Svelata la grande bugia dell’antifascismo
In Italia non si usa scrivere un libro come quello di Giampaolo Pansa, in vendita da martedì 11 ottobre. Bisognerebbe intitolarlo proprio così: “Finalmente!” È come se qualcuno avesse ridato la voce a un popolo cui avevano tagliato la lingua e a noi ciechi avesse restituito la vista…
di Renato Farina
Finalmente! Scusate il punto esclamativo, tra i bravi giornalisti non si usa. Ma non si usano tante cose. Ad esempio in Italia non si usa scrivere un libro come quello di Giampaolo Pansa, in vendita da martedì prossimo. Bisognerebbe intitolarlo proprio così: “Finalmente!” È come se qualcuno avesse ridato la voce a un popolo cui avevano tagliato la lingua e a noi ciechi avesse restituito la vista. Che bello dare aria alla memoria, essa è intrisa di tanto sangue e lacrime, ma senza memoria si è sacchi riempiti di patate e di balle. Invece così si può guardare la vita, riconoscersi persino un po’ fratelli anche con i discendenti di chi ti ha fucilato e seviziato il padre o la madre. Il volume si chiama “Sconosciuto 1945”. Era la scritta incisa sul cartello di metallo che appendevano al petto dei cadaveri dei fascisti o presunti tali buttati nelle fosse comuni dopo le sommarie esecuzioni o i linciaggi venuti dopo il 25 aprile. Ho provato dopo tre pagine l’emozione che mi ha fatto sobbalzare da ragazzo, alla lettura di “Arcipelago Gulag“. Anzi, più forte. Aleksandr Solgenitsin aveva raccolto migliaia di storie di deportati nei campi di concentramento sovietici. Questo è invece il nostro “Arcipelago“. Le piazze delle stragi di gente inerme le attraversiamo il mattino distrattamente, e non sapevamo. Non sapevamo niente. I ragazzi specialmente non sono informati di nulla e la scuola tace o addirittura mente. E i vecchi zitti. C’erano tanti libri, ne continuano a uscire. Ma la loro voce ammirevole è ritenuta esagerata, di parte, macchiata dalla parentela politica col fascismo. Citiamo solo i libri fondamentali di Giorgio e Paolo Pisanò, trattati anche loro come gli assassinati di cui raccontano: non devono esistere. Pansa ha bucato il sortilegio dell’invisibilità. È, per buona sorte dei dimenticati, uno di sinistra (di sinistra? Non sappiamo cosa vuol dire qui: è un uomo perbene). Rimpiange di essere arrivato tardi, e alcuni lo rimproverano nel libro di questo tempo perduto, ma bisogna solo dire grazie: c’è qualcosa che non si perderà. Sta a Siena, Pansa, in una casa antica e quieta. Non ha mai lavorato così tanto come da quando è in pensione.
