprio punto di vista e ci si mette in gioco riconoscendo ciascuno le proprie responsabilità. Questa è una città scelta da Dio per portare la pace agli uomini, ma gli uomini stanno tradendo questo dono. Pregate per Gerusalemme, qui c’è la chiave della convivenza per tutto il mondo». Sulla terrazza della nunziatura apostolica che dal Monte degli Ulivi offre un incantevole panorama sulla Città Santa, monsignor Pietro Sambi parla con realismo amaro del difficile momento che sta vivendo la Terrasanta, ma non demorde: si deve continuare a sperare, e i cristiani possono giocare un ruolo strategico di ponte tra le parti in causa. Ma bisogna fermare la loro emigrazione dalla terra dove è nato Gesù.
La pace è destinata a restare un sogno in Terrasanta?
È un traguardo ancora lontano, al termine di un percorso che presenta alcuni nodi fondamentali da sciogliere: confini internazionalmente riconosciuti e garantiti da una consistente presenza internazionale che superi le reciproche diffidenze di israeliani e palestinesi; soluzione della questione degli insediamenti ebraici – che sono un ostacolo oggettivo alla costituzione di uno Stato palestinese – e dei rifugiati palestinesi del ’48; suddivisione dell’acqua, una questione vitale ai bordi del deserto; da ultimo, il nodo di uno statuto speciale per Gerusalemme. La gente non ne può più delle tensioni continue e degli scontri, di una situazione che genera precarietà economica e incertezza sul futuro da entrambe le parti. Due esempi di questi giorni: una madre israeliana mi ha raccontato l’angoscia con cui al mattino manda i figli a scuola su due autobus diversi per avere la ragionevole certezza di salvarne almeno uno dai kamikaze; e una famiglia palestinese è stata svegliata di notte da un bulldozer israeliano che ha demolito la sua casa come rappresaglia contro un attentato.
Il piano di ritiro da Gaza proposto da Sharon può rappresentare un punto di svolta?
Prima di esprimere un giudizio sulla sua efficacia bisogna aspettare che il progetto diventi operativo. Sharon è già in minoranza alla Knesset, e lo resterebbe anche se i laburisti entrassero nella maggioranza per sostituire i membri del Likud che dissentono dal primo ministro. Ora tutto è fermo perché siamo alla vigilia delle festività ebraiche, dopo di che si arriverà necesariamente a un chiarimento politico, e se Sharon non avesse una maggioranza chiara si andrebbe ad elezioni anticipate. In quel caso il piano resterebbe lettera morta.
La comunità cristiana rappresenta ormai solo il 2 per cento della popolazione israeliana, e l’emigrazione non sembra finire…
Le ragioni di fondo per cui si emigra sono l’instabilità politica ed economica e la mancanza di prospettive. Perciò si deve anzitutto lavorare per una pace stabile che garantisca indipendenza ai palestinesi e sicurezza agli israeliani. I cristiani si trovano in una morsa tra ebrei e musulmani, ma la loro presenza è essenziale: hanno rapporti vitali con entrambe le comunità, testimoniano una concezione della vita che mette al centro la dignità della persona, possono fare da ponte diffondendo una logica di riconciliazione che aiuti a porre fine alla spirale delle ritorsioni. La loro debolezza è una perdita secca per tutti.
Che fare concretamente per aiutarli a rimanere?
La risorsa più importante è il rilancio dei pellegrinaggi. Dopo il 28 settembre 2000, data di inizio della seconda Intifada, il mondo ebraico ha mostrato grande solidarietà nei confronti degli ebrei d’Israele e quello musulmano ha fatto altrettanto verso gli islamici di qui, mentre i cristiani, che prima venivano numerosi a visitare i Luoghi santi, si sono volatilizzati. La paura ha bloccato i pellegrinaggi, eppure nei sette anni che sono qui non ho mai sentito di un pellegrino che abbia incontrato problemi. Da qualche mese c’è una ripresa, ma è ancora troppo poco. Venendo qui anche per pochi giorni si aiutano i cristiani a superare il complesso della minoranza in estinzione, a riaffermare il loro diritto a vivere insieme, a sentirsi oggetto di attenzione amorosa da parte della grande famiglia cui appartengono, e si aiuta lo sviluppo economico di zone che basano la loro economia sul turismo religioso. Inoltre la presenza di gente che pregando, cantando, convivendo, percorre regioni dove l’odio impregna anche l’aria, è un contributo ad allentare la tensione e a portare mattoni per l’edificio della pace. Certo, servono anche aiuti economici: scuole, borse di studio, cure mediche, adozioni a distanza. E il muro renderà necessari nuovi centri di salute e altri centri pastorali perché le comunità vengono di fatto divise. Occorrono soldi, ma nulla è più efficace della presenza fisica dei pellegrini.
Com’è andata la sessione di negoziati tra Santa Sede e governo israeliano che si è tenuta nei giorni scorsi a Gerusalemme?
Ci sono due elementi molto positivi: la ripresa delle trattative dopo una parentesi lunga un anno e i progressi registrati in questi tre giorni. Ma restano ancora aspetti importanti su cui trovare un accordo e saranno quindi necessari altri incontri prima di arrivare alla stesura finale del documento.
L’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede prevede che tutto si possa concludere entro la fine dell’ anno.
Non sono preoccupato per i tempi, bisogna che il contenuto sia chiaro, adeguato alle esigenze di vita quotidiana delle comunità e che non dia luogo a contestazioni.
A che punto è la vertenza sui visti per il personale religioso, su cui erano stati fatti rilievi per il comportamento delle autorità israeliane, in particolare nei confronti di chi arriva da Paesi arabi?
Ormai la quasi totalità del personale religioso cattolico ha ottenuto il visto. Bisogna però mettere a punto dei meccanismi per evitare che ogni anno, quando si deve rinnovare il permesso, ci si debba sottoporre a questa gigantesca trafila. Ci vorrebbero norme scritte che introducano un certo automatismo.
Un anno fa il Vaticano ha nominato il benedettino Jean-Baptiste Gourion vescovo per la cura pastorale dei cattolici di espressione ebraica. Come sono i rapporti con questa componente molto particolare della comunità?
Un certo numero di ebrei si erano convertiti, specie durante la seconda guerra mondiale, colpiti dall’amore testimoniato dai cristiani che si erano esposti per salvare la loro vita. C’è poi un nuovo fenomeno: un milione 200mila immigrati dalle repubbliche dell’ex Urss, un quinto della popolazione israeliana, il 40 per cento dei quali non è ebreo. Alcuni si riconoscono nella Chiesa ortodossa, la maggior parte è cresciuta nell’ateismo ma venendo qui, e anche respirando l’atmosfera della Terrasanta, sente rinascere un desiderio religioso. A chi bussa bisogna aprire, a chi domanda di essere accompagnato si deve offrire una risposta. Senza scorciatoie: c’è un percorso di almeno due anni di preparazione al battesimo per gli adulti. Ma senza alcun timore, qui il proselitismo non c’entra.


Da AVVENIRE di Martedì 14 Settembre 2004