SOLGENITSIN ITALIANO
Nelle prime pagine scrivi delle due casse di lettere ricevute dopo il primo libro sulle stragi (“Il sangue dei vinti”). Viene in mente Solgenitsin, e il lavoro per Arcipelago Gulag. Anche lui le casse di lettere, la fatica di ordinarle. Ti sei accorto di questa somiglianza? «Davvero? Sarei troppo presuntuoso. Qualcosa è accaduto con “Il sangue dei vinti“. Ha venduto 400mila copie, ma non è quello. Mi ha impressionato che la stessa mattina in cui è uscito il libro mi sono arrivate per via elettronica due lettere all’Espresso dov’ero condirettore. Gli autori non avevano nulla da spartire con questo mondo, hanno dovuto cercare l’indirizzo: e mi hanno rimproverato di aver dimenticato due storie (e ho rimediato ora). Mi sono reso conto dell’esistenza di un altro mondo». Atlantide in Italia. «Un mondo di persone vastissimo ma condannato all’inesistenza. L’antifascismo imperante lo aveva negato. E non sono tanto i fatti passati, ma quello che il loro oscuramento si trascina nel presente, soffocando l’anima di forse mezzo milione di persone». Così tanti? «Ci vuole poco ad arrivare a questa cifra. Gli uccisi – non dico i morti, che è troppo generico – sono stati almeno ventimila, escludendo Umbria e Toscana. Parlo di persone eliminate dopo la guerra. Non erano dei signori che vivevano in empireo ». Nel libro li si vede muoversi con accanto bambini e bambine. Come le sorelline Solaro di Torino, figlie del prefetto. «Non avevo parlato con loro nemmeno al telefono, mi hanno aperto le porte. Come loro intorno agli uccisi c’erano madri, fratelli, zii. Centinaia di migliaia di persone hanno tenuta questa loro storia chiusa nel cuore, non ne hanno parlato perché avevano paura. Un conto è essere figlio di partigiani, puoi parlarne, sei discendente di un eroe, di un martire. Gli altri zitti. Quei morti non esistono. Neanche la lapide. Mi sono reso conto di avere aperto uno spiraglio non più su un mondo di morti ma di vivi, stanno in pensione, bevono il caffè accanto a noi, e hanno questo peso inesprimibile». Finalmente, ti dice una donna quando la vai a trovare. «Un signore mi ha accolto così: “Ah dottor Pansa, finalmente, aspettavo la sua testimonianza, e ora temevo che lei mi cercasse quando ero già morto. Ho 80 anni ormai”».
CITTADINANZA DELLA MEMORIA
Se aspettavi ancora un po’, tutto sarebbe sparito, qualcuno dice che è meglio l’oblio, che la convivenza si regge su questa smemoratezza del male ricevuto e dato. «Guai, guai. Che si vive a fare se si rinuncia alla verità? La storia di un Paese è fatta di coloro che hanno combattuto guerre sbagliate, cercato traguardi assurdi. Occorre accettare questo, e onorare chi ha sofferto, non per forza condividerne la memoria, ma accettarla, darle cittadinanza. La democrazia è questo: e la peggiore democrazia è meglio della dittatura più morbida. Queste ricerche da dilettante (grazie a Dio non sono un accademico) mi hanno impartito una grande lezione di umiltà. Quante cose non vedevo immerso nella nebbia. Bisogna essere umili, accorgersi della realtà. Sono di Casale Monferrato, al mattino presto attraversavo i giardini per prendere il treno e andare all’Università, andavo a tentoni. Lentamente la nebbia intorno a me si è alzata». Chi l’ha fabbricata quella nebbia? «L’antifascismo. Non disprezzava neanche, proprio non faceva esistere quell’Italia. La negava. Come può esistere infatti chi prova dolore e amore per dei sadici torturatori complici della Gestapo? Ma la nebbia si è diradata. Vedo alberi che prima non supponevo nemmeno. Un campanile che prima non esisteva. Così la vita di questa gente. Ora mi domando a chi darò queste lettere, a chi le lascerò, non sono più un patrimonio mio». Racconta di te dinanzi a queste persone. «Sono un laico incerto, ma ho provato ed ho un grande amore per questa gente che non mi assomiglia. Loro sono entrati nella mia vita, ed io nella loro. Mi hanno fatto entrare nelle loro case. Mi hanno affidato il loro tesoro più prezioso, io che ho altra memoria e altra storia. In una città emiliana, un grande avvocato racconta a me per la prima volta del padre, bravo poeta, portato via, malamente sepolto, dopo essere stato ucciso e torturato. Una pepita d’oro, l’ha data a me. Ricordo con commozione la fiducia che queste persone hanno riposto in un signore coi capelli bianchi. Un pomeriggio… non lo dimenticherò… le signore Solaro, non gli avevo mai parlato, neanche al telefono, mi hanno aperto la loro porta e la loro vita». Ascolta. Ti diranno: che ti commuovi a fare. Solaro era il comandante delle Brigate nere di Torino, perché restituire l’onore a quest’uomo? «Perché sì. Non voglio fare l’elogio di Solaro. Ma, dando la parola a quelle signore, che allora erano piccole piccole, so di aver fatto una cosa buona. Mia mamma mi diceva: “Fa’ il bravo”. Significa tutto: non fare del male, sii buono, gentile, tratta bene i deboli, cerca di aiutare chi è in difficoltà. Io ho fatto il bravo».
«LE ACCUSE? CHISSENEFREGA»
È accaduto qualcosa in te perché fosse possibile questo libro? «Per me è stata una lunga marcia di avvicinamento. A 19 anni studiavo… ». Va bene, ma nessun salto? «Non so come, è cambiato qualcosa in me. Ho compiuto 70 anni, cinque giorni fa, forse invecchiando se uno cerca di vivere senza trucchi, c’è questo premio: la nebbia che si alza. (In realtà preferivo essere coglione ma giovane, questo però non c’entra)». Hai trovato qualcuno cattivo tra queste persone? «Devo dire che questa destra morale, legata ai ricordi personali, è di belle persone. Non me la immaginavo diversa. Non ho trovato risentimenti, odio. Nessuno mi ha sbarrato la porta con astiosità. Ci sono persone di sinistra tra i discendenti di padri assassinati». Nessuno tra loro odia il padre. «Nessuno. Qualcuno non mi ha voluto parlare. O per la posizione professionale o per non pregiudicare la propria carriera politica a sinistra. Non lo giudico. Non ho il diritto di giudicare. E tutti me lo hanno comunicato con sofferenza, rammaricandosi. Mi sono arreso». Il tuo metodo quando bussi alle porte? «Sono rimasto il ragazzino candido che stava in bottega con la mamma, e parlava con tutti, con un occhio amichevole e il gusto di ascoltare. Con il tempo, lo si capisce forse dal mio “Bestiario” sull’Espresso, mi sono fatto più malinconico». Malinconico? Ma dai che meni sempre… «Ah, meno male». Nel libro ritorna un giudizio su questa Italia dove vige una guerra civile non più sanguinaria, ma di parole. «Ad ogni elezione si scatena. E da noi si vota ogni anno. Da sinistra si tira fuori sempre questo antifascismo. Berlusconi come Mussolini, lo Stato autoritario imposto da Mediaset… Balle sovrane. Da destra, fate voi la riflessione. Bisognerebbe ricominciare da questo riconoscimento reciproco del diritto pubblico alla propria memoria. È qualcosa di benefico per tutta la vita civile: spinge le persone a parlarsi». Diranno: con questo libro fornisci un’arma alla destra. «Chissenefrega» Ti lanceranno di nuovo anatemi. Leggo quelli dell’ultima volta: voltagabbana, falsario, revisionista. «La polemica porta con sé copie vendute. Vado tranquillo per la mia strada. La gente è stanca di zuffe, di risse, il cane rabbioso non è di moda né a destra né a sinistra. Invece sia a destra sia a sinistra i politici sono tarantolati, sono pazzi. Si vive di conflitti, io pure ci vivo. Ma che sia civile, spiritoso, sardonico». Una guerra civile verbale può innescarne una sanguinosa? «Perché riaccada – Dio ce ne scampi – occorrerebbe un evento spaventoso, una bomba sporca dei terroristi, una crisi economica che affami intere classi sociali, un’epidemia che decimi la popolazione generando contrasti mortali. Quella, a parole, cui ci tocca assistere è fasulla, senza rischi, non richiede alcun coraggio. Dà risultati pessimi sul piano della vita civile, ma quelle vere sono così atroci che non c’è paragone ». Si può dire che la memoria che hai disseppellito ci fa diventare più buoni? «Una signora, Paola Augelli, mi ha citato Tertulliano: “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”. Lei lo aggiorna e dice: “di nuovi fascisti”. Ma aggiunge: c’erano brave persone da entrambe le parti. La memoria aiuta le brave persone.
Libero 7 ottobre 05